Continuano a chiamarla flessibilità

di Richard Sennett


Sono passati quasi vent'anni da quando scrissi "L'uomo flessibile", uno studio sui cambiamenti nell'economia e nelle condizioni del lavoro, e la flessibilità a breve termine, che già a quel tempo iniziava a erodere il nostro lavoro, è aumentata e, anzi, è andata peggiorando sempre di più. I cambiamenti a cui stiamo assistendo nella moderna economia del lavoro sono una paralisi per la classe media, soprattutto la classe medio bassa, un vero ristagno. L'esperienza della flessibilità del lavoro a breve termine nelle imprese camaleontiche influisce sulla struttura delle classi sociali. Le persone "nel mezzo" hanno meno opportunità di trarre profitto dalla diversificazione delle tipologie di lavoro. L'offerta di lavoro infatti si è ridotta per loro. Allo stesso tempo
le condizioni di lavoro sono diventate più intensamente legate a un regime di flessibilità.
Non ho mai pensato che un posto di lavoro flessibile potesse rappresentare una possibilità di ascesa sociale e non ho mai guardato alla linea sottile e indefinita che passa tra lo spazio di lavoro e quello domestico come a una realtà che potesse creare una nuova dimensione per l'autoimpiego.

Quella che è maturata è una flessibilità simile a una condizione di repressione, un modo per dominare e ridimensionare il lavoratore attraverso la flessibilità. 

Ritengo, soprattutto dopo la crisi finanziaria, che sia ancora più il caso di intenderla come una repressione dei lavoratori, più che un tentativo di creare nuove opportunità per loro. Quando sento qualcuno dire: «noi vogliamo dare la possibilità alle persone di lavorare da casa», so che questa espressione non risponde a verità. Tutto il novero di opportunità che si verificano sul posto di lavoro, come fare incontri, scoperte casuali, discussioni varie, sono negate alle persone che lavorano da casa: da casa non puoi creare nessuna rete informale. E questo aspetto, ovvero la diminuzione e dominazione del processo lavorativo in nome di una maggiore flessibilità, ha solo peggiorato la situazione.
Alcuni sostengono che, nel momento in cui il mondo del lavoro diventa sempre più precario e insicuro trovare una sorta di cittadinanza sociale al di fuori del contesto lavorativo sia ciò di cui la gente ha bisogno. Io non ci credo. Il modo in cui la gente imposta la propria esistenza è profondamente legato al rispetto di se stessi e al senso della propria utilità. Tutto questo non può essere sostituito da una dimensione non produttiva. In questo senso, ritengo che Marx avesse ragione quando diceva che l'homo faber, l'operaio, è il fondamento di un senso di autostima.

Il lavoro, come la produttività, sono fondamentali nella costruzione del rispetto di sé e della struttura familiare. Non credo si possa avere una cittadinanza sociale che si basi sul lavoro part- time, o sull'assenza di lavoro, come fonti alternative da cui trarre soddisfazione. Questo vale sia per le donne sia per gli uomini.

La questione, per noi oggi, è come tornare ad avere il controllo del "posto di lavoro". La mia opinione è che bisogna prevenire la possibilità che i lavoratori pratichino la flessibilità. Non significa inibire la forza lavoro, ma, ad esempio, evitare che qualcuno che abbia lavorato nello stesso ufficio o nella stessa azienda per otto o dieci anni non si veda riconosciuto il diritto a continuare a lavorare (anche solo per il fatto di aver investito parte della sua vita in quel lavoro). Questo accade perché quello che si configura è un sistema di flessibilità che non fa ricadere alcuna responsabilità sui datori di lavoro.
In Gran Bretagna stiamo realizzando che ciò è un problema. Consideriamo il caso delle nostre acciaierie. Di fronte alla crisi il governo dice: «Noi non abbiamo alcuna responsabilità a riguardo, sono problemi vostri». Non sono d'accordo. Il governo ha una responsabilità verso questi lavoratori (per esempio quei settori della Tata Steel che stanno chiudendo), semplicemente perché il lavoro è una risorsa. Il governo dovrebbe aiutarli a mantenere i loro stipendi, aiutarli a trovare un nuovo lavoro, perfino acquistando l'intera Tata Steel per per fare in modo che i lavoratori vadano avanti.

