La rivolta degli schiavi che fa tremare la Cina. Tra gli schiavi del Guangdong rivolta nella fabbrica del mondo

La rivolta degli schiavi che fa tremare la Cina. Tra gli schiavi del Guangdong rivolta nella fabbrica del mondo


24 giugno 2011


ZENGCHENG NEL centro della capitale mondiale dell' industria tessile, simbolo del «sistema Cina», c' è un cartello spaccato sull' asfalto. Dice «Servire il Popolo» ed è tra gli slogan storici del partito comunista cinese.
 
Le rivolte da settimane scuotono la seconda potenza economica del pianeta. Da qualche giorno sembrano represse, ma l' icona spezzata della propaganda post-maoista è ancora qui, non rimossa, sulla strada.
 
È sorprendente che qualcuno a Zengcheng abbia avuto il coraggio di abbattere pubblicamente il verbo sacro della propaganda. Ancora più strano è però che la polizia e l' esercito del Guangdong, schierati per far cessare con le cattive le sommosse, abbiano dimenticato in mostra cocci tanto imbarazzanti.
 
Sono la testimonianza delle due Cine che dopo trent' anni si fronteggiano al primo avviso di rallentamento della crescita. La prima è quella ufficiale, in preda all' esaltazione rossa e patriotticamente arruolata per celebrare il 90º anniversario della fondazione del partito-Stato.
La seconda è quella sociale, consumata dalla delusione delle promesse del capitalismo comunista e collettivamente mobilitata per conquistare diritti altrove riconosciuti dalle democrazie.
Il Guangdong è l' epicentro dello scontro e non è un caso se il vento delle rivolte di massa si è alzato dalla cassaforte del miracolo cinese. Il "motore del Sud" negli ultimi cinque anni è cresciuto a una media record del 12,4%. Per i prossimi cinque ha dovuto ridimensionare le stime all' 8%, proiettando l' ombra dell' incertezza su una frenata nazionale al 7%. La regione-fabbrica produce però l' 11% del Pil cinese e un terzo delle esportazioni: per questo il messaggio che il "Guangdong non è felice", bruciante smentita della campagna "Felice Guangdong" lanciata a gennaio dal governatore Wang Yang, agita il potere di Pechino.
La crisi, nell' appiglio estremo della resistenza economica globale, non è del resto scoppiata l' altra settimana, quando decine di distretti industriali sono stati messi a ferro e fuoco.
 
