Il padrone kazako di M. Giannini


Il padrone kazako


UNA democrazia non può e non deve avere paura della verità. Per questo lo scandalo kazako segna una pagina nera della democrazia. E per questo la scelta della «strana maggioranza », che chiude gli occhi di fronte alla colossale operazione di manomissione della realtà e blinda l’esecutivo solo in nome della realpolitik, non aiuta la causa della buona democrazia.

 Angelino Alfano ha mentito al Parlamento e al popolo sovrano. 

«È un fatto gravissimo: non ero stato informato io, né i miei colleghi, né il presidente del Consiglio». Questo dice al Senato, il ministro dell’Interno, dando lettura puntigliosa e testuale delle sei cartelle che compongono, da pagina 8 a pagina 13, la parte della relazione del prefetto Pansa intitolata “Il flusso informativo”. Nulla sapeva, dunque, di ciò che è avvenuto tra il 28 e il 31 maggio, quando l’ambasciatore kazako Adrian Yelemessov chiede e ottiene dal Viminale che la moglie e la figlia di un noto dissidente siano «sequestrate» e rispedite, con procedure contrarie al diritto interno e internazionale, in un Paese il cui regime pratica abitualmente la tortura.

Quello che invece non dice ai senatori, il ministro dell’Interno, è ciò che è scritto nelle sette cartelle precedenti di quel rapporto, intitolate “Cronologia dei fatti”, dove alla pagina 2 si può leggere ciò che accadde davvero «il 28 maggio», «nella serata»: «Il ministro dell’Interno, a seguito di ulteriori telefonate dell’Ambasciatore, cui non ha risposto, fa incontrare lo stesso con il suo Capo di gabinetto». Quello che non dice ai senatori, il ministro dell’Interno, e ciò che invece riconosce il suo stesso Capo di Gabinetto, ora costretto alle dimissioni e finora unico capro espiatorio dell’intera vicenda, nell’intervista non smentita rilasciata ieri a “Repubblica”. Alla domanda di Carlo Bonini: «Era stato il ministro Alfano a chiederle di ricevere l’ambasciatore kazako?», Giuseppe Procaccini testualmente risponde: «Sì. Ero stato informato che l’ambasciatore doveva riferirmi una questione molto delicata ». E poco più avanti, alla domanda: «Dunque il 29 maggio il ministro dell’Interno sapeva che la diplomazia kazaka aveva chiesto l’arresto di un latitante? », il funzionario ammette: «Sì. Di un pericoloso latitante».

Eccole, se ancora ce ne fosse bisogno, le prove dell’omertà che rendono indifendibile Alfano, e non più sostenibile la sua posizione dentro il governo. Per un mese e mezzo il ministro dell’Interno, e con lui quello degli Esteri, hanno vissuto o hanno fatto finta di vivere in un vuoto politico e pneumatico, dove la sovranità statuale è stata sospesa, e dove la potestà ministeriale è stata disattesa. Alfano e Bonino non hanno visto, sentito o parlato. E hanno lasciato che, a ordinare, a gestire e a decidere della sorte di due cittadine straniere, sul territorio italiano, fosse il «padrone kazako», cioè il satrapo dispotico Nursultan Nazarbaeyev, attraverso i suoi messi diplomatici. Lo dicono i fatti, e lo confermano i documenti ufficiali.

È Yelemessov, la sera del 28 maggio, a irrompere al Viminale, ad esigere il blitz nella villetta di Casal Palocco, a prendere parte insieme ai funzionari della Ps alla «riunione operativa» nell’ufficio di Procaccini, che lo stesso (ex) Capo di Gabinetto, nell’intervista a “Repubblica” di ieri, racconta sia «finita molto tardi».