Credo che ciò di cui abbiamo davvero bisogno sia fare i conti con i modi in cui questa figura disfunzionale – il capitalismo flessibile – possa essere fronteggiato dallo Stato.

Non sono un tecnofobo. La mia riflessione ha molto a che fare con i lavori che ho condotto, con i miei studenti, presso la London School of Economics.
È vero che la robotica sta sostituendo certi tipi di lavoro. Il lavoro che più sta subendo questo processo è quello dei lavori di manutenzione di basso livello. È stata una sorpresa per noi apprendere che in realtà l'ambito di applicazione delle macchine digitali nel lavoro manuale è praticamente arrivato ai suoi limiti estremi e che molte delle cose che la gente fa manualmente, più o meno lavori di manutenzione come l'idraulico, l'elettricista, e così via, sono già meccanizzati al massimo delle possibilità. Esattamente come per il lavoro industriale, sia per il lavoro qualificato sia per quello non qualificato si è arrivati a una sorta di limite.
Le macchine stanno colonizzando la piccola borghesia. Posti di lavoro come quello degli addetti agli sportelli di banca, quello di chi raccoglie gli ordini per gli acquisti, o i centralinisti, tutti lavori burocratici di basso livello, stanno soccombendo sotto il potere della robotica digitale. Questa tecnologia particolarmente efficace sta scalzando il concetto di forza lavoro della società dei colletti bianchi. Ciò si interseca con il fatto che le classi stagnanti in questa fase del capitalismo, siano proprio quelle dei lavoratori delle classi medio-basse.
Posto che non dobbiamo considerare le macchine, tutta la tecnologia digitale, come uno spauracchio, dobbiamo sapere che gli effetti di questa trasformazione si stanno concentrando sulla classe che, in questo momento, risulta estremamente vulnerabile e che è stata largamente marginalizzata dal neoliberalismo, proprio in nome della ragione di mercato. Tutto questo, direi, rispecchia il bisogno che lo Stato assuma un ruolo maggiore nel supporto alle classi medio basse, garantendo il lavoro, anche se quel lavoro non produce profitto o potrebbe essere anche svolto da una macchina. 

Dobbiamo tornare a credere che lo Stato possa entrare effettivamente in opposizione al neoliberalismo, anziché esserne definitivamente schiavo.

Non si può avere una cittadinanza sociale che si basi esclusivamente sul part-time

Europa, i migranti respinti dall'austerità

diThomas Piketty
da www.repubblica.it

MENTRE in Francia i giovani manifestavano contro la disoccupazione e la flessibilità, e François Hollande aveva appena rinunciato alla déchéance de nationalité (il suo inquietante progetto di privare della nazionalità francese i condannati per terrorismo), i profughi si accalcano a decine di migliaia in Grecia, in attesa di essere rispediti con la forza in Turchia. Non ci inganniamo: queste realtà differenti sono la testimonianza di uno stesso fallimento, dell’incapacità dell’Europa di far fronte alla crisi economica e rilanciare il suo modello di creazione di lavoro, integrazione e progresso sociale.
La cosa più triste è che l’Europa avrebbe tutti i mezzi per mostrarsi più accogliente, riducendo al tempo stesso la disoccupazione. Per convincersene, può essere utile fare una digressione sulle statistiche migratorie.
Precisiamo innanzitutto che i flussi migratori sono difficili da misurare e che le stime che abbiamo a disposizione sono imperfette. I migliori dati disponibili a livello mondiale, raccolti dalle Nazioni Unite nel quadro dei World Populations Prospects pubblicati a fine 2015, consentono tuttavia di stabilire alcuni ordini di grandezza.
La prima cosa che constatiamo è che il flusso migratorio in entrata nell’Unione Europea (al netto delle uscite), fra il 2000 e il 2010 era mediamente dell’ordine di 1,2 milioni di persone per anno. La cifra può sembrare enorme, ma se la rapportiamo a una popolazione complessiva di oltre 500 milioni di abitanti, vediamo che rappresenta poco più dello 0,2 per cento annuo. In quell’epoca non remota, l’Unione Europea era la regione più aperta del mondo (il flusso migratorio negli Stati Uniti era di circa 1 milione di persone l’anno) e la questione non rappresentava un problema serio: in Europa l’occupazione cresceva e i senza lavoro diminuivano, almeno fino all’esplosione della crisi finanziaria del 2008.
È questa crisi – e soprattutto le catastrofiche politiche di austerità seguite dall’Europa successivamente, che hanno provocato un’assurda ricaduta dell’attività economica nel 2011-2013 (si veda: «2007-2015: una recessione lunghissima ») – che spiega l’ascesa della disoccupazione e della xenofobia nel nostro continente, con i flussi migratori ridottisi a un terzo dei livelli precedenti, circa 400.000 ingressi all’anno dal 2010 al 2015, secondo le Nazioni Unite. Tutto ciò proprio nel momento in cui l’evoluzione della situazione geopolitica in Medio Oriente e la crisi dei profughi avrebbero richiesto un’Europa più aperta.

