L'origine della crisi? Vedi alla voce "delocalizzazione"

di Riccardo Staglianò 
dahttp://stagliano.blogautore.repubblica.it/

Non hai lavoro. Se ce l'hai, non guadagni abbastanza. Eppure una volta tuo padre, che faceva il tuo stesso mestiere, possedeva una bella casetta e vi portava regolarmente al ristorante e in settimana bianca. «È cambiato il mondo» commenta qualcuno, scuotendo la testa. Con la stessa ineluttabilità che si sfodererebbe davanti a un terremoto. Sì, ma non è successo da solo. E soprattutto non è andata così per tutti se quel tipo che conoscevi con una Porsche ora ha anche due Ferrari. Bisogna passare dalla constatazione (amara, amareggiante, complessivamente inutile) alla domanda (complessa, ma a questo punto ineludibile) che pone, già dal titolo, lo storico Ignazio Masulli nel suo Chi ha cambiato il mondo? (Laterza, pag. 254, e. 18). Perché poteva andare diversamente. La «ristrutturazione tardo-capitalista» in atto dagli anni 70 ad oggi poteva avere esiti diversi, anche opposti. Aumentare l'eguaglianza, come nel dopoguerra, invece che esasperare la disuguaglianza, come nell'800 rievocato dal bestseller di Piketty. Nel determinare la destinazione la scelta della strada non è mai un dettaglio. Noi – l'occidente industrializzato – abbiamo apparentemente imboccato tutte quelle sbagliate, scambiandole per scorciatoie. Verso il precipizio.
L'economia ha cominciato a cambiare strutturalmente a metà anni 70. Ma la causa principale, lei sostiene, non è stata lo shock petrolifero del '73 quanto una «crisi di valorizzazione del capitale». Ci spiega meglio?Significa che si era arrivati a un punto di saturazione del capitalismo dei consumi. Tv, elettrodomestici, auto: se ne erano venduti sin troppi. Ed esportarli nei Paesi meno sviluppati all'epoca era impraticabile. Ciò provocò un calo dei profitti per gli industriali. Ovvero: a parità di capitale investito, l'investitore realizzava un profitto minore. Questo era il problema cui dare risposte. C'era una soluzione difficile ma duratura e una facile. La prima sarebbe stata innovare radicalmente, investire in tecnologie e offrire prodotti nuovi. Era la strada maestra, ma non fu presa.

Si preferirono tre scorciatoie. La prima è la delocalizzazione. In pratica, cosa cambiò?I profitti calano? La risposta più ovvia è tagliare i costi. Per farlo si andò a cercare dove la manodopera costava meno. Il rapporto tra la retribuzione media di un lavoratore cinese rispetto a uno statunitense resta oggi di 396 dollari al mese contro 2970. In aggiunta a questa disuguaglianza tra Paesi, c'era anche quella interna, tra gente di città e gente di campagna, abituata a standard ancora più bassi e che continua a costituire una riserva inesauribile di manodopera low cost.

Lei ha calcolato in dettaglio l'entità di questi investimenti diretti all'estero. Di che cifre parliamo?Enormi. La loro crescita, soprattutto, fu impressionante. Nel 1980 la Francia investiva all'estero (in attività produttive durevoli che creino posti di lavoro) somme pari al 3,6 per cento del suo Pil. Nel 2012 erano oltre la metà (57 per cento) della ricchezza del paese. La virtuosa Germania è passata, nello stesso intervallo, dal 4,7 al 45,6 per cento. Mentre la Gran Bretagna è schizzata dal 14,8 al 62,5. Noi abbiamo registrato una moltiplicazione di quasi venti volte: dall’1,6 al 28 per cento.

È possibile calcolare quanti posti di lavoro sono andati perduti delocalizzando così massicciamente?Io l'ho fatto applicando la legge di Okun (dall'economista che la propose nel '62) per la quale a ogni punto in meno di disoccupazione il Pil cresce di 2-3 punti. Immaginando che quella ricchezza fosse rimasta in Francia, sarebbe equivalsa a circa 5,9 milioni di posti di lavoro potenziali. In Germania 7,3 mentre in Italia i 475 miliardi di dollari spesi fuori sarebbero potuti trasformarsi in 2,6 milioni di posti di lavoro. Non è un caso che quasi tutti i paesi che hanno fatto largo ricorso all'outsourcing siano stati scavalcati nelle classifiche internazionali».

