L'Italia non è

L'Italia non è un paese per donne
l'Italia non è un paese per uomini
l'Italia non è un paese per bambini
l'Italia non è un paese per vecchi
l'Italia non è un paese per giovani
l'Italia non è un paese per malati
l'Italia non è un paese per sani
l'Italia non è un paese per gente onesta
l'Italia non è un paese per persone coerenti
l'Italia non è un paese per persone perbene
l'Italia non è un paese per gay
l'Italia non è un paese per eterosessuali
l'Italia non è un paese per adottare bambini
l'Italia non è un paese per vivere
l'Italia non è un paese per nascere
l'Italia non è un paese per morire
l'Italia non è un paese per lavorare
l'Italia non è un paese per amare
l'Italia non è un paese per attraversare la strada
l'Italia non è un paese per respirare
l'Italia non è un paese per mangiare
l'Italia non è un paese per reagire
l'Italia non è un paese per agire
l'Italia non è un paese per ricevere ed inviare lettere e pacchi
l'Italia non è un paese per la serenità
l'Italia non è un paese per la tranquillità
l'Italia non è un paese per crescere

semplicemente e purtroppo l'Italia non è!

Ma l'ufficio Marchi e Brevetti italiano funziona?

Stilinga ormai tre anni fa, decise di registrare il suo marchio in due categorie merceologiche.

Alla camera di commercio della sua città le assicurarono che entro due anni dal deposito del marchio avrebbe ricevuto a casa una lettera per ritirare la documentazione presso l'Ufficio Marchi e Brevetti (portando marca da bollo, mica gratis e tanto meno tramite invio di mail, e hanno fatto anche la mail certificata! capperi!).

Di fatto questa lettera non è mai arrivata.

Allora un giorno e per caso Stilinga si trovava on line sul sito della registrazione dei marchi italiani e con grande sorpresa, scopre che il marchio che aveva depositato era stato registrato! Evviva!

E subito sotto al suo marchio registrato, Stilinga trova lo stesso marchio (identico) registrato anche da un'altra persona in data posteriore, e proprio in una delle due categorie di Stilinga!

"Assurdo!" pensa Stilinga: "ma come è stato possibile? non hanno un data base? e non si controlla il data base prima di registrare ufficialmente un marchio? non si controllano le categorie? e poi parlano di falsi! e a che serve 'sto data base? a che serve registrare un marchio? e a che serve l'Ufficio Marchi e Brevetti in Italia?".

Allora in preda ad una rabbia non facilmente dissipabile, Stilinga chiama l'ufficio relazioni col pubblico dell'Ufficio Marchi e Brevetti, dove le danno pure ragione!

Pare che a causa della mancanza del ministro dello Sviluppo (ma quale sviluppo?) Economico, il decreto di opposizione non sia stato attivato e quindi una persona che viene a conoscenza della registrazione del suo stesso marchio può difendersi bonariamente, inviando una raccomandata con ricevuta di ritorno alla persona che ha registrato lo stesso marchio e in caso andare in giudizio!
Cioè si devono spendere altri soldi in avvocati perché nessuno al ministero ha controllato il data base?
Follia pura!
E Stilinga non ha più fiducia nella registrazione dei marchi, non in Italia!

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Da Fashionmag.com: "Moda: c'erano il lusso e il basic, ora c'é il freemium"

Stilinga ha trovato questo interessante articolo su http://www.fashionmag.com/


MILANO, 22 NOV - C'era una volta il lusso, per pochi, e c'era il basic, per tutti. Ora è tempo di 'freemium', un nuovo modello di consumo per coloro che non si fanno dominare dalle mode, ma le usano a loro piacimento. La nuova parola compenetra la cultura del free, cioé del gratuito, dell'accessibile, del prezzo basso, con l'eccellenza del premium, vale a dire dell'esclusivo, dell'alta gamma.