Paradosso supplementare: gli Stati Uniti, che pure erano all’origine della crisi del 2008, ma hanno saputo dar prova di elasticità nella gestione delle finanze pubbliche per rilanciare la loro economia dopo la crisi, hanno mantenuto un flusso migratorio di circa 1 milione di persone l’anno fra il 2010 e il 2015 (pur rimanendo molto più chiusi dell’Europa ai profughi siriani e alle popolazioni di religione islamica).

Se esaminiamo la ripartizione del flusso migratorio all’interno dell’Unione Europea, constatiamo, di nuovo, gli effetti della crisi. Se facciamo la media sull’insieme del periodo 2000-2015 (quasi un milione di migranti l’anno), osserviamo una ripartizione relativamente equilibrata: ognuno dei cinque grandi Paesi (Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Spagna) accoglie fra i 100.000 e i 200.000 migranti l’anno. Ma mentre la Germania era relativamente poco aperta fra il 2000 e il 2010, fra il 2010 e il 2015 è passata nettamente in testa, mentre per la Spagna il flusso è diventato negativo. In totale, nel periodo 2000-2015, sono l’Italia, la Spagna e il Regno Unito i Paesi più aperti, seguiti da Germania e Francia.
I dati delle Nazioni Unite sono incompleti e tengono conto solo in parte degli ingressi del 2015, ancora troppo vicini nel tempo, ma che hanno già raggiunto livelli estremamente elevati: un milione di profughi entrati in Germania in un solo anno secondo il Governo tedesco, 400.000 richieste d’asilo depositate in Germania nel 2015 secondo Eurostat. Quel che è certo è che questi flussi, per quanto importanti, non sono così eccezionali come a volte si pensa, in confronto ai flussi migratori osservati fra il 2000 e il 2010.
La conclusione viene da sé: se l’Europa, e in particolare la zona euro, sotto la guida di Germania e Francia, seguisse una politica migliore (moratoria sul debito pubblico, rilancio dell’economia, investimenti in formazione e infrastrutture, imposta comune sulle grandi aziende, un Parlamento della zona euro), il nostro continente avrebbe tutti i mezzi per mostrarsi più accogliente e non sarebbe stato costretto a compromettersi in un accordo indegno con la Turchia.
( © Le Monde, 2016 Traduzione di Fabio Galimberti)

Kering vede il suo fatturato segnato da un forte calo di Bottega Veneta

da: http://it.fashionmag.com/news/Kering-vede-il-suo-fatturato-segnato-da-un-forte-calo-di-Bottega-Veneta,685000.html#utm_source=newsletter&utm_medium=email

Kering ha pubblicato i dati relativi al proprio fatturato, segnati dal rallentamento di Gucci, il suo marchio principale che si trova in piena fase di rilancio, e dal crollo di Bottega Veneta, seconda griffe di lusso del gruppo francese, in un contesto difficile per il settore.

Seguito con grande attenzione, quasi gelosamente, Gucci, principale centro di profitti di Kering, ha visto crescere le vendite del 3,1% nel primo trimestre (dopo un +4,8% nel quarto trimestre del 2015), facendo così meno bene della crescita fra il 5% e il 6% attesa dagli analisti.

Al contrario, i trend economici si sono bruscamente invertiti nel trimestre per Bottega Veneta (-8,3%) - primo marchio del gruppo per redditività – che soffre della sua forte esposizione alla clientela asiatica e di un passaggio ad altre categorie di prodotti, soprattutto il prêt-à-porter.

