Il padrone kazako
Angelino Alfano ha mentito al Parlamento e al popolo sovrano.
«È un fatto gravissimo: non ero stato informato io, né i miei colleghi, né il presidente del Consiglio». Questo dice al Senato, il ministro dell’Interno, dando lettura puntigliosa e testuale delle sei cartelle che compongono, da pagina 8 a pagina 13, la parte della relazione del prefetto Pansa intitolata “Il flusso informativo”. Nulla sapeva, dunque, di ciò che è avvenuto tra il 28 e il 31 maggio, quando l’ambasciatore kazako Adrian Yelemessov chiede e ottiene dal Viminale che la moglie e la figlia di un noto dissidente siano «sequestrate» e rispedite, con procedure contrarie al diritto interno e internazionale, in un Paese il cui regime pratica abitualmente la tortura.
Quello che invece non dice ai senatori, il ministro dell’Interno, è ciò che è scritto nelle sette cartelle precedenti di quel rapporto, intitolate “Cronologia dei fatti”, dove alla pagina 2 si può leggere ciò che accadde davvero «il 28 maggio», «nella serata»: «Il ministro dell’Interno, a seguito di ulteriori telefonate dell’Ambasciatore, cui non ha risposto, fa incontrare lo stesso con il suo Capo di gabinetto». Quello che non dice ai senatori, il ministro dell’Interno, e ciò che invece riconosce il suo stesso Capo di Gabinetto, ora costretto alle dimissioni e finora unico capro espiatorio dell’intera vicenda, nell’intervista non smentita rilasciata ieri a “Repubblica”. Alla domanda di Carlo Bonini: «Era stato il ministro Alfano a chiederle di ricevere l’ambasciatore kazako?», Giuseppe Procaccini testualmente risponde: «Sì. Ero stato informato che l’ambasciatore doveva riferirmi una questione molto delicata ». E poco più avanti, alla domanda: «Dunque il 29 maggio il ministro dell’Interno sapeva che la diplomazia kazaka aveva chiesto l’arresto di un latitante? », il funzionario ammette: «Sì. Di un pericoloso latitante».
Eccole, se ancora ce ne fosse bisogno, le prove dell’omertà che rendono indifendibile Alfano, e non più sostenibile la sua posizione dentro il governo. Per un mese e mezzo il ministro dell’Interno, e con lui quello degli Esteri, hanno vissuto o hanno fatto finta di vivere in un vuoto politico e pneumatico, dove la sovranità statuale è stata sospesa, e dove la potestà ministeriale è stata disattesa. Alfano e Bonino non hanno visto, sentito o parlato. E hanno lasciato che, a ordinare, a gestire e a decidere della sorte di due cittadine straniere, sul territorio italiano, fosse il «padrone kazako», cioè il satrapo dispotico Nursultan Nazarbaeyev, attraverso i suoi messi diplomatici. Lo dicono i fatti, e lo confermano i documenti ufficiali.
È Yelemessov, la sera del 28 maggio, a irrompere al Viminale, ad esigere il blitz nella villetta di Casal Palocco, a prendere parte insieme ai funzionari della Ps alla «riunione operativa» nell’ufficio di Procaccini, che lo stesso (ex) Capo di Gabinetto, nell’intervista a “Repubblica” di ieri, racconta sia «finita molto tardi».
È Yelemessov, attraverso il suo consigliere Khassen, a forzare la Questura di Roma per avviare l’operazione, spiegando che il dissidente Ablyazov «è un criminale pericoloso in contatto con gruppi armati terroristici ». È Yelemessov, attraverso Khassen, a concordare il 30 maggio (dopo il blitz che non ha portato alla cattura di Ablyazov, ma al sequestro di sua moglie e sua figlia) le procedure di espulsione di Alma e di Alua, a «rappresentare alla Questura il timore che un transito a Mosca possa diventare l’occasione per un attacco organizzato dal ricercato», e a comunicare alla stessa Questura che la Shalabayeva «potrebbe usare un passaporto falso della Repubblica del Centro Africa» (comunicazione poi rivelatasi a sua volta falsa). È Yelemessov, attraverso Khassen, a fornire il 31 maggio alla Questura i documenti di viaggio di Alma e Alua e a proporre «la possibilità di un volo diretto verso la capitale del Kazakhstan, in partenza dall’aeroporto di Ciampino alle ore 17». E infine è ancora Yelemessov, attraverso Khassen, a prendere direttamente in carico madre e figlia poco prima delle 17 del 31 maggio, e ad imbarcarle «sul volo della compagnia austriaca Avcon Jet, proveniente da Lipsia e diretto ad Astana».