È Yelemessov, attraverso il suo consigliere Khassen, a forzare la Questura di Roma per avviare l’operazione, spiegando che il dissidente Ablyazov «è un criminale pericoloso in contatto con gruppi armati terroristici ». È Yelemessov, attraverso Khassen, a concordare il 30 maggio (dopo il blitz che non ha portato alla cattura di Ablyazov, ma al sequestro di sua moglie e sua figlia) le procedure di espulsione di Alma e di Alua, a «rappresentare alla Questura il timore che un transito a Mosca possa diventare l’occasione per un attacco organizzato dal ricercato», e a comunicare alla stessa Questura che la Shalabayeva «potrebbe usare un passaporto falso della Repubblica del Centro Africa» (comunicazione poi rivelatasi a sua volta falsa). È Yelemessov, attraverso Khassen, a fornire il 31 maggio alla Questura i documenti di viaggio di Alma e Alua e a proporre «la possibilità di un volo diretto verso la capitale del Kazakhstan, in partenza dall’aeroporto di Ciampino alle ore 17». E infine è ancora Yelemessov, attraverso Khassen, a prendere direttamente in carico madre e figlia poco prima delle 17 del 31 maggio, e ad imbarcarle «sul volo della compagnia austriaca Avcon Jet, proveniente da Lipsia e diretto ad Astana».

Com’è evidente, per ragioni che vanno al di là della pura e semplice inefficienza delle burocrazie amministrative, un bel pezzo di sicurezza nazionale è stata nelle mani delle autorità kazake, mentre quelle italiane si bagnavano nell’acqua di Ponzio Pilato. Il “padrone kazako” è stato il vero gestore di questa «rendition all’amatriciana », che ha ridicolizzato l’Italia di fronte al mondo e l’ha esposta a una più grave violazione dei diritti umani nei confronti di una donna e della sua figlioletta di sei anni. Può ritenersi soddisfatto, l’ambasciatore kazako, che ora un’indignata Bonino convoca inutilmente alla Farnesina. Yelemessov se n’è già andato in ferie: un meritato «viaggio premio», perché lui la sua «missione» può dire di averla a tutti gli effetti compiuta.

Sono le autorità politiche e amministrative italiane che, invece, la loro missione l’hanno miseramente fallita, o volutamente sfuggita. Bisognava ammetterlo subito, senza rifugiarsi dietro l’ormai solita scusa tartufesca del misfatto «a mia insaputa». Bisognava che Alfano lo riconoscesse subito, assumendosi fino in fondo e a viso aperto le sue responsabilità, senza scaricarle sulla tecnostruttura che comunque dipende da lui, e senza la penosa e pelosa «chiamata di correo» nei confronti di Enrico Letta. «Né io né il premier sapevamo nulla», ribadisce il ministro. A sproposito, perché nessuno ha mai insinuato che il presidente del Consiglio sapeva o avrebbe dovuto sapere fin dall’inizio cosa successe in quei frenetici giorni di fine maggio, nel quadrilatero oscuro Viminale- Casal Palocco-Ponte Galeria-Ciampino. 

Questa colpa «in vigilando», o questo dolo «in agendo», pesa tutto intero sulle spalle del ministro dell’Interno. Che se non sapeva è stato negligente, e se sapeva è stato reticente. Forse ha agito in base a ordini superiori, vista la spregiudicata disinvoltura con la quale la «falange kazaka» ha orchestrato e diretto le operazioni italiane, certa di poter pretendere un «sequestro di persona» in cambio dei buoni affari conclusi a suo tempo dall’ex premier Berlusconi con gli zar del petrolio ex sovietico. Forse è stato addirittura scavalcato dal suo leader, che di Nazarbayev è molto più amico di quanto non riconosca lui stesso nell’intervista al “Corriere della Sera” di ieri, in cui il Cavaliere blinda Alfano e il governo definendo «assurde queste mozioni di sfiducia presentate dalle opposizioni, che impegnano il Parlamento e fanno perdere tempo in un momento così difficile e preoccupante». Non male, detto dal capo-popolo di un partito che solo una settimana fa, dopo la semplice fissazione di un’udienza della Cassazione, ha minacciato l’Aventino chiedendo la «serrata » delle Camere per tre giorni consecutivi.

Comunque siano andate le cose, Alfano aveva il dovere di dimettersi da ministro dell’Interno. 
E quel dovere lo ha ancora. Non è troppo tardi, per un gesto di serietà istituzionale e di onestà intellettuale di fronte al Paese. E il Pd non dovrebbe dividersi né provare imbarazzi inutili, nell’invocare ed esigere quel gesto. Non dovrebbe rassegnarsi alla logica che lega inestricabilmente la sorte personale di Alfano a quella del governo. E invece è esattamente quello che fa: scivolando sempre di più, in nome di una governabilità a qualsiasi costo, sul piano inclinato del compromesso al ribasso. Si dice che la richiesta delle dimissioni di Alfano indebolisce il governo, o addirittura lo espone al rischio di una crisi.