Paradossalmente la delocalizzazione, invece di arrestarla, ha anche moltiplicato l'emigrazione...
Quel modello di produzione si è avvantaggiato delle vecchie contraddizioni nei paesi di destinazione, acuendole. Per i cinesi di campagna non è stato facile trasferirsi in città e lavorare alle condizioni imposte dai committenti stranieri. A quel punto però, fatto il primo salto, è stato più naturale fare anche il secondo e trasferirisi direttamente nei paesi dei committenti, dove guadagnare meglio. Così si è passati da poco o niente ai 7 milioni di immigrati in Francia e Gran Bretagna, i 10 in Germania e i 5 in Italia.

Il secondo importante fattore della ristrutturazione che lei cita è l'automazione. È un solito sospetto dai tempi della prima rivoluzione industriale: cosa sarebbe cambiato stavolta?Che le macchine, grazie al software, hanno incorporato il programma con le istruzioni che la fanno funzionare. Quindi sempre meno bisogno di interventi esterni (più economiche) e sempre maggior autonomia. Prima i robot sostituivano i colletti blu (che magari si riciclavano nei servizi), ora l'algoritmo sostituisce i colletti bianchi, e non c'è più rifugio. Storia ed economia, scienze inesatte, non hanno capacità predittive. Però l'automazione attuale procede a un ritmo inedito che sta innescando un dibattito sempre più preoccupato anche tra gli addetti ai lavori.

Il terzo responsabile è la finanza. Cosa succede e perché?Risparmiando con cinesi e robot si è ridotto l'effetto del crollo dei profitti, ma non si è invertita la tendenza. Ormai sembra che il valore di un'industria dipenda meno dalla qualità del prodotto che dall'immagine finanziaria che è capace di proiettare. Se procedi a ristrutturazioni, con tagli drastici della manodopera, il mercato ti premia. Anche le imprese non finanziarie hanno introiettato questa attitudine.

Spinte dai fondi pensione e dalle grandi assicurazioni?
Sì. Questi enormi raccoglitori di denaro che dovevano garantire una vecchiaia serena ai lavoratori sono diventati sempre più aggressivi. Non gli bastavano più gli interessi declinanti generati dalla manifattura, volevano quelli a due cifre della finanza. Ci hanno investito e convinto anche i consigli di amministrazione che controllavano a farlo. Una volta una banca concedeva un mutuo e intascava gli interessi. Poi ha messo insieme tanti mutui, li ha cartolarizzati, impacchettandoli in prodotti finanziari nuovi e pericolosi, che rivendeva subito sul mercato. Nel 2007 il capitale finanziario valeva 240 trilioni di dollari, ovvero più di quattro volte il Pil mondiale. Un fanta-denaro che, a differenza della finanza delle origini, non serviva a trovare risorse per la produzione ma a far arricchire i già ricchi che potevano permettersi di giocare a quel casinò.
Ecco chi ha cambiato il mondo, negli ultimi quarant'anni. Tra le tante vittime, fa eccezione la Germania. «Ha delocalizzato, sì, però mantenendo una politica industriale e investendo in ricerca e sviluppo. Predica l'austerity per gli altri ma mantiene un welfare robusto. Già dalla Costituzione del '52 prevedeva nelle aziende commissioni paritetiche datori-lavoratori». Ci sono ancora. Da quelle parti hanno chiara la distinzione tra diritti e privilegi. E di avviare i primi a una carriera di modernariato, nonostante la moda del momento, proprio non se ne parla.

COSA DICONO DAVVERO I DATI ISTAT SULLA RIPRESA

da: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/05/30/cosa-dicono-davvero-i-dati-istat-sulla-ripresa29.html?ref=search