Com’è evidente, per ragioni che vanno al di là della pura e semplice inefficienza delle burocrazie amministrative, un bel pezzo di sicurezza nazionale è stata nelle mani delle autorità kazake, mentre quelle italiane si bagnavano nell’acqua di Ponzio Pilato. Il “padrone kazako” è stato il vero gestore di questa «rendition all’amatriciana », che ha ridicolizzato l’Italia di fronte al mondo e l’ha esposta a una più grave violazione dei diritti umani nei confronti di una donna e della sua figlioletta di sei anni. Può ritenersi soddisfatto, l’ambasciatore kazako, che ora un’indignata Bonino convoca inutilmente alla Farnesina. Yelemessov se n’è già andato in ferie: un meritato «viaggio premio», perché lui la sua «missione» può dire di averla a tutti gli effetti compiuta.
Sono le autorità politiche e amministrative italiane che, invece, la loro missione l’hanno miseramente fallita, o volutamente sfuggita. Bisognava ammetterlo subito, senza rifugiarsi dietro l’ormai solita scusa tartufesca del misfatto «a mia insaputa». Bisognava che Alfano lo riconoscesse subito, assumendosi fino in fondo e a viso aperto le sue responsabilità, senza scaricarle sulla tecnostruttura che comunque dipende da lui, e senza la penosa e pelosa «chiamata di correo» nei confronti di Enrico Letta. «Né io né il premier sapevamo nulla», ribadisce il ministro. A sproposito, perché nessuno ha mai insinuato che il presidente del Consiglio sapeva o avrebbe dovuto sapere fin dall’inizio cosa successe in quei frenetici giorni di fine maggio, nel quadrilatero oscuro Viminale- Casal Palocco-Ponte Galeria-Ciampino.
Questa colpa «in vigilando», o questo dolo «in agendo», pesa tutto intero sulle spalle del ministro dell’Interno. Che se non sapeva è stato negligente, e se sapeva è stato reticente. Forse ha agito in base a ordini superiori, vista la spregiudicata disinvoltura con la quale la «falange kazaka» ha orchestrato e diretto le operazioni italiane, certa di poter pretendere un «sequestro di persona» in cambio dei buoni affari conclusi a suo tempo dall’ex premier Berlusconi con gli zar del petrolio ex sovietico. Forse è stato addirittura scavalcato dal suo leader, che di Nazarbayev è molto più amico di quanto non riconosca lui stesso nell’intervista al “Corriere della Sera” di ieri, in cui il Cavaliere blinda Alfano e il governo definendo «assurde queste mozioni di sfiducia presentate dalle opposizioni, che impegnano il Parlamento e fanno perdere tempo in un momento così difficile e preoccupante». Non male, detto dal capo-popolo di un partito che solo una settimana fa, dopo la semplice fissazione di un’udienza della Cassazione, ha minacciato l’Aventino chiedendo la «serrata » delle Camere per tre giorni consecutivi.
Comunque siano andate le cose, Alfano aveva il dovere di dimettersi da ministro dell’Interno.
E quel dovere lo ha ancora. Non è troppo tardi, per un gesto di serietà istituzionale e di onestà intellettuale di fronte al Paese. E il Pd non dovrebbe dividersi né provare imbarazzi inutili, nell’invocare ed esigere quel gesto. Non dovrebbe rassegnarsi alla logica che lega inestricabilmente la sorte personale di Alfano a quella del governo. E invece è esattamente quello che fa: scivolando sempre di più, in nome di una governabilità a qualsiasi costo, sul piano inclinato del compromesso al ribasso. Si dice che la richiesta delle dimissioni di Alfano indebolisce il governo, o addirittura lo espone al rischio di una crisi.
Ma proviamo a rovesciare la visuale. È quello che è accaduto, cioè lo scandalo kazako, ad aver indebolito irrimediabilmente il governo e ad averlo esposto al pericolo di una caduta. Non è quello che dovrebbe accadere, cioè la doverosa uscita di scena di chi ha sbagliato, a minacciare la sopravvivenza della Grande Coalizione. Se non si erigono le barricate dell’ideologia, è possibile separare il destino del ministro dell’Interno dal futuro delle Larghe Intese. Il governo Letta potrebbe persino rafforzarsi, se riuscisse ad uscire da questo pasticcio kazako con una soluzione decorosa. L’autoassoluzione della politica, che per durare insegue di volta in volta l’impunità formale e sostanziale, non lo è affatto. Se la «pacificazione» produce assuefazione, non ci rimette solo la sinistra. Ci rimette l’Italia.
da: http://www.repubblica.it/politica/2013/07/18/news/il_padrone_kazako-63210562/