Saint Laurent continua intanto la sua brillante traiettoria di crescita (+26,5%), mentre Balenciaga e Boucheron hanno sofferto della loro elevata esposizione al mercato francese, disertato dai turisti stranieri dopo gli attentati di Parigi.

Ancora su basi solide invece lo slancio del produttore di articoli sportivi Puma, che ha registrato una progressione delle vendite dell'8,1%.

In totale, le vendite di Kering hanno raggiunto i 2,72 miliardi di euro (+2,7%) nel primo trimestre, una cifra leggermente inferiore ai 2,77 miliardi indicati dalle previsioni degli analisti raccolte da Reuters.

A cambi costanti, la crescita si è limitata al 4,0%, dopo il +8% registrato alla fine del 2015.

H&M chiude un debole mese di marzo

da: http://it.fashionmag.com/news/H-M-chiude-un-debole-mese-di-marzo,684316.html#utm_source=newsletter&utm_medium=email

Il gruppo svedese di moda low cost registra per il mese di marzo vendite in  aumento del 2% in valuta locale: una crescita, che negli ultimi tre esercizi, era stata così debole solo nell’agosto 2015.“Le vendite di marzo aprile e maggio  dovrebbero essere analizzate insieme, visto che le vacanze di Pasqua cadono in mesi diversi a seconda dell’anno, ed in parte perchè il clima in questo periodo può variare considerevolmente da un anno all’altro” indica il gruppo in un comunicato.  “Per H&M, in generale, una Pasqua tardiva è preferibile ad un che arriva prima. Le condizioni meteo di marzo, l’anno scorso erano state favorevoli alla stagione, mentre quest’anno è successo il contrario.”

Il numero totale dei punti vendita del gruppo era pari a 3997 al 31 marzo 2016 in aumento rispetto ai 3580, al 31 marzo 2015.  L’azienda prevede di aprire 425 nuovi punti vendita quest’anno.

Prada afferma che le sue aperture di negozi compenseranno le chiusure nel 2016/17

da: http://it.fashionmag.com/news/Prada-afferma-che-le-sue-aperture-di-negozi-compenseranno-le-chiusure-nel-2016-17,680304.html#utm_source=newsletter&utm_medium=email

Il marchio italiano di moda Prada compenserà le nuove aperture di negozi con chiusure selettive quest'anno e il prossimo, nel tentativo di proteggere i suoi margini di profitto dall'attuale debolezza della domanda.

Il gruppo milanese, riportando i suoi dati economici, ha riferito di aver registrato un calo dei profitti annuali più grande del previsto. Il suo utile prima degli interessi e delle imposte è sceso del 28% nei 12 mesi conclusisi a gennaio, attestandosi al 14% del fatturato dal 20% di un anno prima.

"Non vedo un sostanziale cambiamento nell'andamento del mercato," ha riferito il Presidente di Prada, Carlo Mazzi, agli analisti.

"I problemi del mercato in termini di situazione economica del mondo e dei cambiamenti...nei consumatori, specialmente nelle nuove generazioni...sono piuttosto chiari per tutti".

Prada ha intrapreso una rapidissima ed estesa politica di espansione retail dopo essere entrato nel listino della Borsa di Hong Kong nel 2011, ma è stato colpito dal rallentamento economico della Cina e dal giro di vite sul fenomeno degli eccessivi regali di lusso elargiti nel Paese asiatico, nel quale ottiene più di un quinto delle sue vendite.

Del resto, anche il leader del settore dei beni di lusso, il gruppo francese LVMH, ha comunicato di aver ottenuto un fatturato al di sotto delle previsioni nel primo trimestre, perché lo shopping dei turisti nei mercati chiave, tra cui Hong Kong, è rimasto su livelli bassi.

Alessandra Cozzani, che è stata assunta dall'azienda di Miuccia Prada e Patrizio Bertelli a febbraio come Chief Financial Officer dopo l'uscita improvvisa dello storico CFO Donatello Galli, ha dichiarato che Prada bilancerà le nuove aperture con le chiusure e lavorerà per mantenere bassi i costi operativi.