Ma proviamo a rovesciare la visuale. È quello che è accaduto, cioè lo scandalo kazako, ad aver indebolito irrimediabilmente il governo e ad averlo esposto al pericolo di una caduta. Non è quello che dovrebbe accadere, cioè la doverosa uscita di scena di chi ha sbagliato, a minacciare la sopravvivenza della Grande Coalizione. Se non si erigono le barricate dell’ideologia, è possibile separare il destino del ministro dell’Interno dal futuro delle Larghe Intese. Il governo Letta potrebbe persino rafforzarsi, se riuscisse ad uscire da questo pasticcio kazako con una soluzione decorosa. L’autoassoluzione della politica, che per durare insegue di volta in volta l’impunità formale e sostanziale, non lo è affatto. Se la «pacificazione» produce assuefazione, non ci rimette solo la sinistra. Ci rimette l’Italia.

da: http://www.repubblica.it/politica/2013/07/18/news/il_padrone_kazako-63210562/

Bankitalia: "La crisi ha distrutto tutti i settori dell'industria italiana"

Bankitalia: "La crisi ha distrutto
tutti i settori dell'industria italiana"

Da uno studio di via Nazionale emerge come "in tutti i comparti industriali i livelli produttivi sono inferiori a quelli precedenti la crisi". A pesare è soprattutto l'imposizione fiscale e i costi dell'energia. Tuttavia, c'è spazio per la ripresa se le imprese "sapranno trasformarsi"



MILANO
 - La crisi ha distrutto l'industria italiana: "La perdita di produzione ha assunto dimensioni preoccupanti" e "in tutti i comparti industriali i livelli produttivi sono inferiori a quelli precedenti la crisi". E' l'estrema sintesi di un ampio studio di Bankitalia sul sistema industriale italiano: "Dall'analisi - si legge - emerge un quadro di diffusa debolezza".

Lo studio di via Nazionale sottolinea come il costo del lavoro, "se valutato al netto della tassazione, non risulta un fattore di freno primario per la competitività delle imprese italiane" mentre "i costi dell'energia e una pressione fiscale molto elevata sull'economia regolare rendono più difficile alle imprese competere". Come se non bastasse la crisi ha appesantito le difficoltà
del made in Italy innestandosi su una tendenza di più lungo periodo.

Il tessile e le calzature hanno mostrato dall'aprile 2008 un calo del 30,7 e del 39,3% ma se si sale alla seconda metà degli anni novanta è il calo è del 50-70%. 

Tuttavia, secondo gli esperti di Bankitalia, "vi sono buone ragioni per dubitare che il destino dell'industria italiana sia segnato. Il suo declino non è irreversibile, purché le imprese sappiano trasformarsi. Un gran numero di imprese riesce ad essere competitivo in un contesto meno favorevole di altri".


Da http://www.repubblica.it/economia/2013/07/14/news/bankitalia_industria_crisi-62967972/?ref=HREC1-11
 

Il Made in Italy sotto i tacchi


Dal Corriere:
http://www.corriere.it/inchieste/reportime/economia/made-italy-sotto-tacchi/38d22b3c-e4c9-11e2-8ffb-29023a5ee012.shtml