A Shenzhen il colosso Foxconn da un anno è minato dai suicidi in serie degli operai.I primi scioperi di successo sono scoppiati poco lontano, nelle catene di montaggio delocalizzate della Honda. A Meishan, da lunedì, 4 mila operaie di una fabbrica di borse, che produce per i marchi più esclusivi del pianeta, sono in sciopero contro turni da 12 ore al giorno per 100 euro di paga mensile.
Può dunque apparire anomalo che l' attentissimo governo centrale di Pechino, impegnato nella transizione del potere dal 2012, si sia lasciato sfuggire il controllo della spina dorsale della sua legittimazione. Una settimana di guerriglia urbana, dilagata nello Zhejiang, nell' Hubei e nel Jiangxi, in Cina non si vedeva della rivoluzione di Mao.
L' allarme è però scattato dalla constatazione che non solo il Guangdong non è più felice. Alla colonna meridionale dell' industria si è aggiunta quella delle materie prime, con la grande rivolta del Nord, nella Mongolia Interna delle miniere. E si aggiungono Shanghai ad Est, dove la Borsa non smette di scendere da mesie manca l' energia elettrica per affrontare l' estate, e infine a Ovest anche Chongqing, considerata la nuova frontiera dello sviluppo hi-tech. Qui, stando alla propaganda, le cose vanno a gonfie vele.
Nel Far West defiscalizzato dell' Impero migliaia di capannoni e di grattacieli sono invece deserti, 32 milioni di abitanti vivono intossicati e solo il pugno di ferro di Bo Xilai, principino nascente del partito, frena lo strapotere mafioso delle triadi. Al fallimento dell' "Happy Guangdong", sconvolto dalle nascoste sommosse operaie, corrisponde così il trionfo delle "Lezioni di entusiasmo rosso", esportate da Chongqing per le nuove masse di inarrestabili migranti. Tra i due poli cinesi della produzione e della propaganda non si gioca però solo la sfida tra Wang Yange Bo Xilai, tesi a contendersi l' egemonia nel prossimo Politburo.
Lungo tale rotta, tra le canzoni della bandiera rossa e le sassate delle tute blu, si decide il destino della nazione candidata a guidare il mondo nel secolo contemporaneo. I tremila dirigenti comunisti e gli ottanta milioni di iscritti al partito applaudono al kolossal sulla fondazione del Pcc e si disputano due milioni di copiee duecento titoli sul proprio successo, «regalo sontuoso per il compleanno nazionale». I 280 milioni di migranti interni e i 540 milioni di operai iniziano invece a non accettare più «lo schiavismo di Stato» e a lottare per conquistare «una vita con meno armonia e più dignità».
Solo ora si comincia così a intuire l' inquietudine di Pechino davanti alla minaccia di una Rivoluzione dei Gelsomini, messa in scena a fine gennaio. Il Guangdong, Chongqing, Shanghai e la Mongolia Interna, i quattro poli dell' ascesa cinese, sono sconvolti da crisi locali, ma compongono il quadro di una medesima emergenza nazionale: il passaggio della Cina da un sistema economico fondato sulle esportazioni ad uno basato sul consumo interno e la sua mutazione sociale da universo agricolo a galassia di megalopoli. Zengcheng è un concentrato esplosivo anche di questo azzardo. Nell' ultimo anno, dopo l' aumento degli stipendi medi a 187 euro al mese, il 34% delle aziende ha chiuso e su 818mila residenti, gli immigrati hanno sfondato la soglia di 502mila.
Se l' Occidente avesse proseguito al galoppo, il prodigio dell' Oriente avrebbe potuto riprodursi. Il meccanismo invece s' è inceppato.
A Ovest sono calati gli ordini e saliti i debiti, ad Est si sfoltiscono le fabbriche ed esplode l' inflazione. Affinché il disagio economico muti in dissenso politico e i molti tumulti in una rivoluzione, mancano le forze capaci di sintetizzare un' opposizione. In tutto il Paese appare però evidente la nascita di un blocco sociale accomunato da un' ostilità al potere sconosciuta da decenni. Operai schiavizzati, contadini espropriati, neolaureati disoccupati, colletti bianchi indebitati, migranti senza diritti, anziani senza welfare, dissidenti incarcerati, gruppi etnici colonizzati e aspiranti candidati indipendenti perseguitati, formano un' inedita massa a-ideologica decisa a non festeggiare il prossimo genetliaco della nomenclatura rossa.
 
La Cina scala posizioni all' estero, ma si scopre corrosa da sotterranee debolezze interne: salari inaccettabili, inflazione fuori controllo, prezzi alimentari alle stelle, insufficienza energetica, disoccupazione in crescita, esplosione del divario tra ricchi e poveri, funzionari corrotti, polizia incline agli abusi, costo degli immobili insostenibile, servizi sociali inesistenti.
I nipoti di Mao Zedong si svegliano così avversari dei figli di Deng Xiaoping e una classe dirigente invecchiata si rivela idonea a negare libertà, ma inadeguata a convertire la violenza in salute della crescita. Il partito prende atto che novant' anni, senza riforme strutturali, più che il traguardo di una longevità politica sono il capolinea di un autoritarismo. Giorni fa, mentrei leader di Pechino rivolgevano enigmatici appelli a «migliorare la gestione sociale», un documento della Banca centrale del Popolo ha rivelato che nell' ultimo decennio 18mila funzionari sono scappati all' estero con 90 miliardi di euro e che le proteste di massa sono passate da 9 a 180mila.
L' invincibile partito si autocelebra per succedere a se stesso, compra debiti e ideali stranieri, finge di liberare Ai Weiwei e lascia in cella centinaia di intellettuali indipendenti.
L' infinita e silenziosa Cina è al contrario scossa come mai dopo il 1949e il 1989.A Guangzhou, per individuare gli insorti, le autorità hanno dovuto offrire ai delatori 500 euro e il permesso di residenza. Non era mai successo: un piccolo tesoro in cambio di un grande colpevole. Non è solo che il Guangdongè tutt' altro che "happy": è che Pechino, risolvendo Mao in un ritratto, scopre di non essere più nel cuore dei cinesi. E che a Zengcheng il cartello "Servire il Popolo" può rimanere rotto, davanti ad auto e negozi bruciati. - GIAMPAOLO VISETTI
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/06/24/la-rivolta-degli-schiavi-che-fa-tremare.html

