La rivolta degli schiavi che fa tremare la Cina. Tra gli schiavi del Guangdong rivolta nella fabbrica del mondo
24 giugno 2011
ZENGCHENG NEL centro della capitale mondiale dell' industria tessile, simbolo del «sistema Cina», c' è un cartello spaccato sull' asfalto. Dice «Servire il Popolo» ed è tra gli slogan storici del partito comunista cinese.
Le rivolte da settimane scuotono la seconda potenza economica del pianeta. Da qualche giorno sembrano represse, ma l' icona spezzata della propaganda post-maoista è ancora qui, non rimossa, sulla strada.
È sorprendente che qualcuno a Zengcheng abbia avuto il coraggio di abbattere pubblicamente il verbo sacro della propaganda. Ancora più strano è però che la polizia e l' esercito del Guangdong, schierati per far cessare con le cattive le sommosse, abbiano dimenticato in mostra cocci tanto imbarazzanti.
Sono la testimonianza delle due Cine che dopo trent' anni si fronteggiano al primo avviso di rallentamento della crescita. La prima è quella ufficiale, in preda all' esaltazione rossa e patriotticamente arruolata per celebrare il 90º anniversario della fondazione del partito-Stato.
La seconda è quella sociale, consumata dalla delusione delle promesse del capitalismo comunista e collettivamente mobilitata per conquistare diritti altrove riconosciuti dalle democrazie.
Il Guangdong è l' epicentro dello scontro e non è un caso se il vento delle rivolte di massa si è alzato dalla cassaforte del miracolo cinese. Il "motore del Sud" negli ultimi cinque anni è cresciuto a una media record del 12,4%. Per i prossimi cinque ha dovuto ridimensionare le stime all' 8%, proiettando l' ombra dell' incertezza su una frenata nazionale al 7%. La regione-fabbrica produce però l' 11% del Pil cinese e un terzo delle esportazioni: per questo il messaggio che il "Guangdong non è felice", bruciante smentita della campagna "Felice Guangdong" lanciata a gennaio dal governatore Wang Yang, agita il potere di Pechino.
La crisi, nell' appiglio estremo della resistenza economica globale, non è del resto scoppiata l' altra settimana, quando decine di distretti industriali sono stati messi a ferro e fuoco.
A Shenzhen il colosso Foxconn da un anno è minato dai suicidi in serie degli operai.I primi scioperi di successo sono scoppiati poco lontano, nelle catene di montaggio delocalizzate della Honda. A Meishan, da lunedì, 4 mila operaie di una fabbrica di borse, che produce per i marchi più esclusivi del pianeta, sono in sciopero contro turni da 12 ore al giorno per 100 euro di paga mensile.
Può dunque apparire anomalo che l' attentissimo governo centrale di Pechino, impegnato nella transizione del potere dal 2012, si sia lasciato sfuggire il controllo della spina dorsale della sua legittimazione. Una settimana di guerriglia urbana, dilagata nello Zhejiang, nell' Hubei e nel Jiangxi, in Cina non si vedeva della rivoluzione di Mao.
L' allarme è però scattato dalla constatazione che non solo il Guangdong non è più felice. Alla colonna meridionale dell' industria si è aggiunta quella delle materie prime, con la grande rivolta del Nord, nella Mongolia Interna delle miniere. E si aggiungono Shanghai ad Est, dove la Borsa non smette di scendere da mesie manca l' energia elettrica per affrontare l' estate, e infine a Ovest anche Chongqing, considerata la nuova frontiera dello sviluppo hi-tech. Qui, stando alla propaganda, le cose vanno a gonfie vele.
Nel Far West defiscalizzato dell' Impero migliaia di capannoni e di grattacieli sono invece deserti, 32 milioni di abitanti vivono intossicati e solo il pugno di ferro di Bo Xilai, principino nascente del partito, frena lo strapotere mafioso delle triadi. Al fallimento dell' "Happy Guangdong", sconvolto dalle nascoste sommosse operaie, corrisponde così il trionfo delle "Lezioni di entusiasmo rosso", esportate da Chongqing per le nuove masse di inarrestabili migranti. Tra i due poli cinesi della produzione e della propaganda non si gioca però solo la sfida tra Wang Yange Bo Xilai, tesi a contendersi l' egemonia nel prossimo Politburo.
Lungo tale rotta, tra le canzoni della bandiera rossa e le sassate delle tute blu, si decide il destino della nazione candidata a guidare il mondo nel secolo contemporaneo. I tremila dirigenti comunisti e gli ottanta milioni di iscritti al partito applaudono al kolossal sulla fondazione del Pcc e si disputano due milioni di copiee duecento titoli sul proprio successo, «regalo sontuoso per il compleanno nazionale». I 280 milioni di migranti interni e i 540 milioni di operai iniziano invece a non accettare più «lo schiavismo di Stato» e a lottare per conquistare «una vita con meno armonia e più dignità».
Solo ora si comincia così a intuire l' inquietudine di Pechino davanti alla minaccia di una Rivoluzione dei Gelsomini, messa in scena a fine gennaio. Il Guangdong, Chongqing, Shanghai e la Mongolia Interna, i quattro poli dell' ascesa cinese, sono sconvolti da crisi locali, ma compongono il quadro di una medesima emergenza nazionale: il passaggio della Cina da un sistema economico fondato sulle esportazioni ad uno basato sul consumo interno e la sua mutazione sociale da universo agricolo a galassia di megalopoli. Zengcheng è un concentrato esplosivo anche di questo azzardo. Nell' ultimo anno, dopo l' aumento degli stipendi medi a 187 euro al mese, il 34% delle aziende ha chiuso e su 818mila residenti, gli immigrati hanno sfondato la soglia di 502mila.
Se l' Occidente avesse proseguito al galoppo, il prodigio dell' Oriente avrebbe potuto riprodursi. Il meccanismo invece s' è inceppato.
A Ovest sono calati gli ordini e saliti i debiti, ad Est si sfoltiscono le fabbriche ed esplode l' inflazione. Affinché il disagio economico muti in dissenso politico e i molti tumulti in una rivoluzione, mancano le forze capaci di sintetizzare un' opposizione. In tutto il Paese appare però evidente la nascita di un blocco sociale accomunato da un' ostilità al potere sconosciuta da decenni. Operai schiavizzati, contadini espropriati, neolaureati disoccupati, colletti bianchi indebitati, migranti senza diritti, anziani senza welfare, dissidenti incarcerati, gruppi etnici colonizzati e aspiranti candidati indipendenti perseguitati, formano un' inedita massa a-ideologica decisa a non festeggiare il prossimo genetliaco della nomenclatura rossa.
La Cina scala posizioni all' estero, ma si scopre corrosa da sotterranee debolezze interne: salari inaccettabili, inflazione fuori controllo, prezzi alimentari alle stelle, insufficienza energetica, disoccupazione in crescita, esplosione del divario tra ricchi e poveri, funzionari corrotti, polizia incline agli abusi, costo degli immobili insostenibile, servizi sociali inesistenti.
I nipoti di Mao Zedong si svegliano così avversari dei figli di Deng Xiaoping e una classe dirigente invecchiata si rivela idonea a negare libertà, ma inadeguata a convertire la violenza in salute della crescita. Il partito prende atto che novant' anni, senza riforme strutturali, più che il traguardo di una longevità politica sono il capolinea di un autoritarismo. Giorni fa, mentrei leader di Pechino rivolgevano enigmatici appelli a «migliorare la gestione sociale», un documento della Banca centrale del Popolo ha rivelato che nell' ultimo decennio 18mila funzionari sono scappati all' estero con 90 miliardi di euro e che le proteste di massa sono passate da 9 a 180mila.
L' invincibile partito si autocelebra per succedere a se stesso, compra debiti e ideali stranieri, finge di liberare Ai Weiwei e lascia in cella centinaia di intellettuali indipendenti.
L' infinita e silenziosa Cina è al contrario scossa come mai dopo il 1949e il 1989.A Guangzhou, per individuare gli insorti, le autorità hanno dovuto offrire ai delatori 500 euro e il permesso di residenza. Non era mai successo: un piccolo tesoro in cambio di un grande colpevole. Non è solo che il Guangdongè tutt' altro che "happy": è che Pechino, risolvendo Mao in un ritratto, scopre di non essere più nel cuore dei cinesi. E che a Zengcheng il cartello "Servire il Popolo" può rimanere rotto, davanti ad auto e negozi bruciati. - GIAMPAOLO VISETTI
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/06/24/la-rivolta-degli-schiavi-che-fa-tremare.html
This is the fashion blog of Stilinga, a fashion designer who works from home. She is from Rome, Italy and she writes about trends, things she loves to do in Rome and art. Questo è il fashion blog, e non solo, di stilinga (una stilista che lavora da casa - è una stilista-casalinga) e che spesso tra una creazione di moda e l'altra, tra ricerche e fiere, si occupa anche del suo quotidiano e del contesto in cui vive.
Una designer emergente: Laura Calicchia e il suo marchio Edò
Continuando la tradizionale ricerca di nuovi talenti e nuovi marchi italiani, Stilinga si è imbattuta in una personalità piuttosto interessante, si tratta di Laura Calicchia (di Frosinone), un'emergente designer di accessori, che con grande spirito innovativo ha prodotto accessori molto d’avanguardia in termini di ricerca e di materiali e che da un po’ di tempo collabora con altre designers già conosciute da Stilinga e che presto saranno intervistate nuovamente per sapere a che punto della loro ricerca si trovano.
Ma passiamo subito all’intervista alla designer di accessori Laura Calicchia.
Stilinga: Laura Calicchia come e quando è nata la tua passione per la moda?