"(...) ecco la seconda tappa del Made in Italy: la Riviera del Brenta, tra Venezia e Padova, capitale della scarpe griffate.
Capitale ancora per poco se i nostri marchi continuano a cullarsi sulla convinzione che il mondo non si accorgerà mai del trucco sotto il tacco marchiato Made in Italy. Oggi l’export del prodotto di lusso regge bene alla crisi soprattutto grazie ai mercati emergenti. Basterebbe un po’ di lungimiranza per prevedere che i russi e i cinesi con i portafogli griffati non acquisteranno più il Made in Italy quando scopriranno che stanno pagando per una scritta esclusiva che mente sull’origine della produzione artigianale.
La norma sull’etichettatura europea infatti consente di realizzare all’estero le parti più importanti di qualunque prodotto manifatturiero e le nostre marche prediligono l’Europa dell’est e l’Asia grazie ai bassi costi della manodopera. Anche molte delle griffes francesi si spingono in Serbia, Romania, Cina e Indonesia per poi assemblare nella Riviera del Brenta le parti realizzate all’estero. La legge truffa lo consente. Alle griffes francesi conviene. I loro marchi del lusso, dopo avere comprato gli italiani Gucci, Bottega Veneta, Sergio Rossi e via dicendo, producono soprattutto in quei distretti italiani dell’artigianato che ancora godono di prestigio.
Il discredito che potrebbe colpire quei distretti può penalizzare soltanto il brand più prezioso: il nostroMade in Italy. I politici di casa nostra non hanno difeso l’esclusività della nostra manifattura artigianale quando hanno approvato regolamenti europei sull’etichettatura che consentono di marchiare Made in Italy prodotti realizzati in gran parte all’estero. Sono i responsabili della perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro della piccola e media impresa in favore di quella grande che ha ridotto i costi.
«I dati parlano chiaro», sostiene Matteo Ribon della Cna Federmoda Veneto «il fatturato del settore è lo stesso da dieci anni e la produzione si aggira sempre intorno ai 20 milioni di scarpe l'anno quindi è evidente che a perderci sono gli Italiani, in particolare gli artigiani annientati dalla doppia concorrenza: quella straniera causata dalla delocalizzazione e quella dei Cinesi che lavorano qui nel distretto».
Nel settore pelli calzature dal 2001 al 2012 le imprese individuali cinesi sono aumentate da 30 a 205 mentre hanno chiuso bottega 90 imprese artigiane italiane. I Cinesi hanno sostituito gli Italiani a colpi di concorrenza sleale. Illegalità, sfruttamento della manodopera (spesso in nero) sono alla base di un’inesorabile avanzata dei laboratori cinesi in tutti i distretti del Made in Italy.
La statistica smentisce impietosamente l’ipocrisia dei committenti italiani che fingono di non sapere perché i terzisti cinesi ai quali affidano la propria merce sono così rapidi, flessibili e concorrenziali. Tutte (proprio tutte) le volte che le forze dell’ordine si ricordano di effettuare un controllo nelle aziende “artigianali” cinesi, riscontrano almeno una delle seguenti irregolarità: impiego della manodopera in nero, riduzione in schiavitù di clandestini, violazione delle norme sulla sicurezza dei lavoratori, evasione contributiva e ovviamente fiscale. Avere sempre una mazzetta di soldi in nero sotto il bancone è particolarmente utile.
Le griffes delle scarpe sono state le prime in Italia ad arruolare direttamente terzisti cinesi. Ma non vedono, non sentono e non parlano. Però pagano a prezzo scontato le tomaie, che è poi la parte più artigianale della scarpa. Mentre i prezzi delle loro pregiate scarpe Made in Italy non sono affatto diminuiti. Sono invece drasticamente crollati i posti di lavoro per gli artigiani italiani.
L’Associazione tomaifici terzisti veneti presieduta dall’artigiano Federico Barison riunisce una quarantina di terzisti stanchi di aspettare che i politici regionali, la magistratura e le forze dell’ordine si accorgano della nuova “mala” del Brenta. Un esposto arrivato un anno fa alla Procura della Repubblica di Venezia non ha modificato lo scenario. Un paio di controlli e tutto è rientrato. Stranamente i controlli sono invece aumentati nei confronti degli associati.
Matteo Ribon della Cna denuncia: «Quest'anno ci sono 250 dipendenti di tomaifici e terzisti in cassa integrazione e venti aziende sono a rischio chiusura. Ovviamente solo italiane. Non mi risulta che quelle cinesi facciano richiesta di cassa integrazione».
Nel video registrato con camera nascosta si vedono numerosi operai cinesi intenti a cucire tomaie in un laboratorio della Riviera. Da una verifica è poi risultato che il titolare cinese aveva registrato presso l’ufficio preposto soltanto due dipendenti. Gli altri lavoravano in nero e non è dato sapere se fossero anche clandestini. L’imprenditore cinese cuciva tomaie a metà prezzo per una nota marca italiana che qualche mese prima l’aveva preferito all’artigiano italiano, che in mancanza di lavoro è stato costretto a mettere in cassa integrazione le sue operaie. Un altro costo per la collettività.
Finché non si applicheranno severe sanzioni anche contro i committenti e finché non si farà una norma che disponga la distruzione della merce pregiata trovata nei laboratori irregolari non cambierà niente. Il prestigio del Made in Italy resiste finché i panni sporchi continuano a essere lavati in famiglia. Denunciare è l’unica arma rimasta in mano agli artigiani.
Alle griffes per ora sta andando di lusso perché i cinesi (ricchi) non si sono accorti che potrebbero fare già tutto in casa, arruolando quelli (poveri), soprattutto gli emigrati in Italia per lo più illegalmente. Hanno goduto di dieci anni di impunità per trasformarsi in abili esecutori dell’eccellenza artigianale. Le stesse griffes hanno delocalizzato parte della produzione in Cina esportando le nostre preziose competenze su materiali, macchinari e tecniche di manifattura. Proprio dei maestri."