di Alberto Bisin

IL PAESE ha finalmente ripreso a crescere; il timore della deflazione è finito. I titoli dei giornali si sprecano, ed è giusto che sia così. Il Paese ha bisogno di buone notizie e la pubblicazione dei conti economici trimestrali da parte dell'Istat permette un qualche ottimismo. Persino il Financial Times titola, "L'Italia torna in piedi". La notizia del ritorno alla crescita mette in secondo piano addirittura le previsioni di tracollo definitivo della Grecia che in questi giorni hanno innervosito non poco i mercati, così come i timori di scoppio della presunta bolla sull'azionario in Cina.
Commentare queste notizie per un economista è sempre compito ingrato. Se il rapido ciclo delle notizie rende i giornali inclini a concentrarsi sui dati congiunturali, una prospettiva più analitica non può che soffermarsi con maggiore attenzione sulle tendenze di crescita dell'economia e quindi sulle indicazioni che le diverse componenti dei dati congiunturali permettono di trarre sulla situazione economica generale. Da questo punto di vista i dati Istat vanno purtroppo letti in modo meno trionfale di quanto non vorremmo fare.
Innanzitutto la crescita del Pil nel primo trimestre 2015 è stata dello 0,1% rispetto allo stesso trimestre dell'anno precedente (questa è la cosiddetta "crescita tendenziale"). Non è molto se confrontata all'1% della Germania, al 3% degli Stati Uniti, al 2,4% del Regno Unito e anche allo 0,7% della Francia. Il risultato è ancora peggiore se si tiene conto che la crisi ha colpito il nostro paese più severamente di questi altri e che quindi sarebbe naturale aspettarsi un effetto "rimbalzo" più pronunciato in Italia. L'immagine che meglio riassume la situazione economica del Paese purtroppo è quella della crescita cumulata del Pil negli ultimi 15 anni. Se il Regno Unito è cresciuto di circa il 30% e l'Eurozona di circa il 15%, l'Italia è rimasta al palo. Zero. Questo è il risultato di una combinazione di tre fattori: una minore crescita fino al 2008, una recessione più profonda fino al 2013, e una ripresa più tarda e più lenta da allora.
Una lettura più ottimistica dei nuovi dati Istat è però chiaramente possibile. I dati sulla crescita tendenziale in Italia patiscono il ritardo della ripresa, che ha notevolmente faticato negli ultimi tre trimestri del 2014. I dati di "crescita congiunturale", relativi cioè all'ultimo trimestre, sono invece più favorevoli, sia in assoluto che relativamente agli altri paesi. L'Italia cresce dello 0,3%, come la Germania e il Regno Unito, e più degli Stati Uniti. Questi sono i dati che potrebbero farci pensare di aver svoltato l'angolo. Difficile a dirsi naturalmente: estrapolare da un trimestre in controtendenza è operazione statisticamente suicida che evito con piacere. Ma un'occhiata ai dati disaggregati è utile per cercare di farsi un'idea più precisa di cosa stia succedendo.
Innanzitutto la crescita del primo trimestre del 2015 è dovuta in misura sostanziale alla crescita degli investimenti fissi lordi e delle scorte, senza un contributo positivo dei consumi finali nazionali. La spesa delle famiglie è leggermente diminuita e quella della Pubblica Amministrazione è aumentata in pari entità percentuale. Questo non è un buon segno naturalmente, nel senso che una solida ripresa dopo una recessione è associata tipicamente ad una rinnovata fiducia dei consumatori e quindi ad una ripresa dei consumi assieme a quella degli investimenti. Anche il fatto che cresca l'Agricoltura e non i Servizi non è un buon presagio: è nei Servizi che si nascondono le maggiori opportunità di sviluppo di una economia moderna e avanzata come la nostra. Anche a "nutrire il pianeta" e produrre "energia per la vita" si arriva attraverso innovazione e tecnologia, è lì che si genera crescita.
Ma il dato più rilevante, non so dire se allarmante, è che la crescita congiunturale degli investimenti si è manifestata in larga parte nel settore Mezzi di trasporto. Sarà anche vero che quando va bene la Fiat va bene il Paese, ma una crescita più omogenea tra settori avrebbe indicato più nettamente una ripresa in atto.
Infine, è necessario anche ridimensionare i commenti sulla fine della deflazione. L'inversione di tendenza dei prezzi è dovuta in parte sostanziale al fatto che il calo dei prezzi dei beni energetici abbia rallentato notevolmente. Il deflatore della spesa delle famiglie residenti e quello degli investimenti sono calati ma non direi in modo preoccupante. La notizia rilevante riguardo ai prezzi è quindi che possibili tendenze deflattive continuino a non manifestarsi.
Riassumo quindi, per chi si fosse perso nella noiosa ma inevitabile analisi dei dati. A costo di apparire Cassandra, come spesso accade agli economisti che discutono della situazione economica del nostro Paese, i dati dell'Istat sono meno positivi di quanto non possa sembrare. Vi sono pochi dubbi che la ripresa, ammesso che sia iniziata, rimanga debole e fragile. E certo, meglio che niente, ma uno 0.1%, o 0,3% che dir si voglia, non ha un gran potere taumaturgico di per sé.