Laura Calicchia: La mia passione per la moda esiste da sempre, solo che era celata dietro un velo; ora sento che è diventata il mio stile di vita.
Stilinga: come crei una collezione nuova? e come hai creato il tuo marchio?
Laura Calicchia: Creo osservando la natura, le persone, amo anche confrontarmi con il mondo dell'arredamento; molto vicino a me è anche tutto ciò che concerne il gioco. Il mio marchio è nato dal cuore, ho guardato negli occhi mio figlio Edoardo ed ho capito che avrei chiamato il mio marchio"Edò".
Stilinga: sei maggiormente interessata alla moda o allo stile?
Laura Calicchia: Sono interessata ad entrambe e soprattutto sono curiosa, quindi cerco sempre di non rimanere mai indietro anche se è molto complicato.
Stilinga: che cosa pensi della moda di massa e in particolare del fenomeno della fast fashion?
Laura Calicchia: Il fenomeno della fast fashion ormai ha contagiato tutti; i prezzi accessibili hanno portato a vestirsi tutti uguali, non si ha più uno stile personale. Io penso che la fast fashion segue solo i trend dei grandi marchi, rendendo le collezioni ed i prodotti economicamente più accessibili a tutti.
Stilinga: dove trovi l'ispirazione per creare?
Laura Calicchia: L'ispirazione per me viene dal mondo che mi circonda, è l'aria che respiro.
Stilinga:a quale progetto stai lavorando attualmente?
Laura Calicchia: Attualmente collaboro con due amiche designers, Anna Bassano che ha creato il marchio Annienoir e Anna Paola Pascuzzi col marchio Hearth, stiamo dando vita ad un progetto chiamato PurpleAccessories, abbiamo unito i nostri stili e marchi e le nostre forze creative per rivalutare l’artigianato, il fatto a mano, per trasmettere al mondo le nostre visioni sulla moda all’insegna dell’Indie Fashion.
Stilinga: puoi elencare i siti web dove sei presente?
Laura Calicchia: Il mio marchio Edò assieme a quelli di Annienoir e di Hearth sono “contenuti” in Purple Accessoriess. Abbiamo aperto diversi profili on line:
http://purpleaccessories.artesanum.com/
http://en.dawanda.com/shop/PurpleAccessories
http://www.globalfashionbrands.com/PurpleAccessories
http://blomming.com/mm/PurpleAccessories/items
Il mio blog è http://tanaperedi.blogspot.com/
Stilinga: quali sono le zone di Roma che ti ispirano maggiormente e non solo a livello stilistico?
Laura Calicchia: Io vivo a Frosinone, vicino Roma però tutte le mattine sono nella capitale per lavoro.
Roma è una città dove ogni angolo può scatenare l’immaginazione, sembrerà strano ma a me anche la stazione Termini ispira. La diversità di gente e di culture che la affollano, mi affascina enormemente.
Altri luoghi che davvero mi accendono la mente e l’anima sono sicuramente la meravigliosa Piazza di Spagna, storica, maestosa e sempre popolata da tantissime persone di tutto il mondo; il fantastico Rione Monti un vero scrigno, ricco di creatività, di artigianalità, anche la gloriosa Via Veneto e tanto altro ancora, davvero la città di Roma può dare tanto in termini di ispirazione.
Stilinga: a quale fenomeno stilistico del passato, se c'è, nel tuo stile, fai spesso riferimento?
Laura Calicchia: Inizialmente facevo leva sulla mia interiorità, il mio intuito, ultimamente vedo che il mio marchio Edò ha preso un indirizzo direi pop, in quanto recentemente ho creato collane e monili molto variegati nella concezione stessa, colorati, energetici, con riferimenti ai fumetti, ai giochi, all’esistente riadattato e allora ho decisamente capito di avere un’influenza forte dalla "POP ART" .
Stilinga: che obiettivi hai nella tua carriera?
Laura Calicchia: La strada è lunga e per di più in salita ma l’obiettivo è chiaro: far conoscere il marchio Edò e naturalmente PurpleAccessories al mondo. Sono, anzi siamo, io e le altre due designers, molto determinate e lavoriamo sodo per raggiungere il nostro obiettivo.
Stilinga: quali sono i negozi di Roma che ti attirano maggiormente e perché?
Laura Calicchia: Io amo tutto ciò che è vintage, quando sono andata al Rione Monti per la prima volta ho capito che quello è luogo dove ci sono i negozi di Roma che preferisco per la loro posizione, per la loro concezione e per la diversità di prodotti, moltissimi sono fatti a mano da giovani artigiani, sono autoprodotti in loco.
Stilinga: a proposito cosa pensi del fatto a mano? credi che il mercato sia pronto per un ritorno al fatto su misura, su richiesta e a prodotti di alta qualità?
Laura Calicchia: Il fatto a mano è per me un sogno, sono ammaliata da tutti coloro che con le loro mani riescono a creare qualcosa di unico, irripetibile. Adesso, non penso che il mercato sia completamente pronto, sia a livello economico che a livello di educazione, davvero! Le persone andrebbero rieducate al fatto a mano.
Stilinga: che cosa pensi dei prodotti moda industrializzati?
Laura Calicchia: I prodotti industrializzati sono positivi, quando sono ben curati, se la qualità della produzione industriale è l’obiettivo.
Io, comunque, resto per il fatto a mano anche se bisogna considerare il mercato e ripeto se la quantità fosse in buon equilibrio con la qualità, il prodotto industriale sarebbe da considerare positivamente.
Stilinga: che musica ascolti e quali gruppi ti piacciono?
Laura Calicchia: Ascolto tutta la musica, amo il susseguirsi di note che riescono a far parlare l'anima. La musica italiana è ricca di cantanti fantastici: Mina, Bennato, De Andrè, Mia Martini, Otto Ohm, Negramaro, Elisa, i Pooh, Blu Vertigo, D’Alessio, Gigi Fininzio... potrei continuare all'infinito. E dei musicisti internazionali sicuramente i Beatles, i Queen, Beyoncè, Bob Dylan, Camille, Adele.....
Ma passiamo subito all’intervista alla designer di accessori Laura Calicchia.
Stilinga: Laura Calicchia come e quando è nata la tua passione per la moda?
Laura Calicchia: La mia passione per la moda esiste da sempre, solo che era celata dietro un velo; ora sento che è diventata il mio stile di vita.
Stilinga: come crei una collezione nuova? e come hai creato il tuo marchio?
Laura Calicchia: Creo osservando la natura, le persone, amo anche confrontarmi con il mondo dell'arredamento; molto vicino a me è anche tutto ciò che concerne il gioco. Il mio marchio è nato dal cuore, ho guardato negli occhi mio figlio Edoardo ed ho capito che avrei chiamato il mio marchio"Edò".
Stilinga: sei maggiormente interessata alla moda o allo stile?
Laura Calicchia: Sono interessata ad entrambe e soprattutto sono curiosa, quindi cerco sempre di non rimanere mai indietro anche se è molto complicato.
Stilinga: che cosa pensi della moda di massa e in particolare del fenomeno della fast fashion?
Laura Calicchia: Il fenomeno della fast fashion ormai ha contagiato tutti; i prezzi accessibili hanno portato a vestirsi tutti uguali, non si ha più uno stile personale. Io penso che la fast fashion segue solo i trend dei grandi marchi, rendendo le collezioni ed i prodotti economicamente più accessibili a tutti.
Stilinga: dove trovi l'ispirazione per creare?
Laura Calicchia: L'ispirazione per me viene dal mondo che mi circonda, è l'aria che respiro.
Stilinga:a quale progetto stai lavorando attualmente?
Laura Calicchia: Attualmente collaboro con due amiche designers, Anna Bassano che ha creato il marchio Annienoir e Anna Paola Pascuzzi col marchio Hearth, stiamo dando vita ad un progetto chiamato PurpleAccessories, abbiamo unito i nostri stili e marchi e le nostre forze creative per rivalutare l’artigianato, il fatto a mano, per trasmettere al mondo le nostre visioni sulla moda all’insegna dell’Indie Fashion.
Stilinga: puoi elencare i siti web dove sei presente?
Laura Calicchia: Il mio marchio Edò assieme a quelli di Annienoir e di Hearth sono “contenuti” in Purple Accessoriess. Abbiamo aperto diversi profili on line:
http://purpleaccessories.artesanum.com/
http://en.dawanda.com/shop/PurpleAccessories
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http://blomming.com/mm/PurpleAccessories/items
Il mio blog è http://tanaperedi.blogspot.com/
Stilinga: quali sono le zone di Roma che ti ispirano maggiormente e non solo a livello stilistico?
Laura Calicchia: Io vivo a Frosinone, vicino Roma però tutte le mattine sono nella capitale per lavoro.
Roma è una città dove ogni angolo può scatenare l’immaginazione, sembrerà strano ma a me anche la stazione Termini ispira. La diversità di gente e di culture che la affollano, mi affascina enormemente.
Altri luoghi che davvero mi accendono la mente e l’anima sono sicuramente la meravigliosa Piazza di Spagna, storica, maestosa e sempre popolata da tantissime persone di tutto il mondo; il fantastico Rione Monti un vero scrigno, ricco di creatività, di artigianalità, anche la gloriosa Via Veneto e tanto altro ancora, davvero la città di Roma può dare tanto in termini di ispirazione.
Stilinga: a quale fenomeno stilistico del passato, se c'è, nel tuo stile, fai spesso riferimento?
Laura Calicchia: Inizialmente facevo leva sulla mia interiorità, il mio intuito, ultimamente vedo che il mio marchio Edò ha preso un indirizzo direi pop, in quanto recentemente ho creato collane e monili molto variegati nella concezione stessa, colorati, energetici, con riferimenti ai fumetti, ai giochi, all’esistente riadattato e allora ho decisamente capito di avere un’influenza forte dalla "POP ART" .