Il S.I.A.N. dell'Asl Roma C: un ente utile solo a chi ci lavora... per lo stipendio!

A cosa serve il S.I.A.N. ?

A nulla! solo ai dipendenti per prendersi lo stipendio e fare finta d'essere impegnati!

In seguito all'articolo del Salvagente intitolato  "Epatite A e frutti di bosco: l'allarme si estende"  di Lorenzo Misuraca ed in seguito al ricovero di una mia amica per Epatite A ,  oggi mi sono recata  con lei  presso il S.I.A.N. della asl Roma C  per fare analizzare il contenuto di una busta aperta di Frutti di Bosco prodotti da Green Ice spa e denominati "Bosco Buono", Lotto 13059, in modo da capire se anche quel lotto era contaminato ed in caso, evitare la diffusione dell'Epatite A anche a Roma.


Presso tale struttura, dopo aver insistito per quasi un'ora, veniamo a conoscenza che nè l'Arpa Lazio e tanto meno l'Istituto zooprofilattico  (contattati telefonicamente dalla dott.ssa Saba Minielli) sono in grado di svolgere le analisi.

L'incontro con la dottoressa e con il suo braccio destro è stato quanto meno kafkiano: ci hanno detto che per accogliere la denuncia serve lo scontrino fiscale d'acquisto del prodotto (comprato ad aprile 2013 presso un supermercato famoso a Roma), anche se ogni prodotto ha il codice a barre; che il prodotto doveva essere integro, quindi una persona il virus l'ha contratto consumando un prodotto chiuso! e che comunque gli avvocati dell'azienda produttrice avrebbero rigettato la denuncia adducendo le motivazioni appena riportate o addirittura che il virus dipendeva dal  surgelatore casalingo...

In sostanza il S.I.A.N. non ha accolto la  richiesta della mia amica e ci domandiamo a cosa serva tale ente, se di fatto non ascolta e non tutela la cittadinanza! E magari intanto l'epatite A si diffonde!

Frutti di bosco congelati ed epatite A

Da:  http://www.ilsalvagente.it/Sezione.jsp?titolo=Epatite+A+e+frutti+di+bosco%3A+l'allarme+si+estende+(video)&idSezione=21301

L'inchiesta del salvagente in edicola. Colpita l'Italia del Nord. I cibi a rischio.

Lorenzo Misuraca
Un aumento del 70% di casi rispetto al 2012. Prodotti ritirati dal mercato, indagini in corso e richiesta a tutti gli istituti zooprofilattici di analizzare partite e partite di alimenti sospetti. L’epatite A dopo aver mobilitato mezza Europa ora allarma anche le autorità italiane.  E la storia di quello che è diventato un allerta europeo la racconta in dettaglio il Salvagente di questa settimana (in vendita in edicola o in versione sfogliabile e in pdf sul nostro negozio on line, numero 23/2013), facendo i nomi dei primi prodotti richiamati dagli scaffali e ricostruendo una vicenda diventata da “codice rosso” lo scorso 23 maggio, quando il ministero della Salute ha emanato una circolare con cui invitava tutte le Asl a monitorare i casi di malattia segnalati e “avviare indagini sul territorio nazionale per identificare l’esistenza di possibili casi autoctoni correlati e le potenziali fonti di infezione”.

 Tutto inizia il 30 aprile, con un frullato

A dire il vero, spiega il settimanale dei consumatori, la potenziale fonte d’infezione si conosceva già da almeno quasi un mese. Per la precisione dal 30 aprile, data in cui la Danimarca aveva indicato come responsabile dell’incremento anomalo di casi di epatite A (che poi avevano interessato anche Finlandia, Norvegia e Svezia) uno “smothie” (un frullato) a base di frutti di bosco congelati. Passano i giorni e al ministero della Salute italiana si accorgono che anche qui qualcosa non va: troppe segnalazioni, soprattutto da zone della Penisola storicamente poco soggette all’epatite A (il Centro-nord). 