Una designer emergente: Laura Calicchia e il suo marchio Edò

 Continuando la tradizionale ricerca di nuovi talenti e nuovi marchi italiani, Stilinga si è imbattuta in una personalità piuttosto interessante, si tratta di Laura Calicchia (di Frosinone), un'emergente designer di accessori, che con grande spirito innovativo ha prodotto accessori molto d’avanguardia in termini di ricerca e di materiali e che da un po’ di tempo collabora con altre designers già conosciute da Stilinga e che presto saranno intervistate nuovamente per sapere a che punto della loro ricerca si trovano.


Ma passiamo subito all’intervista alla designer di accessori Laura Calicchia.

Stilinga: Laura Calicchia come e quando è nata la tua passione per la moda?

Laura Calicchia: La mia passione per la moda esiste da sempre, solo che era celata dietro un velo; ora sento che è diventata il mio stile di vita.

Stilinga: come crei una collezione nuova? e come hai creato il tuo marchio?

Laura Calicchia: Creo osservando la natura, le persone, amo anche confrontarmi con il mondo dell'arredamento; molto vicino a me è anche tutto ciò che concerne il gioco. Il mio marchio è nato dal cuore, ho guardato negli occhi mio figlio Edoardo ed ho capito che avrei chiamato il mio marchio"Edò".

Stilinga: sei maggiormente interessata alla moda o allo stile?

Laura Calicchia: Sono interessata ad entrambe e soprattutto sono curiosa, quindi cerco sempre di non rimanere mai indietro anche se è molto complicato.

Stilinga: che cosa pensi della moda di massa e in particolare del fenomeno della fast fashion?

Laura Calicchia: Il fenomeno della fast fashion ormai ha contagiato tutti; i prezzi accessibili hanno portato a vestirsi tutti uguali, non si ha più uno stile personale. Io penso che la fast fashion segue solo i trend dei grandi marchi, rendendo le collezioni ed i prodotti economicamente più accessibili a tutti.

Stilinga: dove trovi l'ispirazione per creare?

Laura Calicchia: L'ispirazione per me viene dal mondo che mi circonda, è l'aria che respiro.

Stilinga:a quale progetto stai lavorando attualmente?

Laura Calicchia: Attualmente collaboro con due amiche designers, Anna Bassano che ha creato il marchio Annienoir e Anna Paola Pascuzzi col marchio Hearth, stiamo dando vita ad un progetto chiamato PurpleAccessories, abbiamo unito i nostri stili e marchi e le nostre forze creative per rivalutare l’artigianato, il fatto a mano, per trasmettere al mondo le nostre visioni sulla moda all’insegna dell’Indie Fashion.

Stilinga: puoi elencare i siti web dove sei presente?

Laura Calicchia: Il mio marchio Edò assieme a quelli di Annienoir e di Hearth sono “contenuti” in Purple Accessoriess. Abbiamo aperto diversi profili on line:

http://purpleaccessories.artesanum.com/
http://en.dawanda.com/shop/PurpleAccessories
http://www.globalfashionbrands.com/PurpleAccessories
http://blomming.com/mm/PurpleAccessories/items


Il mio blog è http://tanaperedi.blogspot.com/


Stilinga: quali sono le zone di Roma che ti ispirano maggiormente e non solo a livello stilistico?

Laura Calicchia: Io vivo a Frosinone, vicino Roma però tutte le mattine sono nella capitale per lavoro.
Roma è una città dove ogni angolo può scatenare l’immaginazione, sembrerà strano ma a me anche la stazione Termini ispira. La diversità di gente e di culture che la affollano, mi affascina enormemente.
Altri luoghi che davvero mi accendono la mente e l’anima sono sicuramente la meravigliosa Piazza di Spagna, storica, maestosa e sempre popolata da tantissime persone di tutto il mondo; il fantastico Rione Monti un vero scrigno, ricco di creatività, di artigianalità, anche la gloriosa Via Veneto e tanto altro ancora, davvero la città di Roma può dare tanto in termini di ispirazione.