Stilinga: che obiettivi hai nella tua carriera?
Laura Calicchia: La strada è lunga e per di più in salita ma l’obiettivo è chiaro: far conoscere il marchio Edò e naturalmente PurpleAccessories al mondo. Sono, anzi siamo, io e le altre due designers, molto determinate e lavoriamo sodo per raggiungere il nostro obiettivo.
Stilinga: quali sono i negozi di Roma che ti attirano maggiormente e perché?
Laura Calicchia: Io amo tutto ciò che è vintage, quando sono andata al Rione Monti per la prima volta ho capito che quello è luogo dove ci sono i negozi di Roma che preferisco per la loro posizione, per la loro concezione e per la diversità di prodotti, moltissimi sono fatti a mano da giovani artigiani, sono autoprodotti in loco.
Stilinga: a proposito cosa pensi del fatto a mano? credi che il mercato sia pronto per un ritorno al fatto su misura, su richiesta e a prodotti di alta qualità?
Laura Calicchia: Il fatto a mano è per me un sogno, sono ammaliata da tutti coloro che con le loro mani riescono a creare qualcosa di unico, irripetibile. Adesso, non penso che il mercato sia completamente pronto, sia a livello economico che a livello di educazione, davvero! Le persone andrebbero rieducate al fatto a mano.
Stilinga: che cosa pensi dei prodotti moda industrializzati?
Laura Calicchia: I prodotti industrializzati sono positivi, quando sono ben curati, se la qualità della produzione industriale è l’obiettivo.
Io, comunque, resto per il fatto a mano anche se bisogna considerare il mercato e ripeto se la quantità fosse in buon equilibrio con la qualità, il prodotto industriale sarebbe da considerare positivamente.
Stilinga: che musica ascolti e quali gruppi ti piacciono?
Laura Calicchia: Ascolto tutta la musica, amo il susseguirsi di note che riescono a far parlare l'anima. La musica italiana è ricca di cantanti fantastici: Mina, Bennato, De Andrè, Mia Martini, Otto Ohm, Negramaro, Elisa, i Pooh, Blu Vertigo, D’Alessio, Gigi Fininzio... potrei continuare all'infinito. E dei musicisti internazionali sicuramente i Beatles, i Queen, Beyoncè, Bob Dylan, Camille, Adele.....
latest trends in female shoes: summer platforms and a ballerina
Latest shoe trends for summer: platforms and a ballerina.
These shoe models are going to be best sellers in summer.
Roma: la città nonostante tutto continua a sorprendere!
Nonostante la cattiva (pessima) gestione del sindaco Aledanno, capita ancora a volte di ritrovare qualche bel motivo per abitare a Roma: capita di passeggiare per il centro storico, in pieno pomeriggio mentre i turisti cenano o pranzano e ci si imbatte in un vero talento musicale che affascina e porta gli animi dei più molto lontano, suonando uno strano strumento.
L'artista di cui parliamo si chiama Luca Bertelli che suona una specie di chitarra che chitarra non è e che si chiama HANG.
A Stilinga quella specie di campana schiacciata o wok rovesciato ha fatto subito un certo effetto: è geniale ed è incredibile come Luca Bertelli la sappia far vibrare.
Ecco che allora ci si riconcilia col mondo e con la città di Roma tanto vituperata da Aledanno malefico e dai suoi sodali perfidi.
L'artista di cui parliamo si chiama Luca Bertelli che suona una specie di chitarra che chitarra non è e che si chiama HANG.
A Stilinga quella specie di campana schiacciata o wok rovesciato ha fatto subito un certo effetto: è geniale ed è incredibile come Luca Bertelli la sappia far vibrare.
Ecco che allora ci si riconcilia col mondo e con la città di Roma tanto vituperata da Aledanno malefico e dai suoi sodali perfidi.
Mamma mia il Macro!
Stilinga ha approfittato della settimana della cultura e ha visitato a gratis il Macro di Roma e per fortuna che lo visitato senza pagare...
Il fatto è che avendo già perlustrato, come del resto molte altre persone, le vette artistico-spirituali del Maxxi, sempre a Roma, del Guggenheim di Bilbao e di New York, della Tate Modern di Londra, inoltrarsi al Macro con delle aspettative è come andarsi a schiantare contro un muro di cemento.
Si avverte come un'aria di museo di piccola provincia: poche opere degne del panorama internazionale oppure opere minori (anche non esposte al meglio) di grandi artisti.
Se poi volessimo spendere due parole sull'organizzazione, allora si dovrebbe dire che sono quasi più i custodi che i visitatori, sono quasi più le telecamere di sicurezza che le opere, sono quasi più gli spazi sprecati che non quelli azzeccati, sono sicuramente inutili le terrazze nere senza altra prospettiva che bollire durante la bella stagione e sono più i motivi che impediranno a Stilinga di andare nuovamente là, di quelli che ce la porteranno.
Insomma se si vuole fare un giro d'arte contemporanea a Roma, meglio partire dal Macro (se proprio si vuole) e poi approdare al Maxxi.
Fare in contrario è esporsi a terribili delusioni.
Il fatto è che avendo già perlustrato, come del resto molte altre persone, le vette artistico-spirituali del Maxxi, sempre a Roma, del Guggenheim di Bilbao e di New York, della Tate Modern di Londra, inoltrarsi al Macro con delle aspettative è come andarsi a schiantare contro un muro di cemento.
Si avverte come un'aria di museo di piccola provincia: poche opere degne del panorama internazionale oppure opere minori (anche non esposte al meglio) di grandi artisti.
Se poi volessimo spendere due parole sull'organizzazione, allora si dovrebbe dire che sono quasi più i custodi che i visitatori, sono quasi più le telecamere di sicurezza che le opere, sono quasi più gli spazi sprecati che non quelli azzeccati, sono sicuramente inutili le terrazze nere senza altra prospettiva che bollire durante la bella stagione e sono più i motivi che impediranno a Stilinga di andare nuovamente là, di quelli che ce la porteranno.
Insomma se si vuole fare un giro d'arte contemporanea a Roma, meglio partire dal Macro (se proprio si vuole) e poi approdare al Maxxi.
Fare in contrario è esporsi a terribili delusioni.
la bionda e il guinzaglio
La bionda lo ha portato in giro al guinzaglio per almeno tre anni,
il tempo chimico dell'amore, della passione, dell'incantesimo,
e lui buono buono si lasciava comandare, governare,
per non dover pensare,
li vedevo sotto casa:
lei parlava e lui ascoltava,
lei con piglio lo instradava e lui silente si incamminava.
Bello era bello, alto era alto, servo era servo,
la padrona disponeva e lui eseguiva,
mai col suo cervello interveniva!
e a vederli facevano un po' pena:
lei dominante e lui assente, quasi non curante.
Poi improvvisamente, a forza di tirare, dopo tanto subire
il bel gonzo e però dalla faccia di bronzo,
si è ribellato e se ne è andato.
E la bionda ancora oggi qui a soffrire.
Sola come un cane, il potere che aveva
l'ha abbandonata e credo ci pensi
ancora a come si è comportata,
era amore? era possesso?
ora è decesso!
e lei sta un cesso.
Strano non l'aveva intuito:
chi sta zitto mica è disposto a subire sempre,
aspetta, cova, assorbe e poi d'un tratto tracolla
esplode, spezza catene, rompe promesse
e arrivederci al secchio!
Mai più tornerà in dietro, mai più si farà nuovamente schiavizzà!
il tempo chimico dell'amore, della passione, dell'incantesimo,
e lui buono buono si lasciava comandare, governare,
per non dover pensare,
li vedevo sotto casa:
lei parlava e lui ascoltava,
lei con piglio lo instradava e lui silente si incamminava.
Bello era bello, alto era alto, servo era servo,
la padrona disponeva e lui eseguiva,
mai col suo cervello interveniva!
e a vederli facevano un po' pena:
lei dominante e lui assente, quasi non curante.
Poi improvvisamente, a forza di tirare, dopo tanto subire
il bel gonzo e però dalla faccia di bronzo,
si è ribellato e se ne è andato.
E la bionda ancora oggi qui a soffrire.
Sola come un cane, il potere che aveva
l'ha abbandonata e credo ci pensi
ancora a come si è comportata,
era amore? era possesso?
ora è decesso!
e lei sta un cesso.
Strano non l'aveva intuito:
chi sta zitto mica è disposto a subire sempre,
aspetta, cova, assorbe e poi d'un tratto tracolla
esplode, spezza catene, rompe promesse
e arrivederci al secchio!
Mai più tornerà in dietro, mai più si farà nuovamente schiavizzà!
Do you produce shoes in China? just think it over
Stilinga thinks that producing shoes in China not only kills European good shoe production, but also it is a real damage to the final clients, for in China all kind of dangerous glues and dangerous chemical products are used for leathers and fabrics (from the smell one can understand where the shoes are produced).
And it is mostly a trouble for the International companies that have placed orders at Chinese shoe producers for other reasons.
It is true that making shoe samples (maybe the proto step does not exist there) costs around 10 USD per pair, that is nothing compared to the Italian proto (yes! Here in Italy we do still make the proto step and then from that point we arrive to the final very good sample! for our mind is not to produce rubbish!) and samples, but it is also true that once you place orders at Chinese factories the minimum quantity must be at least 2.000 pairs not 200!
And we need to consider that most of the time these cheap shoes, manufactured by Chinese factories can for example, lose their trims, their sparkling beads during the ship delivery, always for example, to Italy, where the company that ordered such items in order of 5.000 pairs, needs to make extra work here in Italy fixing at least 1.000 pairs because the bling bling accessories fell down during the trip from Asia to Europe and so somebody has to solve this problem before delivering the pairs to the final shops, otherwise big cancellations will be made by retailers.