A inventare il neologismo è stato il sociologo Francesco Morace, presidente di Future Concept Lab, che sta scrivendo un libro sull'argomento e ha anticipato la sua idea su Bookmoda@, il trimestrale di settore diretto da Gianluca Lovetro. "Tutto è nato - dice Morace - dalla massificazione degli outlet: la gente si è abituata a comprare il meglio a meno. Da eccezione, l'affare si è trasformato in regola, quella del bargain, dello sconto, e quindi si è consolidata l'idea destabilizzante che la qualità del prodotto non sia sinonimo di prezzo alto".

Si è spezzata la catena del "vale, quindi costa tanto" e viceversa. La qualità dunque è andata verso la massa e nello stesso tempo è entrato in crisi il low cost senza dignità. Naturalmente hanno contribuito a creare tutto questo anche le grandi catene della moda a basso prezzo, da Zara ad H&M, da OVS Industry a Gap che hanno sviluppato la qualità di massa, hanno inserito l'appeal nel prodotto che un tempo era dozzinale e non aveva pretese, hanno aperto bei negozi nelle vie del centro.

Ma il concetto di freemium è perfino qualcosa di più: si tratta di un nuovo pacchetto personale di consumi, un inedito mix. Per esempio, i giovani condividono musica a costo zero, ma per il concerto del loro beniamino spendono anche 100-150 euro. Le notizie on line sono gratuite, ma se vuoi l'approfondimento lo paghi. Non sei costretto a spendere tanto e sempre, "questo - spiega Morace - è consumo vocazionale". Dunque si sceglie e si mescola: riciclo, mercatino, basso prezzo, ma anche l'oggetto, il viaggio, l'evento costoso che appaga le proprie inclinazioni e aspirazioni.

Il freemium è nato con la moda: il pret-a-porter degli stilisti, alle sue origini, era un consumo freemium. Poi via via è diventato lusso e oggi la moda è costretta a fare i conti con la nuova tendenza, per non restare indietro. Oggi a Milano apre il primo negozio italiano di Gap (che ne ha 330 nel mondo, 30 a Londra e 25 a Parigi tanto per dire) con una piccola 'capsule collection' firmata Valentino: come si nota, il basso tende verso l'alto che, a sua volta, è onorato di scendere verso il basso. E il cliente, che normalmente pagherebbe solo 30-40 euro per il giacchino in denim della catena low cost, fa la fila dall'alba per accaparrarsi quello Valentino for Gap a 120 euro: anche questo è un po' freemium.

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Commento di Stilinga a quanto esposto sopra:

"Il low cost di questo periodo è legato necessariamente alla crisi, ma questo non significa che i consumatori, soprattutto italiani ed in particolar modo romani siano interessati alla bassa qualità prodotta, per forza di cose, all'estero dove operai sottopagati e senza diritti sono sfruttati e di fatto reggono questo sistema capitalistico insano e ancora basato solo e soltanto sul basso costo del lavoro e sullo sfruttamento dell'ambiente.

Da recenti statistiche (pubblicate anche da Repubblica/cronaca di Roma) si evince che i romani, in particolare, abbiamo aumentato le spese del vintage:
 vanno alla ricerca del fatto bene, fatto in Italia e che duri e a prezzi adeguati.

Questa vera necessità di prodotti durevoli, realizzati a modo ed in Italia è sottovalutata dalle aziende monstre che diffondono capillarmente prodotti uguali, di massa e standardizzati nei diversi mercati e la stessa necessità si lega anche al fenomeno che evidentemente a diversi studiosi è sfuggito: il ritorno all'artigianalità, al fatto a mano e fatto in loco secondo i gusti del singolo cliente.
Questo ritorno scompagina le strategie di vendita e di penetrazione nei vari mercati delle suddette aziende monstre che seguono imperterrite il solco del vecchio capitalismo ormai andato a male e ci auguriamo sulla via del tramonto per sempre.
Del resto la storia e l'economia sono cicliche e allora dopo tanti decenni di moda preconfezionata e industrializzata, a sotto costo e realizzata per non durare, con tessuti che al secondo lavaggio cedono, sicuramente il vero bisogno ora è di abbigliamento durevole che sia prodotto in loco, diverso e frutto di vera CULTURA, del know how  (nel nostro caso) italiano.