Stilinga: a quale fenomeno stilistico del passato, se c'è, nel tuo stile, fai spesso riferimento?

Laura Calicchia: Inizialmente facevo leva sulla mia interiorità, il mio intuito, ultimamente vedo che il mio marchio Edò ha preso un indirizzo direi pop, in quanto recentemente ho creato collane e monili molto variegati nella concezione stessa, colorati, energetici, con riferimenti ai fumetti, ai giochi, all’esistente riadattato e allora ho decisamente capito di avere un’influenza forte dalla "POP ART" .

Stilinga: che obiettivi hai nella tua carriera?

Laura Calicchia: La strada è lunga e per di più in salita ma l’obiettivo è chiaro: far conoscere il marchio Edò e naturalmente PurpleAccessories al mondo. Sono, anzi siamo, io e le altre due designers, molto determinate e lavoriamo sodo per raggiungere il nostro obiettivo.

Stilinga: quali sono i negozi di Roma che ti attirano maggiormente e perché?

Laura Calicchia: Io amo tutto ciò che è vintage, quando sono andata al Rione Monti per la prima volta ho capito che quello è luogo dove ci sono i negozi di Roma che preferisco per la loro posizione, per la loro concezione e per la diversità di prodotti, moltissimi sono fatti a mano da giovani artigiani, sono autoprodotti in loco.

Stilinga: a proposito cosa pensi del fatto a mano? credi che il mercato sia pronto per un ritorno al fatto su misura, su richiesta e a prodotti di alta qualità?

Laura Calicchia: Il fatto a mano è per me un sogno, sono ammaliata da tutti coloro che con le loro mani riescono a creare qualcosa di unico, irripetibile. Adesso, non penso che il mercato sia completamente pronto, sia a livello economico che a livello di educazione, davvero! Le persone andrebbero rieducate al fatto a mano.


Stilinga: che cosa pensi dei prodotti moda industrializzati?

Laura Calicchia: I prodotti industrializzati sono positivi, quando sono ben curati, se la qualità della produzione industriale è l’obiettivo.

Io, comunque, resto per il fatto a mano anche se bisogna considerare il mercato e ripeto se la quantità fosse in buon equilibrio con la qualità, il prodotto industriale sarebbe da considerare positivamente.

Stilinga: che musica ascolti e quali gruppi ti piacciono?

Laura Calicchia: Ascolto tutta la musica, amo il susseguirsi di note che riescono a far parlare l'anima. La musica italiana è ricca di cantanti fantastici: Mina, Bennato, De Andrè, Mia Martini, Otto Ohm, Negramaro, Elisa, i Pooh, Blu Vertigo, D’Alessio, Gigi Fininzio... potrei continuare all'infinito. E dei musicisti internazionali sicuramente i Beatles, i Queen, Beyoncè, Bob Dylan, Camille, Adele.....

latest trends in female shoes: summer platforms and a ballerina





Latest shoe trends for summer: platforms and a ballerina.
These shoe models are going to be best sellers in summer.

Roma: la città nonostante tutto continua a sorprendere!

Nonostante la cattiva (pessima) gestione del sindaco Aledanno, capita ancora a volte di ritrovare qualche bel motivo per abitare a Roma: capita di passeggiare per il centro storico, in pieno pomeriggio mentre i turisti cenano o pranzano e ci si imbatte in un vero talento musicale che affascina e porta gli animi dei più molto lontano, suonando uno strano strumento.
L'artista di cui parliamo si chiama Luca Bertelli che suona una specie di chitarra che chitarra non è e che si chiama HANG.
A Stilinga quella specie di campana schiacciata o wok rovesciato ha fatto subito un certo effetto: è geniale ed è incredibile come Luca Bertelli la sappia far vibrare.
Ecco che allora ci si riconcilia col mondo e con la città di Roma tanto vituperata da Aledanno malefico e dai suoi sodali perfidi.

Mamma mia il Macro!

 Stilinga ha approfittato della settimana della cultura e ha visitato a gratis il Macro di Roma e per fortuna che lo visitato senza pagare...

Il fatto è che avendo già perlustrato, come del resto molte altre persone, le vette artistico-spirituali del Maxxi, sempre a Roma, del Guggenheim di Bilbao e di New York, della Tate Modern di Londra, inoltrarsi al Macro con delle aspettative è come andarsi a schiantare contro un muro di cemento.