And this European company that ordered the cheap shoes in large quantity must pray God that the shoes will work on the feet too, otherwise the final clients will return them to the shops and it looks like that 10 USD paid for samples and then maybe the 6/7 USD paid for production per pair that become maybe 70 € or 100 € in the shop windows, were not that big business after all!
That's the way it goes: you pay what you ordered and quality is the only missed value in this story, while European shoe companies are closing and we need to say thanks to globalization, to the dictatorship that rules China and to the very smart Western companies owners!
Really well done!
And it is mostly a trouble for the International companies that have placed orders at Chinese shoe producers for other reasons.
It is true that making shoe samples (maybe the proto step does not exist there) costs around 10 USD per pair, that is nothing compared to the Italian proto (yes! Here in Italy we do still make the proto step and then from that point we arrive to the final very good sample! for our mind is not to produce rubbish!) and samples, but it is also true that once you place orders at Chinese factories the minimum quantity must be at least 2.000 pairs not 200!
And we need to consider that most of the time these cheap shoes, manufactured by Chinese factories can for example, lose their trims, their sparkling beads during the ship delivery, always for example, to Italy, where the company that ordered such items in order of 5.000 pairs, needs to make extra work here in Italy fixing at least 1.000 pairs because the bling bling accessories fell down during the trip from Asia to Europe and so somebody has to solve this problem before delivering the pairs to the final shops, otherwise big cancellations will be made by retailers.
And this European company that ordered the cheap shoes in large quantity must pray God that the shoes will work on the feet too, otherwise the final clients will return them to the shops and it looks like that 10 USD paid for samples and then maybe the 6/7 USD paid for production per pair that become maybe 70 € or 100 € in the shop windows, were not that big business after all!
That's the way it goes: you pay what you ordered and quality is the only missed value in this story, while European shoe companies are closing and we need to say thanks to globalization, to the dictatorship that rules China and to the very smart Western companies owners!
Really well done!
Negozio da non perdere a Roma in Via Vittoria, 37: Rigadritto
Stilinga oggi passeggiando per il centro storico di Roma, si è imbattuta piacevolmente nel negozio di regali chiamato Rigadritto (Via Vittoria, 37) musica per la mente, gioia visiva per la creatività: portafogli realizzati con carte colorate che ritraggono le metropolitane di N.Y o Londra, matite, magneti, biglietti di auguri super chic e originali e tantissimo altro.
Davvero una bella idea!
E vedendo il sito Stilinga si è ricordata di aver già visitato la sede milanese a Via Brera, 6.
Davvero una bella idea!
E vedendo il sito Stilinga si è ricordata di aver già visitato la sede milanese a Via Brera, 6.
Piccole storie cinesi "Jeans ponente" di Giampaolo Visetti da Donna di Repubblica
Rubriche
"Piccole storie cinesi: Jeans ponente"
Xitang non è più la Silicon Valley del denim: ormai è un emblema (tossico) dello sfruttamento di massa
Di Giampaolo Visetti
"Trent'anni fa in Cina i jeans erano sconosciuti. I cinesi indossavano le divise grigie fornite dallo Stato e tutti assomigliavano ai rivoluzionari di Mao Zedong. L'indumento simbolo degli Stati Uniti, nel mondo comunista, era proibito: come la musica pop.
Oggi la Cina è la fabbrica del denim. Due terzi dei jeans infilati nelle gambe dell'umanità escono da capannoni cinesi. Non è stato un affare da buttare. Ogni anno se ne acquistano oltre 800 milioni di paia.
La storia di Xitang è l'icona della migrazione più travolgente della contemporaneità, che ha spostato in Oriente tutto ciò che si fa per compiacersi di mantenere in Occidente tutto ciò che si pensa. Xitang, fino agli anni 80, era un villaggio di contadini e di pescatori: duecento persone sulle rive del fiume delle Perle. Huang Lin, ambulante di Hong Kong, decise di portare in questa campagna una macchina per cucire pantaloni.
Oggi è la capitale mondiale dei jeans. Un milione di operai confenziona il 40% dei calzoni venduti sulla terra. Ogni marca ha qui il suo stabilimento principale: le più famose nate negli Stati Uniti, ma pure le aziende italiane che hanno trasformato la divisa del cow boy in quella dell'old manager.
Non è la Silicon Valley della moda. Gli operai sono ammassati in vecchi capannoni a conduzione famigliare. Il padrone siede fuori e invita i passanti ad entrare. Offre sigarette, liquore, microscopiche tazze di un tè violento. Mucchi di donne, sulla strada, circondano montagne di tela: cuciono etichette di qualsiasi brand, eliminano fili con la pistola termica, infilano nei sacchetti 60mila paia di jeans al giorno.
Nei vicoli attorno si fa il resto: bottoni, cerniere, rivetti, filo. Colonne di camion scaricano rotoli di tessuto nei cortili e spariscono gonfi di merce.
Nessuno immagina, scivolando nei suoi denim con l'ambizione di un'originalità, di esibire l'ultimo emblema dello sfruttamento cinese di massa. Xitang è stato ridotto a essere la fucina unica dei jeans per due ragioni: nella regione vivevano milioni di persone disposte a lavorare per venti centesimi al giorno e nessuno si preoccupava per l'impatto delle fabbriche sulla natura. Da dieci anni nell'ex villaggio dei contadini e dei pescatori non cresce più niente di commestibile.
Vista dal satellite, la metropoli globale dei jeans è una nuvola rossa, percorsa da uno scheletro viola. Il vapore indica il carbone usato per alimentare le tessitorie, le ossa segnano gli scarichi tossici della tintura del cotone. Nella contea, in trent'anni, non è stato installato un solo depuratore. Sacrificare gli uomini e la terra per far sentire alla moda il mondo è il piatto servito in tavola. Grazie a Xitang il prezzo del casual è restato basso, è nato il guardaroba usa e getta e l'Occidente è stato conquistato dalle catene dei grandi magazzini arredati da albergo di charme.
Non è una favola a lieto fine.
Da alcune settimane l'epicentro cinese del jeans made in Usa è deserto.
L'era dei prezzi stracciati è finita. Offrire all'ingrosso pantaloni a 80 centesimi e t-shirt a 15 non basta più. Il clienti dell'Ovest non accettano nemmeno di coprire i costi. La crisi del vecchio consumismo demolisce il sistema-Xitang.
Gli operai reclamano salari che permettano di sopravvivere e lo sconvolgimento del clima proietta il valore del cotone alle stelle. Gli stilisti foderano i jeans in poliestere, impongono al gusto finiture lucide, ma i conti non tornano.
I materiali valgono più del prodotto e sui capannoni abbandonati sono affissi cartelli che offrono partite di denim a 5 centesimi il paio. In un anno il 40% delle tessitorie ha chiuso e 300mila lavoratori tornano a vagare per la Cina seguendo la corrente dei cantieri.
Se una famiglia europea o americana cambia un jeans in meno all'anno, il saccheggio del modello cinese implode. Nuovi Xitang risorgono altrove. Vietnam, Cambogia, Indonesia, India e Filippine offrono moda a costo di trasporto. Wei Xiaofeng, proprietaria del colosso che ci ha vestiti negli ultimi vent'anni, siede sola su un cumulo di rotoli di tela azzurra, destinata a trasfomarsi in isolante per i grattacieli di Kuala Lumpur.
L'impero della delocalizzazione si scopre vittima di se stesso e delocalizza. La Cina perde i jeans e Xitang chiude. Il mondo può ignorare il suo profilo riflesso in uno specchio. "
Da Donna di Repubblica
Stilinga crede che non comprare jeans fabbricati dai moderni schiavi/operai asiatici potrebbe non solo riequilibrare il commercio ma dare una bella stoccata ai committenti/brand che pascolano in un mondo senza regole in cui l'unico obiettivo è il profitto, a discapito dei lavoratori asiatici e di quelli europei e a discapito dell'ambiente e dei diritti umani.
E' tempo di cambiare i nosti singoli consumi e di riflettere bene prima di fare shopping.
Tutto questo oggi giorno è cruciale: se io non compro un jeans di un brand multinazionale, non solo faccio un favore all'ambiente (e al mio portafoglio) ma anche al mio paese e contribuisco ad equilibrare questa globalizzazione non solo malata, ma tossica, perversa e dittatoriale.
"Piccole storie cinesi: Jeans ponente"
Xitang non è più la Silicon Valley del denim: ormai è un emblema (tossico) dello sfruttamento di massa
Di Giampaolo Visetti
"Trent'anni fa in Cina i jeans erano sconosciuti. I cinesi indossavano le divise grigie fornite dallo Stato e tutti assomigliavano ai rivoluzionari di Mao Zedong. L'indumento simbolo degli Stati Uniti, nel mondo comunista, era proibito: come la musica pop.
Oggi la Cina è la fabbrica del denim. Due terzi dei jeans infilati nelle gambe dell'umanità escono da capannoni cinesi. Non è stato un affare da buttare. Ogni anno se ne acquistano oltre 800 milioni di paia.
La storia di Xitang è l'icona della migrazione più travolgente della contemporaneità, che ha spostato in Oriente tutto ciò che si fa per compiacersi di mantenere in Occidente tutto ciò che si pensa. Xitang, fino agli anni 80, era un villaggio di contadini e di pescatori: duecento persone sulle rive del fiume delle Perle. Huang Lin, ambulante di Hong Kong, decise di portare in questa campagna una macchina per cucire pantaloni.
