Pensioni più povere se il Pil non torna a salire: i futuri assegni previdenziali rischiano di ridursi fino al 20%

da:http://economia.ilmessaggero.it/economia_e_finanza/pensioni_pil_futuri_assegni_previdenziali_rischiano_di_ridursi/849187.shtml

Immagine Pensioni più povere se il Pil non sale: i futuri assegni rischiano di ridursi fino al 20%
PER APPROFONDIRE
di Andrea Bassi
Il documento è chiuso da tempo in un cassetto dell’Inps. Una nota lasciata dall’ex coordinatore generale del servizio statistico attuariale dell’Istituto di previdenza sociale, Antonietta Mundo, colei che fino a poco tempo fa (è appena andata in pensione) sovrintendeva a tutte le stime sul futuro pensionistico degli italiani.

Tra le pagine del dossier c’è un passaggio che suona come un campanello d’allarme. «Se le stime del Mef (ministero dell’economia e delle finanze, ndr) fossero verificate», si legge nel testo che Il Messaggero ha potuto visionare, «sarebbe la prima volta che i contributi versati, anziché rivalutarsi, subiscono un decremento». Per capire di cosa parla Antonietta Mundo e perché il documento, ha creato qualche apprensione già al governo precedente, bisogna fare un passo indietro.

Con il nuovo sistema previdenziale, la pensione è frutto dei contributi che ogni lavoratore accumula. Il datore di lavoro preleva il 33 per cento dello stipendio e lo versa all’Inps. Ogni anno l’Inps rivaluta questi contributi. Un po’ come quando si portano i soldi in banca e la banca paga un interesse. Il tasso di interesse pagato dall’Inps è pari alla crescita media del Pil nominale nei cinque anni precedenti. Il Pil nominale è, grossolanamente, la somma tra il Pil reale e l’inflazione. Insomma, se l’azienda Italia marcia e c’è anche un po’ di inflazione, le pensioni pubbliche saranno soddisfacenti.

Ma se accade, come sta accadendo, il contrario? Se il Pil non cresce e l’inflazione arretra e diventa deflazione, i contributi versati all’Inps invece di aumentare diminuiscono. È come se si portassero 1.000 euro in banca e l’anno dopo se ne trovassero sul conto 990. Per capire quanto sia serio il problema basta prendere l’esempio riportato nel documento. Nel 1997 il tasso di rivalutazione dei contributi è stato del 5,5871 per cento. Nel 2012 si è scesi all’1,1344 per cento. Nel 2014, spiega il dossier, «si avrà un tasso di capitalizzazione di segno negativo stimato pari a -0,024 per cento». Per la prima volta, insomma, 1.000 euro messi da parte all’Inps per la pensione varranno 999,9 euro. E sarà, come detto, la prima volta in assoluto da quando esiste il sistema contributivo.

LE SIMULAZIONI
Cosa succederà alle future pensioni, a quelle di chi lascerà il lavoro tra cinque, dieci o anche trent’anni? Un solo anno ovviamente significa poco, ma se la crisi dovesse essere lunga e la crescita una chimera, allora sarebbero guai seri. Una simulazione (si veda grafico in pagina) è stata elaborata da Progetica, una delle principali società indipendenti di consulenza italiane sui temi previdenziali. In assenza di crescita la futura pensione, per esempio, di un trentenne di oggi potrebbe essere più leggera del 22 per cento. Se il Pil aumentasse in media del 2 per cento l’anno, il trentenne lavoratore dipendente quando a circa 67 anni lascerà il lavoro, incasserebbe una pensione pubblica pari al 71 per cento della sua ultima retribuzione. Ma se la crescita del Pil fosse «zero», quella stessa pensione non supererebbe il 49 per cento dell’ultimo stipendio. Lo stesso, anche se in misura minore, sarebbe valido anche per un attuale cinquantenne che con una crescita zero si vedrebbe l’assegno ridotto dell’11 per cento rispetto ad una situazione in cui il Pil marciasse al ritmo del 2 per cento l’anno. Se non si ricomincia a crescere e se non arriva almeno un po’ di inflazione insomma, i futuri pensionati rischiano di essere poveri.