Si avverte come un'aria di museo di piccola provincia: poche opere degne del panorama internazionale oppure opere minori (anche non esposte al meglio) di grandi artisti.


Se poi volessimo spendere due parole sull'organizzazione, allora si dovrebbe dire che sono quasi  più i custodi che i visitatori, sono quasi più le telecamere di sicurezza che le opere, sono quasi più gli spazi sprecati che non quelli azzeccati, sono sicuramente inutili le terrazze nere senza altra prospettiva che bollire durante la bella stagione e sono più i motivi che  impediranno a Stilinga di andare nuovamente là, di quelli che ce la porteranno.

Insomma se si vuole fare un giro d'arte contemporanea a Roma, meglio partire dal Macro (se proprio si vuole) e poi approdare al Maxxi.
Fare in contrario è esporsi a terribili delusioni.

la bionda e il guinzaglio

La bionda lo ha portato in giro al guinzaglio per almeno tre anni,
il tempo chimico dell'amore, della passione, dell'incantesimo,
e lui buono buono si lasciava comandare, governare,
per non dover pensare,
li vedevo sotto casa:
lei parlava e lui ascoltava,
lei con piglio lo instradava e lui silente si incamminava.

Bello era bello, alto era alto, servo era servo,
la padrona disponeva e lui eseguiva,
mai col suo cervello interveniva!
e a vederli facevano un po' pena:
lei dominante e lui assente, quasi non curante.

Poi improvvisamente, a forza di tirare, dopo tanto subire
il bel gonzo e però dalla faccia di bronzo,
si è ribellato e  se ne è andato.

E la bionda ancora oggi qui a soffrire.
Sola come un cane, il potere che aveva
l'ha abbandonata e credo ci pensi
ancora a come si è comportata,
era amore? era possesso?
ora è decesso!
e lei sta un cesso.

Strano non l'aveva intuito:
chi sta zitto mica è disposto a subire sempre,
aspetta, cova, assorbe e poi d'un tratto tracolla
esplode, spezza catene, rompe promesse
e arrivederci al secchio!
Mai più tornerà in dietro, mai più si farà nuovamente schiavizzà!

Do you produce shoes in China? just think it over

Stilinga thinks that producing shoes in China not only kills European good shoe production, but also it is a real damage to the final clients, for in China all kind of dangerous glues and dangerous chemical products are used for leathers and fabrics (from the smell one can understand where the shoes are produced).

And it is mostly a trouble for the International companies that have placed orders at Chinese shoe producers for other reasons.

It is true that making shoe samples (maybe the proto step does not exist there) costs around 10 USD per pair, that is nothing compared to the Italian proto (yes! Here in Italy we do still make the proto step and then from that point we arrive to the final very good sample! for our mind is not to produce rubbish!) and samples, but it is also true that once you place orders at Chinese factories the minimum quantity must be at least 2.000 pairs not 200!

And we need to consider that most of the time these cheap shoes, manufactured by Chinese factories can for example, lose their trims, their sparkling beads during the ship delivery, always for example, to Italy, where  the company that ordered such items in order of 5.000 pairs, needs to make extra work here in Italy fixing at least 1.000 pairs  because the bling bling accessories fell down during the trip from Asia to Europe and so somebody has to solve this problem before delivering the pairs to the final shops, otherwise big cancellations will be made by retailers.

And this European company that ordered the cheap shoes in large quantity must pray God that the shoes will work on the feet too, otherwise the final clients will return them to the shops and it looks like that 10 USD paid for samples and then maybe the 6/7 USD paid for production per pair that become maybe 70 €  or 100 € in the shop windows, were not that big business after all!

That's the way it goes: you pay what you ordered and quality is the only missed value in this story, while European shoe companies are closing and we need to say thanks to globalization, to the dictatorship that rules China and to the very smart Western companies owners!
Really well done!

Negozio da non perdere a Roma in Via Vittoria, 37: Rigadritto

Stilinga oggi passeggiando per il centro storico di Roma, si è imbattuta piacevolmente nel negozio di regali chiamato Rigadritto (Via Vittoria, 37) musica per la mente, gioia visiva per la creatività: portafogli realizzati con carte colorate che ritraggono le metropolitane di N.Y o Londra, matite, magneti, biglietti di auguri super chic e originali e tantissimo altro.
Davvero una bella idea!
E vedendo il sito Stilinga si è ricordata di aver già visitato la sede milanese a Via Brera, 6.