Oggi è la capitale mondiale dei jeans. Un milione di operai confenziona il 40% dei calzoni venduti sulla terra. Ogni marca ha qui il suo stabilimento principale: le più famose nate negli Stati Uniti, ma pure le aziende italiane che hanno trasformato la divisa del cow boy in quella dell'old manager.
Non è la Silicon Valley della moda. Gli operai sono ammassati in vecchi capannoni a conduzione famigliare. Il padrone siede fuori e invita i passanti ad entrare. Offre sigarette, liquore, microscopiche tazze di un tè violento. Mucchi di donne, sulla strada, circondano montagne di tela: cuciono etichette di qualsiasi brand, eliminano fili con la pistola termica, infilano nei sacchetti 60mila paia di jeans al giorno.
Nei vicoli attorno si fa il resto: bottoni, cerniere, rivetti, filo. Colonne di camion scaricano rotoli di tessuto nei cortili e spariscono gonfi di merce.
Nessuno immagina, scivolando nei suoi denim con l'ambizione di un'originalità, di esibire l'ultimo emblema dello sfruttamento cinese di massa. Xitang è stato ridotto a essere la fucina unica dei jeans per due ragioni: nella regione vivevano milioni di persone disposte a lavorare per venti centesimi al giorno e nessuno si preoccupava per l'impatto delle fabbriche sulla natura. Da dieci anni nell'ex villaggio dei contadini e dei pescatori non cresce più niente di commestibile.
Vista dal satellite, la metropoli globale dei jeans è una nuvola rossa, percorsa da uno scheletro viola. Il vapore indica il carbone usato per alimentare le tessitorie, le ossa segnano gli scarichi tossici della tintura del cotone. Nella contea, in trent'anni, non è stato installato un solo depuratore. Sacrificare gli uomini e la terra per far sentire alla moda il mondo è il piatto servito in tavola. Grazie a Xitang il prezzo del casual è restato basso, è nato il guardaroba usa e getta e l'Occidente è stato conquistato dalle catene dei grandi magazzini arredati da albergo di charme.
Non è una favola a lieto fine.
Da alcune settimane l'epicentro cinese del jeans made in Usa è deserto.
L'era dei prezzi stracciati è finita. Offrire all'ingrosso pantaloni a 80 centesimi e t-shirt a 15 non basta più. Il clienti dell'Ovest non accettano nemmeno di coprire i costi. La crisi del vecchio consumismo demolisce il sistema-Xitang.
Gli operai reclamano salari che permettano di sopravvivere e lo sconvolgimento del clima proietta il valore del cotone alle stelle. Gli stilisti foderano i jeans in poliestere, impongono al gusto finiture lucide, ma i conti non tornano.
I materiali valgono più del prodotto e sui capannoni abbandonati sono affissi cartelli che offrono partite di denim a 5 centesimi il paio. In un anno il 40% delle tessitorie ha chiuso e 300mila lavoratori tornano a vagare per la Cina seguendo la corrente dei cantieri.
Se una famiglia europea o americana cambia un jeans in meno all'anno, il saccheggio del modello cinese implode. Nuovi Xitang risorgono altrove. Vietnam, Cambogia, Indonesia, India e Filippine offrono moda a costo di trasporto. Wei Xiaofeng, proprietaria del colosso che ci ha vestiti negli ultimi vent'anni, siede sola su un cumulo di rotoli di tela azzurra, destinata a trasfomarsi in isolante per i grattacieli di Kuala Lumpur.
L'impero della delocalizzazione si scopre vittima di se stesso e delocalizza. La Cina perde i jeans e Xitang chiude. Il mondo può ignorare il suo profilo riflesso in uno specchio. "
Da Donna di Repubblica
Stilinga crede che non comprare jeans fabbricati dai moderni schiavi/operai asiatici potrebbe non solo riequilibrare il commercio ma dare una bella stoccata ai committenti/brand che pascolano in un mondo senza regole in cui l'unico obiettivo è il profitto, a discapito dei lavoratori asiatici e di quelli europei e a discapito dell'ambiente e dei diritti umani.
E' tempo di cambiare i nosti singoli consumi e di riflettere bene prima di fare shopping.
Tutto questo oggi giorno è cruciale: se io non compro un jeans di un brand multinazionale, non solo faccio un favore all'ambiente (e al mio portafoglio) ma anche al mio paese e contribuisco ad equilibrare questa globalizzazione non solo malata, ma tossica, perversa e dittatoriale.
Nuovo trend: Pellicce a Milano
E' il nuovo trend: pelliccia!
Milano si è improvvisamente svegliata con voglia di pelliccia e le donne in giro magari sfoggiano i modelli che hanno acquistato in passato e sono forse in attesa di comprarne di nuovi anche per il prossimo inverno.
Un modello in una vetrina nel quadrilatero della moda.
Milano si è improvvisamente svegliata con voglia di pelliccia e le donne in giro magari sfoggiano i modelli che hanno acquistato in passato e sono forse in attesa di comprarne di nuovi anche per il prossimo inverno.
Un modello in una vetrina nel quadrilatero della moda.
Milano si sta Armanizzando
Stilinga è appena rientrata da un viaggetto lavorativo a Milano dove tra le altre cose ha notato l'esplosione di negozi Armani, Armani donna, Armani casa, Emporio Armani, EA, etc.
Ma la cosa sconcertante è il nuovo Hotel Armani che è in costruzione direttamente sopra il mega mall Armani di Via Manzoni.
I due piani a specchio svettano in alto, sovrastando gli edifici contigui e rovinando lo skyline di quella parte così centrale della capitale della moda.
Stilinga ha avuto una intossicazione "armaniana": lo shop Armani, il palazzetto di Armani Casa, il mall, il futuro Hotel...si capisce il concetto lifestyle, ma da Armani capiscono il concetto il troppo stroppia?
Ma la cosa sconcertante è il nuovo Hotel Armani che è in costruzione direttamente sopra il mega mall Armani di Via Manzoni.
I due piani a specchio svettano in alto, sovrastando gli edifici contigui e rovinando lo skyline di quella parte così centrale della capitale della moda.
Stilinga ha avuto una intossicazione "armaniana": lo shop Armani, il palazzetto di Armani Casa, il mall, il futuro Hotel...si capisce il concetto lifestyle, ma da Armani capiscono il concetto il troppo stroppia?
Mostra all'ambasciata di Francia: Palazzo Farnese, Roma
Stilinga ha recentemente visitato la mostra, realizzata a Roma ed intitolata:
"PALAZZO FARNESE - Dalle collezioni rinascimentali ad Ambasciata di Francia”.
E' stata un'occasione per visitare almeno una parte di Palazzo Farnese, che Stilinga ha per anni visto solo da fuori.
L'organizzazione lascia molto a desiderare, le didascalie sono scarne, l'illuminazione forse giustamente bassa, ma i riflessi sui quadri schermati da vetro magari si potevano evitare, l'audioguida riporta ogni visitatore all'infanzia e fa perdere concentrazione visiva e spaziale, della serie o ascolti cosa dice o vedi quello che ti propongono, coordinare le due cose è faticoso ed inutile in quanto da adulta Stilinga poteva benissimo leggersi le didascalie invece che ascoltarle da bimba con l'audioguida.
Inoltre, la disposizione di quadri davvero importanti (Tiziano e El Greco) è errata e sacrificata, mentre una stanza è adibita ad esaltare il lavoro degli intellettuali francesi (ai più sconosciuti) che si sono avvicendati a Palazzo Farnese!
La vera goduria sono la sala di Michelangelo e l'affresco di Carracci, nella sala della musica. Quest'ultima sala è da togliere davvero il fiato e se avessero messo dei divani per ammirare l'affresco sul soffitto sarebbe stato anche adeguato visto che a forza di stare con il naso all'insù si perde equilibrio.
Comunque delude lo stato pessimo di conservazione del palazzo, che deve essere restaurato (forse coi soldi raccolti per questa mostra), il colore triste e deprimente con cui hanno intonacato le pareti del Palazzo e la pessima organizzazione (antipatici i dipendenti): si deve prenotare, ma accettano anche i non prenotati, devi lasciare tutto all'arrangiatissimo guardaroba posizionato nel cortile all'addiaccio, non puoi soffermarti più di tanto su nulla, altrimenti si blocca il flusso dei visitatori, se poi si va in visita in gruppo, l'ambasciata impone che le spiegazioni siano fatte dalla propria guida francese (pagando un costo in più) altrimenti la guida del gruppo non può fiatare, può solo accompagnare il gruppo e ascolare l'audioguida.
Insomma per visitare un palazzo romano ma in territorio francese si deve subire qualche angheria e fa male vedere come poco si esaltino i più grandi pittori del mondo.
"PALAZZO FARNESE - Dalle collezioni rinascimentali ad Ambasciata di Francia”.
E' stata un'occasione per visitare almeno una parte di Palazzo Farnese, che Stilinga ha per anni visto solo da fuori.
L'organizzazione lascia molto a desiderare, le didascalie sono scarne, l'illuminazione forse giustamente bassa, ma i riflessi sui quadri schermati da vetro magari si potevano evitare, l'audioguida riporta ogni visitatore all'infanzia e fa perdere concentrazione visiva e spaziale, della serie o ascolti cosa dice o vedi quello che ti propongono, coordinare le due cose è faticoso ed inutile in quanto da adulta Stilinga poteva benissimo leggersi le didascalie invece che ascoltarle da bimba con l'audioguida.
Inoltre, la disposizione di quadri davvero importanti (Tiziano e El Greco) è errata e sacrificata, mentre una stanza è adibita ad esaltare il lavoro degli intellettuali francesi (ai più sconosciuti) che si sono avvicendati a Palazzo Farnese!