"La rete retail ... rimarrà sicuramente la stessa nel 2016 e probabilmente anche nel 2017. Stiamo lavorando per aumentare la produttività dei punti vendita," ha detto la Cozzani agli analisti.

Prada controllava 618 negozi a gestione diretta al 31 gennaio, dopo aver realizzato 22 aperture nette nel corso dell'anno. Gli onerosi contratti di locazione dei negozi hanno gonfiato la base di costi del marchio italiano, proprio mentre si è avuta una stagnazione delle vendite.

Le vendite al dettaglio di Prada sono diminuite del 5% a cambi costanti nel 2015. Il gruppo ha smesso di pubblicare le cifre di vendita attribuibili ai negozi di nuova apertura rapportate alle vendite effettuate da negozi che sono aperti più di un anno, ma JP Morgan stima che esse siano calate del 9% nel quarto trimestre.

Prada sta anche lottando per attrarre la domanda di quei tanti consumatori odierni che da un lato si rivolgono sempre più a marche maggiormente economiche e dall'altro ai nomi più esclusivi e di nicchia.

Il responsabile del marketing strategico di Prada Stefano Cantino ha dichiarato che il gruppo milanese scommetterà sull'e-commerce, con l'obiettivo di raddoppiare i ricavi in questo ambito nel corso dei prossimi due anni.

A tale scopo, comincerà a lavorare con partner come Yoox Net-A-Porter per vendere i suoi prodotti su vari e-shop multibrand.

Per rafforzare i rapporti con i clienti, saranno adottate anche iniziative digitali e di marketing. "Dal momento che abbiamo un minor numero di clienti che vengono nei nostri negozi, dobbiamo trattarli molto bene", ha concluso Cantino.

ERRI DE LUCA: “In un Paese sotto anestesia, i giovani nascono già vecchi”

di Anotnello Caporale
da: http://www.antonellocaporale.it/2016/04/03/alfabeto-erri-de-luca-in-un-paese-sotto-anestesia-i-giovani-nascono-gia-vecchi/