Piccole storie cinesi "Jeans ponente" di Giampaolo Visetti da Donna di Repubblica

Rubriche


"Piccole storie cinesi: Jeans ponente"

Xitang non è più la Silicon Valley del denim: ormai è un emblema (tossico) dello sfruttamento di massa

Di Giampaolo Visetti

"Trent'anni fa in Cina i jeans erano sconosciuti. I cinesi indossavano le divise grigie fornite dallo Stato e tutti assomigliavano ai rivoluzionari di Mao Zedong. L'indumento simbolo degli Stati Uniti, nel mondo comunista, era proibito: come la musica pop.
Oggi la Cina è la fabbrica del denim. Due terzi dei jeans infilati nelle gambe dell'umanità escono da capannoni cinesi. Non è stato un affare da buttare. Ogni anno se ne acquistano oltre 800 milioni di paia.

La storia di Xitang è l'icona della migrazione più travolgente della contemporaneità, che ha spostato in Oriente tutto ciò che si fa per compiacersi di mantenere in Occidente tutto ciò che si pensa. Xitang, fino agli anni 80, era un villaggio di contadini e di pescatori: duecento persone sulle rive del fiume delle Perle. Huang Lin, ambulante di Hong Kong, decise di portare in questa campagna una macchina per cucire pantaloni.
Oggi è la capitale mondiale dei jeans. Un milione di operai confenziona il 40% dei calzoni venduti sulla terra. Ogni marca ha qui il suo stabilimento principale: le più famose nate negli Stati Uniti, ma pure le aziende italiane che hanno trasformato la divisa del cow boy in quella dell'old manager.
Non è la Silicon Valley della moda. Gli operai sono ammassati in vecchi capannoni a conduzione famigliare. Il padrone siede fuori e invita i passanti ad entrare. Offre sigarette, liquore, microscopiche tazze di un tè violento. Mucchi di donne, sulla strada, circondano montagne di tela: cuciono etichette di qualsiasi brand, eliminano fili con la pistola termica, infilano nei sacchetti 60mila paia di jeans al giorno.
Nei vicoli attorno si fa il resto: bottoni, cerniere, rivetti, filo. Colonne di camion scaricano rotoli di tessuto nei cortili e spariscono gonfi di merce.

Nessuno immagina, scivolando nei suoi denim con l'ambizione di un'originalità, di esibire l'ultimo emblema dello sfruttamento cinese di massa. Xitang è stato ridotto a essere la fucina unica dei jeans per due ragioni: nella regione vivevano milioni di persone disposte a lavorare per venti centesimi al giorno e nessuno si preoccupava per l'impatto delle fabbriche sulla natura. Da dieci anni nell'ex villaggio dei contadini e dei pescatori non cresce più niente di commestibile.

Vista dal satellite, la metropoli globale dei jeans è una nuvola rossa, percorsa da uno scheletro viola. Il vapore indica il carbone usato per alimentare le tessitorie, le ossa segnano gli scarichi tossici della tintura del cotone. Nella contea, in trent'anni, non è stato installato un solo depuratore. Sacrificare gli uomini e la terra per far sentire alla moda il mondo è il piatto servito in tavola. Grazie a Xitang il prezzo del casual è restato basso, è nato il guardaroba usa e getta e l'Occidente è stato conquistato dalle catene dei grandi magazzini arredati da albergo di charme.
Non è una favola a lieto fine.

Da alcune settimane l'epicentro cinese del jeans made in Usa è deserto.
L'era dei prezzi stracciati è finita. Offrire all'ingrosso pantaloni a 80 centesimi e t-shirt a 15 non basta più. Il clienti dell'Ovest non accettano nemmeno di coprire i costi. La crisi del vecchio consumismo demolisce il sistema-Xitang.

Gli operai reclamano salari che permettano di sopravvivere e lo sconvolgimento del clima proietta il valore del cotone alle stelle. Gli stilisti foderano i jeans in poliestere, impongono al gusto finiture lucide, ma i conti non tornano.