La vera goduria sono la sala di Michelangelo e l'affresco di Carracci, nella sala della musica. Quest'ultima sala è da togliere davvero il fiato e se avessero messo dei divani per ammirare l'affresco sul soffitto sarebbe stato anche adeguato visto che a forza di stare con il naso all'insù si perde equilibrio.
Comunque delude lo stato pessimo di conservazione del palazzo, che deve essere restaurato (forse coi soldi raccolti per questa mostra), il colore triste e deprimente con cui hanno intonacato le pareti del Palazzo e la pessima organizzazione (antipatici i dipendenti): si deve prenotare, ma accettano anche i non prenotati, devi lasciare tutto all'arrangiatissimo guardaroba posizionato nel cortile all'addiaccio, non puoi soffermarti più di tanto su nulla, altrimenti si blocca il flusso dei visitatori, se poi si va in visita in gruppo, l'ambasciata impone che le spiegazioni siano fatte dalla propria guida francese (pagando un costo in più) altrimenti la guida del gruppo non può fiatare, può solo accompagnare il gruppo e ascolare l'audioguida.
Insomma per visitare un palazzo romano ma in territorio francese si deve subire qualche angheria e fa male vedere come poco si esaltino i più grandi pittori del mondo.
L'Italia non è
L'Italia non è un paese per donne
l'Italia non è un paese per uomini
l'Italia non è un paese per bambini
l'Italia non è un paese per vecchi
l'Italia non è un paese per giovani
l'Italia non è un paese per malati
l'Italia non è un paese per sani
l'Italia non è un paese per gente onesta
l'Italia non è un paese per persone coerenti
l'Italia non è un paese per persone perbene
l'Italia non è un paese per gay
l'Italia non è un paese per eterosessuali
l'Italia non è un paese per adottare bambini
l'Italia non è un paese per vivere
l'Italia non è un paese per nascere
l'Italia non è un paese per morire
l'Italia non è un paese per lavorare
l'Italia non è un paese per amare
l'Italia non è un paese per attraversare la strada
l'Italia non è un paese per respirare
l'Italia non è un paese per mangiare
l'Italia non è un paese per reagire
l'Italia non è un paese per agire
l'Italia non è un paese per ricevere ed inviare lettere e pacchi
l'Italia non è un paese per la serenità
l'Italia non è un paese per la tranquillità
l'Italia non è un paese per crescere
semplicemente e purtroppo l'Italia non è!
l'Italia non è un paese per uomini
l'Italia non è un paese per bambini
l'Italia non è un paese per vecchi
l'Italia non è un paese per giovani
l'Italia non è un paese per malati
l'Italia non è un paese per sani
l'Italia non è un paese per gente onesta
l'Italia non è un paese per persone coerenti
l'Italia non è un paese per persone perbene
l'Italia non è un paese per gay
l'Italia non è un paese per eterosessuali
l'Italia non è un paese per adottare bambini
l'Italia non è un paese per vivere
l'Italia non è un paese per nascere
l'Italia non è un paese per morire
l'Italia non è un paese per lavorare
l'Italia non è un paese per amare
l'Italia non è un paese per attraversare la strada
l'Italia non è un paese per respirare
l'Italia non è un paese per mangiare
l'Italia non è un paese per reagire
l'Italia non è un paese per agire
l'Italia non è un paese per ricevere ed inviare lettere e pacchi
l'Italia non è un paese per la serenità
l'Italia non è un paese per la tranquillità
l'Italia non è un paese per crescere
semplicemente e purtroppo l'Italia non è!
Ma l'ufficio Marchi e Brevetti italiano funziona?
Stilinga ormai tre anni fa, decise di registrare il suo marchio in due categorie merceologiche.
Alla camera di commercio della sua città le assicurarono che entro due anni dal deposito del marchio avrebbe ricevuto a casa una lettera per ritirare la documentazione presso l'Ufficio Marchi e Brevetti (portando marca da bollo, mica gratis e tanto meno tramite invio di mail, e hanno fatto anche la mail certificata! capperi!).
Di fatto questa lettera non è mai arrivata.
Allora un giorno e per caso Stilinga si trovava on line sul sito della registrazione dei marchi italiani e con grande sorpresa, scopre che il marchio che aveva depositato era stato registrato! Evviva!
E subito sotto al suo marchio registrato, Stilinga trova lo stesso marchio (identico) registrato anche da un'altra persona in data posteriore, e proprio in una delle due categorie di Stilinga!
"Assurdo!" pensa Stilinga: "ma come è stato possibile? non hanno un data base? e non si controlla il data base prima di registrare ufficialmente un marchio? non si controllano le categorie? e poi parlano di falsi! e a che serve 'sto data base? a che serve registrare un marchio? e a che serve l'Ufficio Marchi e Brevetti in Italia?".
Allora in preda ad una rabbia non facilmente dissipabile, Stilinga chiama l'ufficio relazioni col pubblico dell'Ufficio Marchi e Brevetti, dove le danno pure ragione!
Pare che a causa della mancanza del ministro dello Sviluppo (ma quale sviluppo?) Economico, il decreto di opposizione non sia stato attivato e quindi una persona che viene a conoscenza della registrazione del suo stesso marchio può difendersi bonariamente, inviando una raccomandata con ricevuta di ritorno alla persona che ha registrato lo stesso marchio e in caso andare in giudizio!
Cioè si devono spendere altri soldi in avvocati perché nessuno al ministero ha controllato il data base?
Follia pura!
E Stilinga non ha più fiducia nella registrazione dei marchi, non in Italia!
Alla camera di commercio della sua città le assicurarono che entro due anni dal deposito del marchio avrebbe ricevuto a casa una lettera per ritirare la documentazione presso l'Ufficio Marchi e Brevetti (portando marca da bollo, mica gratis e tanto meno tramite invio di mail, e hanno fatto anche la mail certificata! capperi!).
Di fatto questa lettera non è mai arrivata.
Allora un giorno e per caso Stilinga si trovava on line sul sito della registrazione dei marchi italiani e con grande sorpresa, scopre che il marchio che aveva depositato era stato registrato! Evviva!
E subito sotto al suo marchio registrato, Stilinga trova lo stesso marchio (identico) registrato anche da un'altra persona in data posteriore, e proprio in una delle due categorie di Stilinga!
"Assurdo!" pensa Stilinga: "ma come è stato possibile? non hanno un data base? e non si controlla il data base prima di registrare ufficialmente un marchio? non si controllano le categorie? e poi parlano di falsi! e a che serve 'sto data base? a che serve registrare un marchio? e a che serve l'Ufficio Marchi e Brevetti in Italia?".
Allora in preda ad una rabbia non facilmente dissipabile, Stilinga chiama l'ufficio relazioni col pubblico dell'Ufficio Marchi e Brevetti, dove le danno pure ragione!
Pare che a causa della mancanza del ministro dello Sviluppo (ma quale sviluppo?) Economico, il decreto di opposizione non sia stato attivato e quindi una persona che viene a conoscenza della registrazione del suo stesso marchio può difendersi bonariamente, inviando una raccomandata con ricevuta di ritorno alla persona che ha registrato lo stesso marchio e in caso andare in giudizio!
Cioè si devono spendere altri soldi in avvocati perché nessuno al ministero ha controllato il data base?
Follia pura!
E Stilinga non ha più fiducia nella registrazione dei marchi, non in Italia!
Save the Date: La Piccola Kreativa fino al 14 Febbraio in Corso Garibaldi, 44 - Milano
La piccola kreativa ti aspetta fino al 14 febbraio in Corso Garibaldi 44 a Milano per il “Temporary Shop In Love” .
Da Fashionmag.com: "Moda: c'erano il lusso e il basic, ora c'é il freemium"
Stilinga ha trovato questo interessante articolo su http://www.fashionmag.com/
MILANO, 22 NOV - C'era una volta il lusso, per pochi, e c'era il basic, per tutti. Ora è tempo di 'freemium', un nuovo modello di consumo per coloro che non si fanno dominare dalle mode, ma le usano a loro piacimento. La nuova parola compenetra la cultura del free, cioé del gratuito, dell'accessibile, del prezzo basso, con l'eccellenza del premium, vale a dire dell'esclusivo, dell'alta gamma.
A inventare il neologismo è stato il sociologo Francesco Morace, presidente di Future Concept Lab, che sta scrivendo un libro sull'argomento e ha anticipato la sua idea su Bookmoda@, il trimestrale di settore diretto da Gianluca Lovetro. "Tutto è nato - dice Morace - dalla massificazione degli outlet: la gente si è abituata a comprare il meglio a meno. Da eccezione, l'affare si è trasformato in regola, quella del bargain, dello sconto, e quindi si è consolidata l'idea destabilizzante che la qualità del prodotto non sia sinonimo di prezzo alto".
Si è spezzata la catena del "vale, quindi costa tanto" e viceversa. La qualità dunque è andata verso la massa e nello stesso tempo è entrato in crisi il low cost senza dignità. Naturalmente hanno contribuito a creare tutto questo anche le grandi catene della moda a basso prezzo, da Zara ad H&M, da OVS Industry a Gap che hanno sviluppato la qualità di massa, hanno inserito l'appeal nel prodotto che un tempo era dozzinale e non aveva pretese, hanno aperto bei negozi nelle vie del centro.
Ma il concetto di freemium è perfino qualcosa di più: si tratta di un nuovo pacchetto personale di consumi, un inedito mix. Per esempio, i giovani condividono musica a costo zero, ma per il concerto del loro beniamino spendono anche 100-150 euro. Le notizie on line sono gratuite, ma se vuoi l'approfondimento lo paghi. Non sei costretto a spendere tanto e sempre, "questo - spiega Morace - è consumo vocazionale". Dunque si sceglie e si mescola: riciclo, mercatino, basso prezzo, ma anche l'oggetto, il viaggio, l'evento costoso che appaga le proprie inclinazioni e aspirazioni.