Dall'Est e dal Canada

Scattano le prime misure per evitare ulteriori allargamenti dell’epidemia. È la storia che in questi giorni sta agitando le autorità e il mercato alimentare italiano, anche se fuori dalla luce dei riflettori di stampa e tv. Al centro di analisi e sguardi sospetti i frutti di bosco congelati provenienti da Bulgaria, Polonia, Serbia e Canada (su questi è scattato il sistema di allerta rapido comunitario Rasff).

Ritiri nella Gdo

E i primi “colpevoli” sono apparsi subito tra i prodotti lavorati dalle aziende italiane se è vero, come risulta al Salvagente, che alcune aziende e alcune grandi catene alimentari come Coop hanno già ritirato dei prodotti a rischio dalla circolazione.

Il primo lotto sequestrato: scadevano nel 2015

La circolare del ministero della Salute indica alcuni lotti a rischio di frutti di bosco congelati, da ritirare dal commercio. In particolare, il lotto con codice L13036, con scadenza 02/2015, secondo quanto riferito a ilSalvagente.it, porta dritto a una torta guarnita con “misto di frutti di bosco”, in confezione da 200 grammi, commercializzati da un’azienda alimentare di Padova (Asiago Food) che vende al dettaglio, all’ingrosso, e si occupa di catering. Nonostante lo stop, non è da escludere che alcune di queste confezioni fossero già state vendute. E trattandosi di prodotti surgelati, potrebbero non essere ancora state consumate.

Il ritiro in Alto Adige

Stessa sorte, secondo Giovanni D’Agata, presidente e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, è toccata alla  “Miscela di frutti di bosco surgelati Bosco Buono”, lotto 13015, confezionato dalla ditta Green Ice SpA, ritirata dall’assessorato alla Sanità della Provincia autonoma di Bolzano il 31 maggio.

La Coop sospende l'utilizzo di frutti di bosco

Nel frattempo, anche la Coop è corsa ai ripari. Spiega Maurizio Zucchi, direttore qualità dell’azienda, al Salvagente: “Abbiamo ritirato due prodotti dalla vendita: uno è la confezione misto frutti di bosco congelati della ditta Boscoreale, corrispondente al lotto L13036. L’altro prodotto, sempre frutti di bosco congelati, lo abbiamo ritirato per precauzione. Abbiamo anche sospeso temporaneamente l’utilizzo di frutti di bosco per i nostri prodotti di pasticcieria e svolto delle analisi sulla torta surgelata Coop, che hanno dato esito negativo alla presenza di virus”.

Yogurt, gelati, pasticcini

La questione però è tutt’altro che chiusa. I frutti di bosco congelati vengono usati per tanti altri prodotti in commercio: yogurt, frullati, pasticcini, gelati. Una quantità enorme di preparazioni alimentari sulle quali è scattato il controllo degli stessi produttori. Lo conferma al Salvagente l’Unilever, azienda che possiede tra gli altri i marchi Algida e Carte d’Or: “Come azienda alimentare responsabile stiamo conducendo appropriate verifiche. In questo momento, non abbiamo alcuna evidenza di criticità riguardanti i nostri prodotti”.

L'incremento dei casi da diversi mesi

Quello che preoccupa è che l’incremento dei casi è iniziato da diversi mesi, almeno da settembre, a quanto riporta la dottoressa Anna Rita Ciccaglione dell’Iss al salvagente. Un periodo lungo che aumenta i rischi di contagio.

Le analisi partite in ritardo

Le domande del Salvagente, a questo punto sono diverse e poco rassicuranti.
Perché il ministero della Salute non si è mosso prima? E perché se la circolare con cui allerta le Asl è del 23 maggio, solo dopo 8 giorni, secondo quanto appreso dal Salvagente, sono arrivate sui tavoli degli istituti zooprofilattici sperimentali di diverse zone d’Italia le disposizioni per avviare analisi su torte e frutti di bosco congelati? Ancora: perché solo quelli, escludendo gelati e altri cibi che usano ingredienti del genere? 