Erri De Luca, provi a illustrare questo nostro curioso tempo.
È l’età dell’anestesia, del torpore civile, dell’in differenza.
Siamo divenuti ospiti della nostra stessa vita. Come se nulla ci riguardasse immediatamente e completamente.
Ci manca la gioventù. A questa nostra società manca la linfa vitale della giovinezza. Noi vecchi siamo in maggioranza, e chi s’avvia alla vita prende coscienza della realtà dei numeri. Sa che sarà in minoranza e si adegua.
Anestesia, astinenza, astensione.
Sì può declinare anche così. Infatti un governo che chiede l’astensione al referendum sulle trivelle invoca l’astinenza civile, inietta anestetico nelle vene della società. Perciò io credo che il 17 aprile possa essere una prova anche di adrenalina, un risarcimento a noi stessi, alle nostre capacità di ribellione e rivalsa.
Manca la voglia di lottare.
Manca lo spirito di contraddizione, che è spirito essenzialmente giovanile. La voglia di non crederti, di essere scettico per principio, per predisposizione. La mia gioventù era figlia del dopoguerra, ed era una processione di rivolte, una forza inarrestabile di azioni, di energie messe in campo, di disordine creativo. Adesso i vecchi si fanno chiamare diversamente giovani. Siamo giunti al punto della contraffazione culturale, della rivoluzione grammaticale. Ma non dispero. Questo Paese mi riguarda e io sono in campo ogni qualvolta una ragione mi pare giusta, ha dignità di essere difesa, illustrata, denunziata.
Le trivelle, il petrolio, l’oro nero.
E prima la Val Susa e in mezzo gli ulivi pugliesi. Vado dove mi porta la ragione, dove sento il bisogno di stare, la necessità di dar voce.
Il petrolio, adesso.
Oramai non c’è opera pubblica che non sia collaterale a fenomeni di banditismo. E non c’è opera che non arrechi danno al territorio. Come si fa a non mettere in conto che in Val Susa si bucano montagne di amianto? E come si fa a non capire che in Lucania i reflui petroliferi sono veleni puri?
È così banale, così lucente e anche imponente la verità. Eppure facciamo fatica.
Siamo la generazione cavia da un punto di vista storico e biologico. Siamo tecnicamente sottoposti a processi vasti e sconosciuti di aggressione alla nostra salute. C’è una ragione se la vita s’allunga ma s’accorcia l’età del benessere fisico. Viviamo più a lungo ma ci ammaliamo prima. Dai settanta siamo scesi ai sessant’anni.
Il malato è un esubero della modernità?
Il malato è una persona sola, più debole e più fragile anzitutto.
Non teniamo nemmeno più alla nostra sorte.
Se non ti ammali non sai, non credi, non pensi. E se non c’è fermento non hai gambe per muoverti prima.
E se non c’è gioventù.
E se una parte di essa espatria.
È disperante così.
Invece io sono speranzoso e allegro. Giro molto, incontro tanta gente e noto che la presenza femminile è quella che più acutamente indaga e scruta l’orizzonte. Le femmine sono più avanti dei maschi, intorpiditi dall’anestesia. Penso che la classe dirigente che si andrà formando e che governerà l’Italia nei prossimi decenni sarà costituita prevalentemente al femminile.
Lei non si scoraggia.
Non mi posso scoraggiare, non mi devo scoraggiare. Intanto il 17 aprile vedremo chi è superfluo: il governo o il popolo.
Lei crede molto alla prova trivelle?
Sì, può essere una botta di adrenalina e finalmente la cronaca aiuta a capire quanto sia essenziale, utile, meritevole di attenzione la scelta di andare a votare. E votare Sì.
Siamo noi l’ultima istanza.
Bisogna lottare contro fenomeni di banditismo politico.
Banditi addirittura!
Sì, per me sono banditi. E mi compiaccio di non avere nella mia rubrica telefonica un sol numero di essi. Conosco solo gente perbene. La fortuna dell’Italia è che in tanti sono quelli perbene.
Saranno perbene ma vecchi.
O diversamente giovani.
Così camuffiamo.
E i giovani si dicono diversamente adulti.
Sembrano spompati.
Sono solo consapevoli di essere in minoranza e si adeguano.
Conformisti.
Il conformismo muove da una necessità. Perciò bisogna battersi per sovvertire questa logica. Io ci sono. Non giro l’Italia per promuovere i miei libri, ma per cogliere le luci che si accendono, le piccole e anche minuscole battaglie che avanzano ovunque, malgrado il silenzio colluso di gran parte dell’informazione.
C’è speranza dunque?
Eccome se c’è!
Da: Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2016

Le papere della fontana dei Quattro Fiumi di Piazza Navona!
















Una discarica sottomarina nel Canale di Sicilia

da: http://www.huffingtonpost.it/greenpeace-italia/discarica-sottomarina-canale-sicilia_b_9599802.html?utm_hp_ref=italy

L'indagine dei giornalisti investigativi di "Italian Offshore" fa emergere che la piattaforma Vega - tra il 1989 e il 2007 - ha illecitamente smaltito poco meno di mezzo milione di metri cubi di acque inquinate con metalli, idrocarburi ed altre sostanze. L'accusa è di "attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti". Non molto diversa da quella che ha portato al recentissimo intervento della magistratura in Val d'Agri.
In breve, la piattaforma Vega trasferiva le acque contaminate derivanti dal processo di estrazione di petrolio, a una nave appoggio, la Vega Oil (una ex petroliera) che poi illegalmente iniettava queste acque, assieme alle acque di sentina e alle acque di lavaggio della nave stessa, in un pozzo petrolifero sterile, alla profondità di 2.800 metri circa.
Praticamente, a una ventina di chilometri dalle coste siciliane, è stata creata una pericolosa discarica sottomarina che rischia di contaminare per secoli i fondali del Canale di Sicilia.
Il processo sul traffico di rifiuti del Campo Vega è iniziato nel 2007 e ormai si avvia alla prescrizione. I documenti di ISPRA sono del 2010. Come è stato possibile che il Ministero dello Sviluppo Economico nel 2012 abbia concesso una proroga alla continuazione di questa attività?
Quella proroga consente addirittura di realizzare nuovi pozzi nel campo Vega. Il "piano di lavoro" prevede infatti la realizzazione di un'altra piattaforma (Vega B) e la trivellazione di altri 12 nuovi pozzi: che si faranno nonostante il divieto di trivellazione entro le 12 miglia perché autorizzati prima.
Se passa il Sì al referendum del 17 aprile difficilmente Vega B si farà.