Il freemium è nato con la moda: il pret-a-porter degli stilisti, alle sue origini, era un consumo freemium. Poi via via è diventato lusso e oggi la moda è costretta a fare i conti con la nuova tendenza, per non restare indietro. Oggi a Milano apre il primo negozio italiano di Gap (che ne ha 330 nel mondo, 30 a Londra e 25 a Parigi tanto per dire) con una piccola 'capsule collection' firmata Valentino: come si nota, il basso tende verso l'alto che, a sua volta, è onorato di scendere verso il basso. E il cliente, che normalmente pagherebbe solo 30-40 euro per il giacchino in denim della catena low cost, fa la fila dall'alba per accaparrarsi quello Valentino for Gap a 120 euro: anche questo è un po' freemium.
Copyright © 2010 ANSA. All rights reserved.
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Commento di Stilinga a quanto esposto sopra:
"Il low cost di questo periodo è legato necessariamente alla crisi, ma questo non significa che i consumatori, soprattutto italiani ed in particolar modo romani siano interessati alla bassa qualità prodotta, per forza di cose, all'estero dove operai sottopagati e senza diritti sono sfruttati e di fatto reggono questo sistema capitalistico insano e ancora basato solo e soltanto sul basso costo del lavoro e sullo sfruttamento dell'ambiente.
Da recenti statistiche (pubblicate anche da Repubblica/cronaca di Roma) si evince che i romani, in particolare, abbiamo aumentato le spese del vintage:
vanno alla ricerca del fatto bene, fatto in Italia e che duri e a prezzi adeguati.
Questa vera necessità di prodotti durevoli, realizzati a modo ed in Italia è sottovalutata dalle aziende monstre che diffondono capillarmente prodotti uguali, di massa e standardizzati nei diversi mercati e la stessa necessità si lega anche al fenomeno che evidentemente a diversi studiosi è sfuggito: il ritorno all'artigianalità, al fatto a mano e fatto in loco secondo i gusti del singolo cliente.
Questo ritorno scompagina le strategie di vendita e di penetrazione nei vari mercati delle suddette aziende monstre che seguono imperterrite il solco del vecchio capitalismo ormai andato a male e ci auguriamo sulla via del tramonto per sempre.
Del resto la storia e l'economia sono cicliche e allora dopo tanti decenni di moda preconfezionata e industrializzata, a sotto costo e realizzata per non durare, con tessuti che al secondo lavaggio cedono, sicuramente il vero bisogno ora è di abbigliamento durevole che sia prodotto in loco, diverso e frutto di vera CULTURA, del know how (nel nostro caso) italiano.
MILANO, 22 NOV - C'era una volta il lusso, per pochi, e c'era il basic, per tutti. Ora è tempo di 'freemium', un nuovo modello di consumo per coloro che non si fanno dominare dalle mode, ma le usano a loro piacimento. La nuova parola compenetra la cultura del free, cioé del gratuito, dell'accessibile, del prezzo basso, con l'eccellenza del premium, vale a dire dell'esclusivo, dell'alta gamma.
A inventare il neologismo è stato il sociologo Francesco Morace, presidente di Future Concept Lab, che sta scrivendo un libro sull'argomento e ha anticipato la sua idea su Bookmoda@, il trimestrale di settore diretto da Gianluca Lovetro. "Tutto è nato - dice Morace - dalla massificazione degli outlet: la gente si è abituata a comprare il meglio a meno. Da eccezione, l'affare si è trasformato in regola, quella del bargain, dello sconto, e quindi si è consolidata l'idea destabilizzante che la qualità del prodotto non sia sinonimo di prezzo alto".
Si è spezzata la catena del "vale, quindi costa tanto" e viceversa. La qualità dunque è andata verso la massa e nello stesso tempo è entrato in crisi il low cost senza dignità. Naturalmente hanno contribuito a creare tutto questo anche le grandi catene della moda a basso prezzo, da Zara ad H&M, da OVS Industry a Gap che hanno sviluppato la qualità di massa, hanno inserito l'appeal nel prodotto che un tempo era dozzinale e non aveva pretese, hanno aperto bei negozi nelle vie del centro.
Ma il concetto di freemium è perfino qualcosa di più: si tratta di un nuovo pacchetto personale di consumi, un inedito mix. Per esempio, i giovani condividono musica a costo zero, ma per il concerto del loro beniamino spendono anche 100-150 euro. Le notizie on line sono gratuite, ma se vuoi l'approfondimento lo paghi. Non sei costretto a spendere tanto e sempre, "questo - spiega Morace - è consumo vocazionale". Dunque si sceglie e si mescola: riciclo, mercatino, basso prezzo, ma anche l'oggetto, il viaggio, l'evento costoso che appaga le proprie inclinazioni e aspirazioni.
Il freemium è nato con la moda: il pret-a-porter degli stilisti, alle sue origini, era un consumo freemium. Poi via via è diventato lusso e oggi la moda è costretta a fare i conti con la nuova tendenza, per non restare indietro. Oggi a Milano apre il primo negozio italiano di Gap (che ne ha 330 nel mondo, 30 a Londra e 25 a Parigi tanto per dire) con una piccola 'capsule collection' firmata Valentino: come si nota, il basso tende verso l'alto che, a sua volta, è onorato di scendere verso il basso. E il cliente, che normalmente pagherebbe solo 30-40 euro per il giacchino in denim della catena low cost, fa la fila dall'alba per accaparrarsi quello Valentino for Gap a 120 euro: anche questo è un po' freemium.
Copyright © 2010 ANSA. All rights reserved.
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Commento di Stilinga a quanto esposto sopra:
"Il low cost di questo periodo è legato necessariamente alla crisi, ma questo non significa che i consumatori, soprattutto italiani ed in particolar modo romani siano interessati alla bassa qualità prodotta, per forza di cose, all'estero dove operai sottopagati e senza diritti sono sfruttati e di fatto reggono questo sistema capitalistico insano e ancora basato solo e soltanto sul basso costo del lavoro e sullo sfruttamento dell'ambiente.
Da recenti statistiche (pubblicate anche da Repubblica/cronaca di Roma) si evince che i romani, in particolare, abbiamo aumentato le spese del vintage:
vanno alla ricerca del fatto bene, fatto in Italia e che duri e a prezzi adeguati.
Questa vera necessità di prodotti durevoli, realizzati a modo ed in Italia è sottovalutata dalle aziende monstre che diffondono capillarmente prodotti uguali, di massa e standardizzati nei diversi mercati e la stessa necessità si lega anche al fenomeno che evidentemente a diversi studiosi è sfuggito: il ritorno all'artigianalità, al fatto a mano e fatto in loco secondo i gusti del singolo cliente.
Questo ritorno scompagina le strategie di vendita e di penetrazione nei vari mercati delle suddette aziende monstre che seguono imperterrite il solco del vecchio capitalismo ormai andato a male e ci auguriamo sulla via del tramonto per sempre.
Del resto la storia e l'economia sono cicliche e allora dopo tanti decenni di moda preconfezionata e industrializzata, a sotto costo e realizzata per non durare, con tessuti che al secondo lavaggio cedono, sicuramente il vero bisogno ora è di abbigliamento durevole che sia prodotto in loco, diverso e frutto di vera CULTURA, del know how (nel nostro caso) italiano.
Al Maxxi di Roma: Le storie dell'arte 1960/2010
Oggi Stilinga è andata alla lezione dell'arte, tenuta da Daniela Lancioni, organizzata presso il Maxxi di Roma e che lì si tiene un sabato al mese (la prossima è il18/12/2010, ci si può prenotare 10 giorni prima oppure presentarsi direttamente il giorno della lezione e acquistare il biglietto alla reception dell'Auditorium del Maxxi).
Premesso che:
-arrivare al Maxxi non è facile e nemmeno veloce, se si proviene dall'altra parte di Roma;
-via Guido Reni ed annessi marciapiedi sono non solo sconnessi, ma disastrati in malo modo e pieni di buche e pozzanghere;
-diluviava e il Maxxi apre solo alle ore 11.00,
premesso tutto ciò, si deve dire che alle 10.35 il cospicuo e previdente capannello di persone davanti ai cancelli chiusi era completamente inzuppato in quanto non esiste una pensilina sotto cui ripararsi mentre si aspetta (nonostante la bellezza dell'edificio se il cancello è chiuso non c'è modo di evitare la pioggia e la strada è sprovvista di tutto) e il personale di (in)sicurezza è fermo e insensibile alla causa dell'avventore (della serie siete arrivati in anticipo e diluvia? non apro il cancello e non vi permetto di ripararvi all'ingresso del museo perchè siete peggio dei terroristi e non ho nessuna pietà verso di voi e tanto meno ho l'autorizzazione della direzione centrale, per farvi andare sotto il tetto dell'ingresso, ma ho l'autorità -anche minima, ma sempre autorità è- di farvi crepare sotto la pioggia e in mezzo alla strada desolata, attaccateve!).
A questo stato, bagnato, di incredibile idiozia, si è posto un semi rimedio solo verso le 10.50, permettendo finalmente agli astanti di porsi sotto l'agognato tetto davanti all'entrata principale, grazie a non si sa bene quale scienziato che ha avuto un po' di buon senso.
I restanti 10-15 minuti, prima dell'ufficiale apertura del museo, sono stati passati da Stilinga in un gregge umano intellettuale, fradicio d'acqua e di rabbia per il trattamento subito e naturalmente senza avere nessuna possibile organizzazione in fila, del resto siamo in Italia, non dimentichiamo che qui le file non sono lontanamente nemmeno concepite.