Senza armi

Il rischio degli effetti di una sottovalutazione del problema sono tanti. E questa volta i consumatori hanno poche armi per difendersi. Non troveranno nelle confezioni dei gelati, o dello yogurt, o delle torte surgelate l’indicazione dei lotti di frutti di bosco utilizzati. Difficile scegliere, se non affidandosi ai controlli esterni. E, una volta tanto, a una comunicazione pubblica più rapida ed efficace.

Presidenzialismo? ma per favore!!!

Ormai è chiaro che Mr B. ha materiale scottante con cui ricattare non solo il Colle ma pure il PD. 

Siccome il signor S. vuole diventare presidente della Repubblica a tutti i costi, visto che i processi sono in dirittura d'arrivo, allora si mette celermente mano alla costituzione assoldando 35 saggi (de che? pagati a parte coi soldi degli italiani? ma che il governo è impazzito?) per occuparsi di quanto più prezioso l'Italia abbia, seguendo le direttive massoniche. 

Inoltre, il chiacchiericcio attorno all'argomento dovrebbe distogliere l'attenzione dai gravissimi problemi di disoccupazione e crollo economico che (ed è scandaloso) il governo non sa assolutamente come risolvere! 

Allora si facciano da parte codesti cretinetti e soprattutto sappiano ( lor signori politicanti da baraccone) che dovranno passare sui cadaveri di 60 milioni di italiani per cambiare la costituzione a cacchio come hanno in mente di fare! 

QUA B. NON PASSA! MAI SARA' PRESIDENTE!


Consigliamo il seguente articolo di Barbara Spinelli.

"L’escamotage presidenzialista"

È strano come i politici, perfino gli innovatori, evitino di menzionare una tema che resta cruciale: la morale pubblica. 
Giacché è per immoralità che si rinviano le cose prioritarie, anteponendo l’escamotage. Mai come adesso invece, la questione posta da Berlinguer nei primi ’80 è stata così attuale. Oggi come allora, è obbligo etico il «corretto ripristino del dettato costituzionale», il divieto ai partiti di occupare lo Stato. Nulla è cambiato rispetto a quando Berlinguer diceva a Scalfari che la questione morale «è il centro del nostro problema»: quell’«occupazione » produce sprechi, debito, ingiustizia. È questione morale allontanarsene subito. È urgente, fattibile, e però intollerato dalle oligarchie. Per questo pesa il contesto delle riforme istituzionali, e inane è mimare Parigi. 
Questo è un paese dove non è stata mai fatta una legge sul conflitto di interessi. Dove un magnate tv ha governato nonostante una legge del ’57 proibisca l’elezione di titolari di concessioni pubbliche (frequenze tv). E restano le leggi ad personam, grazie a cui quest’ultimo elude processi e condanne.

Questo è il paese dove si ha l’impressione che niente sia vero, di quanto detto in politica. Che tutto sia fumo o diversivo. 
Il Pd aveva promesso di non governare con Berlusconi, e ora Berlusconi comanda. 
Aveva promesso di cambiare subito la legge elettorale, restituendo all’elettore la scelta dei suoi rappresentanti, e neppure questo fa. Quel che è accaduto giorni fa è una pagina nera, simile alla pugnalata di Prodi. La mattina del 29 maggio il deputato Pd Giachetti raccoglie adesioni contro il Porcellum per tornare automaticamente alla legge Mattarella (1 milione 210.000 italiani hanno chiesto un referendum per ottenere proprio questo, il 30-9-11). Circa 100 firmano: di Pd, Sel e 5 Stelle. Ma arriva l’altolà di Enrico Letta e Finocchiaro («È intempestivo, prepotente!») e dei Pd resta solo Giachetti. Se ne parlerà, sì, ma se vorrà Berlusconi.
Questo è un paese dove si mente al popolo, annunciando pompose abolizioni del finanziamento pubblico ai partiti, e poi ecco una proposta che obbliga i contribuenti a sovvenzionarli col 2 per mille, anche quando non lo dichiarano (le cosiddette somme “inoptate”) 
Questo è un paese dove il presidente della Repubblica esercita poteri imprevisti. 
Con che diritto, sabato, ha definito «eccezionale» il governo: «a termine»? Il Quirinale già ha pesato molto, influenzando il voto presidenziale e favorendo le grandi intese.
Formidabile è la coazione a ripetere inganni, tradimenti. La chiamano addirittura pace, responsabilità.
In realtà nessuno risponde di quel che fa o non fa. Deridono Grillo, che chiama portavoce i rappresentanti. Ma loro non sono affatto rappresentanti, essendo nominati. Nessuno è imputabile, e che altro è la non-imputabilità se non la fine d’ogni etica pubblica.
Da La Repubblica del 05/06/2013.