I materiali valgono più del prodotto e sui capannoni abbandonati sono affissi cartelli che offrono partite di denim a 5 centesimi il paio. In un anno il 40% delle tessitorie ha chiuso e 300mila lavoratori tornano a vagare per la Cina seguendo la corrente dei cantieri.

Se una famiglia europea o americana cambia un jeans in meno all'anno, il saccheggio del modello cinese implode. Nuovi Xitang risorgono altrove. Vietnam, Cambogia, Indonesia, India e Filippine offrono moda a costo di trasporto. Wei Xiaofeng, proprietaria del colosso che ci ha vestiti negli ultimi vent'anni, siede sola su un cumulo di rotoli di tela azzurra, destinata a trasfomarsi in isolante per i grattacieli di Kuala Lumpur.

L'impero della delocalizzazione si scopre vittima di se stesso e delocalizza. La Cina perde i jeans e Xitang chiude. Il mondo può ignorare il suo profilo riflesso in uno specchio. "

Da Donna di Repubblica

Stilinga crede che non comprare jeans fabbricati dai moderni schiavi/operai asiatici potrebbe non solo riequilibrare il commercio ma dare una bella stoccata ai committenti/brand che pascolano in un mondo senza regole in cui l'unico obiettivo è il profitto, a discapito dei lavoratori asiatici e di quelli europei e a discapito dell'ambiente e dei diritti umani.
E' tempo di cambiare i nosti singoli consumi e di riflettere bene prima di fare shopping.

Tutto questo oggi giorno è cruciale: se io non compro un jeans di un brand multinazionale, non solo faccio un favore all'ambiente (e al mio portafoglio) ma anche al mio paese e contribuisco ad equilibrare questa globalizzazione non solo malata, ma tossica, perversa e dittatoriale.

Nuovo trend: Pellicce a Milano

E' il nuovo trend: pelliccia!

Milano si è improvvisamente svegliata con voglia di pelliccia e le donne in giro magari sfoggiano i modelli che hanno acquistato in passato e sono forse in attesa di comprarne di nuovi anche per il prossimo inverno.
Un modello in una vetrina nel quadrilatero della moda.

Milano si sta Armanizzando

Stilinga è appena rientrata da un viaggetto lavorativo a Milano dove tra le altre cose ha notato l'esplosione di negozi Armani, Armani donna, Armani casa, Emporio Armani, EA, etc.

Ma la cosa sconcertante è il nuovo Hotel Armani che è in costruzione direttamente sopra il mega mall Armani di Via Manzoni.

I due piani a specchio svettano in alto, sovrastando gli edifici contigui e rovinando lo skyline di quella parte così centrale della capitale della moda.

Stilinga ha avuto una intossicazione "armaniana": lo shop Armani, il palazzetto di Armani Casa, il mall, il futuro Hotel...si capisce il concetto lifestyle, ma da Armani capiscono il concetto il troppo stroppia?

Mostra all'ambasciata di Francia: Palazzo Farnese, Roma

Stilinga ha recentemente visitato la mostra, realizzata a Roma ed intitolata:
"PALAZZO FARNESE - Dalle collezioni rinascimentali ad Ambasciata di Francia”.

E' stata un'occasione per visitare almeno una parte di Palazzo Farnese, che Stilinga ha per anni visto solo da fuori.

L'organizzazione lascia molto a desiderare, le didascalie sono scarne, l'illuminazione forse giustamente bassa, ma i riflessi sui quadri schermati da vetro magari si potevano evitare, l'audioguida riporta ogni visitatore all'infanzia e fa perdere concentrazione visiva e spaziale, della serie o ascolti cosa dice o vedi quello che ti propongono, coordinare le due cose è faticoso ed inutile in quanto da adulta Stilinga poteva benissimo leggersi le didascalie invece che ascoltarle da bimba con l'audioguida.

Inoltre, la disposizione di quadri davvero importanti (Tiziano e El Greco) è errata e sacrificata, mentre una stanza è adibita ad esaltare il lavoro degli intellettuali francesi (ai più sconosciuti) che si sono avvicendati a Palazzo Farnese!

La vera goduria sono la sala di Michelangelo e  l'affresco di Carracci, nella sala della musica. Quest'ultima sala è da togliere davvero il fiato e se avessero messo dei divani per ammirare l'affresco sul soffitto sarebbe stato anche adeguato visto che a forza di stare con il naso all'insù si perde equilibrio.