Il caso della piattaforma "Vega" di Edison. Ministero Ambiente chiede danni, Governo autorizza raddoppio. E il processo finirà in prescrizione

da: http://www.huffingtonpost.it/2016/04/01/piattaforma-vega-edison_n_9592038.html?utm_hp_ref=italy

Prima ti chiedo i danni, poi ti premio. Il governo ha recentemente dato il via libera al raddoppio della piattaforma petrolifera Vega A, nel canale di Sicilia, gestita dalla società Edison, nonostante il ministero dell'Ambiente si sia costituito parte civile contro 6 manager e dirigenti del colosso energetico italo-francese in un processo per smaltimento illecito di rifiuti in corso presso la procura di Ragusa. Il ministero dell'Ambiente ha chiesto un risarcimento per ingiusto profitto pari a 69milioni di euro, come ha riportato il mensile siciliano “S”, diretto da Antonio Condorelli. Il procedimento giudiziario è aperto dal 2007, ma tra rinvii e vizi di forma non si è ancora chiuso il primo grado. Il 5 maggio a Ragusa si svolgerà l'udienza che probabilmente sancirà la prescrizione dei reati per i manager di Edison, difesi dagli avvocati Tullio Padovani e Marco De Luca, tra i più noti penalisti italiani.
Fin qui la cronaca giudiziaria. Poi viene quella politica: il 16 aprile 2015 il ministero dell'Ambiente ha dato parere positivo alla Valutazione di impatto ambientale per il raddoppio della piattaforma e il 13 novembre dello stesso anno il ministero dello Sviluppo economico ha concesso il rinnovo del permesso per 10 anni. A meno di 12 miglia dalla riserva naturale del fiume Irminio, tra Ragusa e Scicli, Edison potrà costruire una seconda piattaforma petrolifera offshore, Vega B, per continuare a sfruttare il giacimento, attivo dal lontano 1984. L'autorizzazione è arrivata subito prima dello stop alle nuove perforazioni sotto le 12 miglia deciso dal governo con l'ultima legge Finanziaria, entrata in vigore il primo gennaio 2016. Le motivazioni del via libera ministeriale appaiono paradossali: “La società ha ottemperato ai termini di buona gestione del giacimento...”, scrive il Mise in una nota del 12 dicembre 2014. Lo stesso governo che chiede ad Edison i danni in giudizio, la promuove a pieni voti nel momento in cui concede il rinnovo del permesso. In sintesi: grazie alla prescrizione Edison non pagherà i danni procurati, ma incassa dal governo un rinnovo della concessione per un decennio, alla modica cifra di un canone di appena 87 euro l'anno a chilometro quadrato, e con royalties da pagare allo Stato pari ad appena il 7% dei proventi (le royalties italiane sono le più basse d'Europa).
Il danno
A scoprire il presunto reato è stato il comandate Antonio Donato, allora al vertice della capitaneria di Pozzallo, oggi comandante ad Augusta, che nel 2007, durante una verifica ordinaria, notò che la società Edison non aveva riportato nei registri lo smaltimento dei rifiuti della piattaforma. Secondo i documenti dell'Ispra, redatti da Luigi Alcaro e Ezio Amato e finiti agli atti del processo di Ragusa, confermati dalla perizia della procura l'Edison tra il 1989 e il 2007 avrebbe iniettato illegalmente nel pozzo sterile V6, a 2.800 metri di profondità, ingenti quantità di rifiuti petroliferi altamente inquinanti: 147mila metri cubi di acque di strato, liquidi che si trovano nel sottosuolo insieme agli idrocarburi, contenenti alte concentrazioni di metalli pesanti e idrocarburi; 333mila metri cubi di acque di lavaggio delle cisterne della nave di stoccaggio del greggio denominata Vega Oil; e persino 14mila metri cubi di acque di sentina. In totale quasi mezzo milione di metri cubi di liquidi altamente inquinanti, definiti dalla legge “rifiuti speciali”. Mezzo miliardo di litri, l'equivalente del contenuto di 12.500 autocisterne. Secondo Ispra, se Edison avesse smaltito questi rifiuti seguendo le indicazioni di legge, avrebbe dovuto spendere ben 69milioni di