Semi presidenzialismo? Ma dei problemi degli italiani importa a qualcuno???

Il seguente articolo di Ezio Mauro sintetizza l'allarme e la paura che provano gli italiani quando accendono il pc o la tv e sentono blaterare i media di un vero problema urgente in Italia: il semi presidenzialismo! 

Scherzano? 

Ma i media e soprattutto questa fessa ed idiota categoria di gente (truffaldina, ladra, ipocrita, incoerente, che prende i voti a tradimento) che si definisce politica e  che ci (s)governa malamente e bizzarramente facendo patti con il diavolo, in questo  tumultuoso e triste periodo,  si rendono minimamente conto che di questo argomento non solo non possono occuparsi ma NON DEVONO!

Siccome questi politici da strapazzo si credono rockstar, viaggiando in auto blu, non incontrando manco per sbaglio una persona normale sulla loro strada, vivendo nella vera bambagia e nel super lusso, non essendo votati direttamente dagli elettori, ora credono di poter prolungare la loro agiatissima e super comoda vita, distraendo l'opinione pubblica (che li odia giustamente) con questioni che non dovrebbero nemmeno lontanamente immaginare!

Altre sono le priorità del Paese: disoccupazione, rilancio dell'economia, sviluppo, uguaglianza tra i cittadini  da ristabilire, cambiamento del porcellum, sanità, scuola, ricerca, tutela del paesaggio e dei beni culturali, ricostruzione de L'Aquila e dei paesi dell'Emilia, Ilva, etc. etc.

E cosa tirano fuori? il presidenzialismo, giusto per andare contro il popolo italiano, farlo spaventare con la loro arroganza e la loro aggressività!

E per favore abbiano un minimo di decenza e di vergogna! Li aspettiamo alle prossime elezioni per estinguerli definitivamente! E che i media non si filino di pezza questi attorucoli che si definiscono politici, in modo da ristabilire un minimo di equilibrio nelle loro teste bacate!

Nessuna scorciatoia di EZIO MAURO
da:
http://www.repubblica.it/politica/2013/06/03/news/nessuna_scorciatoia-60228088/?ref=HREC1-3

Quando non siamo capaci di usare uno strumento collaudato, ottenendo i risultati previsti, la colpa è nostra, non dello strumento. Prima di gettarlo via, dovremmo provare a cambiare i nostri metodi e la nostra mentalità, tornando a un corretto utilizzo delle regole e delle tecniche. 

Invece il sistema politico, dopo la clamorosa prova di impotenza dell'elezione presidenziale dominata dai franchi tiratori del Pd, vuole cambiare le regole, passando al presidenzialismo con il Capo dello Stato eletto dal popolo. 

Come se il fallimento cui abbiamo assistito increduli fosse dovuto alle procedure, e non alla mancanza di una politica degna di questo nome

Il presidenzialismo (o meglio il semi-presidenzialismo, perché di questo si tratta) non è in sé un tabù. È la vocazione e la qualificazione costituente di questi partiti che lascia molti dubbi.

Si mette mano alla Costituzione senza un disegno generale e un sentimento dello Stato condivisi, cercando in tal modo di far durare il governo per ragioni esterne, di semplificare i meccanismi istituzionali nella direzione del leaderismo carismatico, soprattutto di creare un'ideologia artificiale di riferimento ad una maggioranza anomala. 

In più, si procede attraverso un meccanismo di scambio tra poteri, non attraverso la ricerca di una comune cultura repubblicana, capace di adeguare la Costituzione ma soprattutto di rispettarla. 

Prima che sia tardi, ricordiamo che questo sistema ha dato al Paese presidenti come Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Einaudi e Pertini. 

E non dimentichiamo che la scorciatoia presidenzialista sembra una corsia privilegiata per i due opposti populismi che occupano in questa fase la scena.

 Attenzione, dunque, a mettere le mani sulla Costituzione cercando nelle sue modifiche quei rimedi che la politica dovrebbe trovare in se stessa, se vuole riconquistare la fiducia dei cittadini senza quell'adulazione del popolo che si chiama demagogia.