La discriminazione in Italia inizia in spiaggia!

da: http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/08/12/ostia-tre-chilometri-di-spiaggia-off-limits-e-in-esclusiva-per-i-dipendenti-del-quirinale/292378/#disqus_thread

Parola di finanziere: “Lei sta entrando in una zona della presidenza della Repubblica, l’accesso è vietato tranne a dipendenti del Colle e ai loro familiari”. 

Il compito del militare è di fare la guardia a tre chilometri di spiaggia a Castelporziano, a Ostia, e impedire agli ignari bagnanti di mettere piede su quello che è territorio esclusivo della residenza sul colle più alto di Roma. 

L’ingresso, ma anche il semplicepassaggio sono interdetti a tutti quelli che non lavorano per il Quirinale: non si può camminare sul bagnasciuga e anche a nuoto il transito è vietato a meno di 300 metri dalla costa, come per i motoscafi. 

La normativa, affermata dall’articolo 11 della legge 217 del 2011, spiega che resta sempre fermo – anche in caso di concessioni – “il diritto libero e gratuito di accesso e di fruizione della battigia, anche ai fini di balneazione”. 

Eppure anche da terra la situazione non cambia: a fare la guardia all’ingresso della spiaggia presidenziale sono i Carabinieri che spiegano: “Noi richiamiamo i turisti sbadati, se insistono scatta la diffida e poi la denuncia”. 77Sì, perché quel pezzo di Litorale romano, stretto fra il mare e la pineta, è appannaggio esclusivo per chi lavora al Quirinale e nessun altro. “Basta pagare una quota associativa di 60 euro l’anno”, spiegano i fortunati bagnanti .

Mediobanca, il 67% del made in Italy prodotto all'estero. Tagli all'occupazione e meno utili per tutti.

da:http://www.repubblica.it/economia/2014/08/08/news/mediobanca_il_67_del_made_in_italy_prodotto_all_estero_tagli_all_occupazione_e_meno_utili_per_tutti-93418636/?ref=HREC1-7


Dal report pubblicato dall'ufficio studi della casa d'affari milanese, emerge come i grandi gruppi multinazionali italiani abbiano delocalizzato la produzione. Una tendenza ancora maggiore quando al vertice arrivano soci esteri con gravi danni per l'occupazione

Crollano i margini e le aziende pubbliche tengono solo grazie alle tariffe. Pochi i finanziamenti da parte delle banche


MILANO - Produzione e vendite all'estero. L'Ufficio studi di Mediobanca, la principale banca d'affari italiana, ha pubblicato il suo consueto Rapporto R&S che analizza i dati cumulativi di oltre 2mila gruppi che battono bandiera italiana e ha scoperto che, a parte l'insegna, del made in Italy resta ben poco. Nel 2013 i maggiori gruppi manifatturieri italiani con organizzazione multinazionale hanno prodotto il 67% dei loro beni all'estero e solo il 9% del fatturato viene realizzato in Italia contro il 91% all'estero.  

Occupazione.
Non deve quindi stupire che l'occupazione è risultata in calo del 5% tra il 2008, ultimo anno prima della crisi, ed il 2013, con la mannaia delle delocalizzazioni che taglia soprattutto le tute blu (-7,8%) rispetto ai colletti bianchi (-1,3%) -La base operaia, però, resta maggiore nelle medie imprese (63%) ,rispetto ai grandi gruppi manifatturieri (52%). Mano pesante sull'occupazione da parte delle società pubbliche (-9,2% dal 2008) e forte calo anche nel manifatturiero (-5,7%) dove hanno tagliato posti di lavoro soprattutto le imprese a controllo estero (-11,3%). Riduzioni di personale minori nelle medie imprese (-2,1%) e nel Made in Italy a controllo italiano (-2,2%), mentre è calato del 10,6% quello controllato da mani straniere.