Comunque delude lo stato pessimo di conservazione del palazzo, che deve essere restaurato (forse coi soldi raccolti per questa mostra), il colore triste e deprimente con cui hanno intonacato le pareti del Palazzo e la pessima organizzazione (antipatici i dipendenti): si deve prenotare, ma accettano anche i non prenotati, devi lasciare tutto all'arrangiatissimo guardaroba posizionato nel cortile all'addiaccio, non puoi soffermarti più di tanto su nulla, altrimenti si blocca il flusso dei visitatori, se poi si va in visita in gruppo, l'ambasciata impone che le spiegazioni siano fatte dalla propria guida francese (pagando un costo in più) altrimenti la guida del gruppo non può fiatare, può solo accompagnare il gruppo e ascolare l'audioguida.

Insomma per visitare un palazzo romano ma in territorio francese si deve subire qualche angheria e fa male vedere come poco si esaltino i più grandi pittori del mondo.

L'Italia non è

L'Italia non è un paese per donne
l'Italia non è un paese per uomini
l'Italia non è un paese per bambini
l'Italia non è un paese per vecchi
l'Italia non è un paese per giovani
l'Italia non è un paese per malati
l'Italia non è un paese per sani
l'Italia non è un paese per gente onesta
l'Italia non è un paese per persone coerenti
l'Italia non è un paese per persone perbene
l'Italia non è un paese per gay
l'Italia non è un paese per eterosessuali
l'Italia non è un paese per adottare bambini
l'Italia non è un paese per vivere
l'Italia non è un paese per nascere
l'Italia non è un paese per morire
l'Italia non è un paese per lavorare
l'Italia non è un paese per amare
l'Italia non è un paese per attraversare la strada
l'Italia non è un paese per respirare
l'Italia non è un paese per mangiare
l'Italia non è un paese per reagire
l'Italia non è un paese per agire
l'Italia non è un paese per ricevere ed inviare lettere e pacchi
l'Italia non è un paese per la serenità
l'Italia non è un paese per la tranquillità
l'Italia non è un paese per crescere

semplicemente e purtroppo l'Italia non è!

Ma l'ufficio Marchi e Brevetti italiano funziona?

Stilinga ormai tre anni fa, decise di registrare il suo marchio in due categorie merceologiche.

Alla camera di commercio della sua città le assicurarono che entro due anni dal deposito del marchio avrebbe ricevuto a casa una lettera per ritirare la documentazione presso l'Ufficio Marchi e Brevetti (portando marca da bollo, mica gratis e tanto meno tramite invio di mail, e hanno fatto anche la mail certificata! capperi!).

Di fatto questa lettera non è mai arrivata.

Allora un giorno e per caso Stilinga si trovava on line sul sito della registrazione dei marchi italiani e con grande sorpresa, scopre che il marchio che aveva depositato era stato registrato! Evviva!

E subito sotto al suo marchio registrato, Stilinga trova lo stesso marchio (identico) registrato anche da un'altra persona in data posteriore, e proprio in una delle due categorie di Stilinga!

"Assurdo!" pensa Stilinga: "ma come è stato possibile? non hanno un data base? e non si controlla il data base prima di registrare ufficialmente un marchio? non si controllano le categorie? e poi parlano di falsi! e a che serve 'sto data base? a che serve registrare un marchio? e a che serve l'Ufficio Marchi e Brevetti in Italia?".

Allora in preda ad una rabbia non facilmente dissipabile, Stilinga chiama l'ufficio relazioni col pubblico dell'Ufficio Marchi e Brevetti, dove le danno pure ragione!

Pare che a causa della mancanza del ministro dello Sviluppo (ma quale sviluppo?) Economico, il decreto di opposizione non sia stato attivato e quindi una persona che viene a conoscenza della registrazione del suo stesso marchio può difendersi bonariamente, inviando una raccomandata con ricevuta di ritorno alla persona che ha registrato lo stesso marchio e in caso andare in giudizio!
Cioè si devono spendere altri soldi in avvocati perché nessuno al ministero ha controllato il data base?
Follia pura!
E Stilinga non ha più fiducia nella registrazione dei marchi, non in Italia!

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