euro. Secondo la procura «gli imputati si sono resi responsabili di gravi e reiterati attentati alla salubrità dell'ambiente e dell'ecosistema marino», mettendo in pratica «per pura finalità di contenimento dei costi e quindi di redditività aziendale, modalità criminali di smaltimento dei rifiuti pericolosi». Inoltre, specifica la Procura, gli imputati avrebbero immesso «negli strati geologici profondi sostanze, tra cui acido cloridrico, che hanno modificato le caratteristiche morfologico-strutturali» del sottosuolo marino, con l'obiettivo di aumentare la ricettività del pozzo.
Le conseguenze ambientali elencate dal Pm Francesco Puleio appaiono molto gravi: "dispersione e sversamento di idrocarburi e sostanze inquinanti nelle acque marine: contaminazioni ambientali per l'ecosistema marino, inquinamento delle falde idriche profonde, rischio di sismicità indotta". Il problema, conferma Alessandro Giannì direttore delle campagna di Greenpeace è che il pozzo in cui i rifiuti sono stati iniettati è sterile proprio perché potrebbe non essere a tenuta stagna. "Un giacimento petrolifero è come una botte, che è piena di idrocarburi solo se c'è un coperchio che la impermeabilizza. Il pozzo in cui sono stati iniettati questi rifiuti non ha il tappo, è come se fosse una botte con un buco". Secondo Giannì la vicenda di Vega potrebbe aver creato un danno ambientale molto grave: "I liquidi iniettati potrebbero disperdersi per anni nell'ambiente: praticamente abbiamo creato sul fondo del mare una discarica abusiva che potrebbe rilasciare veleni nell'ambiente per un periodo di tempo che non possiamo definire con esattezza, forse secoli". Non solo. Secondo Giannì "Edison sapeva di iniettare inquinanti in un pozzo non a tenuta, come dimostra il fatto che l'azienda abbia usato degli acidi per “allargare il buco", peggiorando una situazione già compromessa".
Il rinnovo
Nonostante questi precedenti, le pratiche per il rinnovo della concessione e per la costruzione della nuova piattaforma VegaB, inoltrate ai ministeri dell'Ambiente e dello Sviluppo dalla società Edison non hanno avuto particolari intoppi. Eppure la richiesta ha un problema immenso: l'area scelta per la realizzazione della piattaforma VegaB ricade all'interno della fascia di protezione delle 12 miglia dal sito di interesse comunitario (Sic) “Fondali e foce del fiume Irminio”. La legge impedirebbe di costruire nuove piattaforme così vicino a un'area protetta. Ma secondo i due ministeri la nuova piattaforma sarebbe nient'altro che il completamento del vecchio programma di lavori, approvato nel 1984, 32 anni fa. Sulle autorizzazioni concesse dal governo, Legambiente, Greenpeace e il Touring club hanno presentato ricorso al Tar del Lazio. A detta delle organizzazioni ambientaliste il governo avrebbe dovuto rigettare al mittente le richieste di autorizzazioni per numerosi inesattezze e irregolarità.
Il referendum
La vicenda di Vega incrocia anche il referendum sulle piattaforme offshore del 17 aprile, che riguarda la prorogabilità dei permessi petroliferi sotto le 12 miglia. Se nelle urne dovesse prevalere il “sì” l'investimento previsto da Edison per il raddoppio della piattaforma, circa 100 milioni di euro, potrebbe essere bloccato. Il rinnovo del permesso, infatti, scadrà nel 2022, e poiché si tratta di una concessione sotto le 12 miglia, in caso di vittoria dei “sì” non potrebbe più essere rinnovato: una durata troppo breve per ammortizzare i costi di costruzione e sviluppo di una nuova piattaforma offshore.
Salvatore Altiero, Manuele Bonaccorsi, Marcello Brecciaroli fanno parte di Italian Offshore un gruppo di inchiesta che ha vinto il premio Dig (Documentari, Inchieste, Giornalismi) del 2015, con un progetto di documentario sulle trivellazioni petrolifere nei mari italiani. Il gruppo ha lanciato una campagna di crowdfunding, sulla piattaforma indiegogo