Mercato straniero. Il 91% di estero delle imprese italiane è suddiviso tra esportazioni (24%), ossia beni prodotti in Italia e venduti su altri mercati, e dal cosiddetto 'estero su estero' (67%), costituito


dai beni prodotti all'estero e venduti sui vari mercati. In realtà la quota di produzione all'estero potrebbe anche essere superiore, in quanto il 9% di quota nazionale del fatturato, non esprime necessariamente beni prodotti in Italia. Le 2.050 imprese italiane radiografate dal Centro Studi di Mediobanca rappresentano la totalità delle aziende industriali con oltre 500 addetti, che a loro volta esprimono circa il 50% del fatturato della manifattura ed il 57% delle esportazioni. Le loro vendite fanno capo per il 24% a società pubbliche e per il 46% a privati italiani e per il 30% a soggetti di nazionalità estera, a loro volta più concentrati sul terziario (43%) che nella manifattura (31%), mentre il 25% vale per il petrolio e il 23% per l'energia ed il gas.

Il pubblico è meglio del privato.  Le imprese in mano allo Stato hanno fatto meglio delle imprese private italiane dal 2008 al 2013. Nello studio viene indicato un calo del 2,4% del fatturato aggregato delle società che operano in Italia, con i soggetti pubblici in crescita del 6,1% ed i privati in calo del 4,7%. Le società pubbliche, che comprendono anche le multiutility, sono state favorite dai regimi tariffari in cui operano queste ultime, mentre le società private hanno scontato il calo del 6% del settore manifatturiero, a sua volta penalizzato dal passo indietro dei grandi gruppi (-6,3%). Diverso il discorso delle aziende di medie dimensioni, che hanno visto crescere il loro fatturato dello 0,9%. 
Quanto al 'Made in Italy', è andato bene solo se in mani italiane, registrando una flessione limitata allo 0,8%. 
Il 25% di 'Made in Italy' controllato da stranieri, invece, ha visto scendere il proprio fatturato dell'11,1%. Ha sofferto infine il terziario (-1,5%), soprattutto a causa del calo registrato nelle telecomunicazioni (-18,2%) e nelle televisioni (-9%). Vero e proprio boom invece per le imprese di costruzioni (+16,2%), costituite dai grandi 'contractor' di opere infrastrutturali, soprattutto in cantieri esteri.

Meno utili per le imprese. 

I margini industriali delle 2050 imprese radiografate sono letteralmente crollati (-42,5%) rispetto ai livelli ante crisi del 2007. Non si sono salvate né le imprese pubbliche (-44,7%) né quelle private (-41,7%). Hanno fatto meno peggio però le medie imprese (-16,6%), a fronte di margini addirittura negativi per quelle più grandi. Nel 2013 i margini industriali sono caduti del 6,5% rispetto al 2012 per l'aggregato, del 9,4% per il pubblico e del 5,5% per i privati. Gli unici incrementi si sono registrati tra le imprese medie (+15,9%) quelle e medio-grandi (+10,2%). In calo anche gli investimenti, scesi del 40,6% nel decennio 2004-2013, più nel pubblico (-53,8%) che nel privato (-30,3%). Sono precipitati anche nel terziario (-62,9%), mentre hanno tenuto ancora una volta le medie imprese (-7%).

Pochi finanziamenti da parte delle banche


Trentatrè miliardi di mancato credito in 4 anni. E' l'importo calcolato dal Centro Studi di Mediobanca osservando la dinamica dei finanziamenti alle imprese da parte del sistema bancario tra il 2009 ed il 2013. L'ammontare dei crediti bancari era però aumentato di 48,6 miliardi tra 2005 e 2008, quindi nell'arco del decennio il saldo è aumentato di 15,6 miliardi, ma ha rappresentato solo il 13,4% del debito finanziario accumulato dalle imprese, salito di 115,8 miliardi grazie all'apporto delle obbligazioni e dei conferimenti delle consociate estere, che hanno emesso bond per conto dei gruppi di appartenenza.