Finalmente alle 11-11.05 il museo viene aperto e la mandria intellettuale e polemica si fionda confusamente verso le casse dove ritira i biglietti.
Verso le 11.40 la lezione inizia: gli anni '70 si presentano ai nostri occhi di uomini e donne tornati individui in un ambiente asciutto e confortevole e il decennio artistico è sinteticamente delucidato dallo storico dell'arte di cui sopra.
La lezione è stata interessante e seguita agevolmente da chi non era a digiuno di storia dell'arte contemporanea, per gli altri è risultata un po' fastidiosa e purtroppo incompleta. Stilinga è uscita semi soddisfatta dal Maxxi e ha ripreso la via per la sua odissea fradicia d'acqua verso casa.
Premesso che:
-arrivare al Maxxi non è facile e nemmeno veloce, se si proviene dall'altra parte di Roma;
-via Guido Reni ed annessi marciapiedi sono non solo sconnessi, ma disastrati in malo modo e pieni di buche e pozzanghere;
-diluviava e il Maxxi apre solo alle ore 11.00,
premesso tutto ciò, si deve dire che alle 10.35 il cospicuo e previdente capannello di persone davanti ai cancelli chiusi era completamente inzuppato in quanto non esiste una pensilina sotto cui ripararsi mentre si aspetta (nonostante la bellezza dell'edificio se il cancello è chiuso non c'è modo di evitare la pioggia e la strada è sprovvista di tutto) e il personale di (in)sicurezza è fermo e insensibile alla causa dell'avventore (della serie siete arrivati in anticipo e diluvia? non apro il cancello e non vi permetto di ripararvi all'ingresso del museo perchè siete peggio dei terroristi e non ho nessuna pietà verso di voi e tanto meno ho l'autorizzazione della direzione centrale, per farvi andare sotto il tetto dell'ingresso, ma ho l'autorità -anche minima, ma sempre autorità è- di farvi crepare sotto la pioggia e in mezzo alla strada desolata, attaccateve!).
A questo stato, bagnato, di incredibile idiozia, si è posto un semi rimedio solo verso le 10.50, permettendo finalmente agli astanti di porsi sotto l'agognato tetto davanti all'entrata principale, grazie a non si sa bene quale scienziato che ha avuto un po' di buon senso.
I restanti 10-15 minuti, prima dell'ufficiale apertura del museo, sono stati passati da Stilinga in un gregge umano intellettuale, fradicio d'acqua e di rabbia per il trattamento subito e naturalmente senza avere nessuna possibile organizzazione in fila, del resto siamo in Italia, non dimentichiamo che qui le file non sono lontanamente nemmeno concepite.
Finalmente alle 11-11.05 il museo viene aperto e la mandria intellettuale e polemica si fionda confusamente verso le casse dove ritira i biglietti.
Verso le 11.40 la lezione inizia: gli anni '70 si presentano ai nostri occhi di uomini e donne tornati individui in un ambiente asciutto e confortevole e il decennio artistico è sinteticamente delucidato dallo storico dell'arte di cui sopra.
La lezione è stata interessante e seguita agevolmente da chi non era a digiuno di storia dell'arte contemporanea, per gli altri è risultata un po' fastidiosa e purtroppo incompleta. Stilinga è uscita semi soddisfatta dal Maxxi e ha ripreso la via per la sua odissea fradicia d'acqua verso casa.
More Postcards from Rome: a city center in deep commercial crisis
Via del Tritone, Rome, Italy, 6th of November 2010.
Via del Traforo, Rome, Italy
Esposizione di artigianato artistico giapponese a Via Fontanella Borghese, Roma
Oggi Stilinga ha avuto la splendida idea di fare una lunga passeggiata in centro, a Roma, e una volta arrivata in Via Fontanella Borghese, lasciandosi alle spalle il negozio-maison di Fendi, sul lato sinistro della stessa strada, ha visto il cartello ritratto qui a fianco.
E' l'invito per accedere ad un bellissimo cortile di un palazzo nobiliare romano, dove regna pace e serenità e dove si affacciano le vetrine di uno spazio molto zen per ordine e fascino e dove Stilinga ha passato almeno 40 minuti buoni in estasi artistico-artigianale, immersa in prodotti, manufatti, essenze del Giappone.
Stilinga ha "goduto" della Koishiwara Pottery, dei porta soia di fantasuteki, e di ombrelli di riso-lampade, di set di tazze per il sakè, di asciugamani ecologici, di cassettiere raffinatissime, di bottoni ricoperti con tessuti a mano dalle texture tradizionali, di incensi in confezioni raffinatissime e molto altro ancora.
Dopo aver toccato New York e Parigi, questa mostra-mercato è approdata a Roma e qui sarà aperta fino al giorno 11 novembre.
Stilinga spera vivamente che l'organizzazione Japan Brand apra stabilmente punti vendita di artigianato originale e davvero "local" giapponese e spera che li apra anche nella capitale.
Berlusconi:"Perchè dovremmo pagare uno scienziato quando facciamo le migliori scarpe al mondo?"
Da Il Fatto Quotidiano:
"La domanda completa, che sembra sia stata posta dal nostro presidente del Consiglio, è piuttosto una domanda retorica oltre che spaventosamente primitiva: perché dovremmo pagare uno scienziato quando facciamo le migliori scarpe del mondo? Per quanto questa domanda suoni insensata ed invero piuttosto gretta, pare che ci si debba fare i conti oggi in Italia in quanto sembra essere un pensiero comune di tanti. Infatti, è indubbio che vi sia un problema culturale in Italia, che porta a vedere la ricerca come un lusso inutile ed è proprio da questa sciagurata domanda che bisogna partire per un rinnovamento del sistema dell’università e della ricerca.
Per rispondere, potrei citare Feynman (uno dei più grandi fisici del 900) quando dice che “Tra molto tempo – per esempio tra diecimila anni – non c’è dubbio che la scoperta delle equazioni di Maxwell [ndr, che descrivono le onde elettromagnetiche] sarà giudicato l’evento più significativo del XIX secolo. La guerra civile americana apparirà insignificante e provinciale se paragonata a questo importante evento scientifico avvenuto nel medesimo decennio (Lectures on Physics, vol. II) ” .
Ma non c’è solo un motivo culturale, quello che bisogna ricordare è che la ricerca, quella fondamentale, ha anche un’importanza economica e sociale. Per rispondere a questa domanda vorrei dunque riportare alcuni brani di un articolo di Sheldon Glashow, Premio Nobel per la fisica 1979, presentato a Parigi alcuni anni fa (ringrazio il Prof. Guido Martinelli per avermelo dato, è tanto efficace quanto introvabile):
“Molti politici, ma anche molti rappresentanti dell’industria e del mondo accademico, sono convinti che la società dovrebbe investire esclusivamente in ricerche che abbiano buone probabilità di generare benefici diretti e specifici, nella forma di creazione di ricchezza e di miglioramenti della qualità della vita. In particolare essi ritengono che le ricerche nella Fisica delle Alte Energie e dell’Astrofisica siano lussi inutili e dispendiosi, che queste discipline consumino risorse piuttosto che promuovere crescita economica e benessere per l’uomo. Per esempio, fatemi citare una recente lettera all’Economist: ‘I fisici che lavorano nella ricerca fondamentale si sentirebbero vessati se dovessero indicare qualcosa d’utile che possa derivare dalle loro elaborazioni teoriche … E’ molto più importante incoraggiare i nostri ‘migliori cervelli’ a risolvere problemi reali e lasciare la teologia ai professionisti della religione’. Io credo invece che queste persone si sbaglino completamente, e che la politica che essi invocano è molto poco saggia e controproducente.
Se Faraday, Roentgen e Hertz si fossero concentrati sui ‘problemi reali’ dei loro tempi, non avremmo mai sviluppato i motori elettrici, i raggi X e la radio. E’ vero che i fisici che lavorano nella ricerca fondamentale si occupano di fenomeni ‘esotici’ che non sono in se stessi particolarmente utili. E’ anche vero che questo tipo di ricerca è costoso. Ciò nonostante, io sostengo che il loro lavoro continua ad avere un enorme impatto sulla nostra vita. In verità, la ricerca delle conoscenze fondamentali, guidata dalla curiosità umana, è altrettanto importante che la ricerca di soluzioni a specifici problemi pratici. Dieci esempi dovrebbero essere sufficienti per provare questo punto.”
In breve i dieci esempi sono: il world-wide-web sviluppato all’interno delle ricerche della fisica delle alte energie, i computer, la crittografia moderna (alla base delle transizioni finanziarie a distanza), i sistemi di posizionamento globale GPS, la terapia con i fasci di particelle (per curare ad esempio il tumore al seno, l’AIDS, ecc.), il medical imaging (risonanza magnetica nucleare, tomografia ad emissione di positroni, ecc.) la superconduttività (generazione, trasporto ed immagazzinamento di energia elettrica), i radioisotopi (di nuovo applicazioni nel campo della fisica medica, ma anche in archeologia, geologia, ecc.), le sorgenti di luce di sincrotrone (scienza dei materiali, scienze della terra, ecc.), le sorgenti di neutroni (scienze di base ed ingegneria).
Il Prof. Glashow conclude dunque che“Ho descritto come le discipline scientifiche fondamentali ed apparentemente inutili abbiano contribuito enormemente alla crescita economica ed al benessere dell’uomo. Molto tempo fa ci si mise in guardia che la pressione per ottenere risultati immediati avrebbe distrutto la ricerca pura, a meno di perseguire delle politiche consapevoli per evitare che questo accada. Questo avvertimento è ancora più pertinente al giorno d’oggi. Tuttavia il perseguimento della fisica delle particelle e dell’astrofisica non è motivato dalla loro potenziale importanza economica, non importa quanto grande questa possa essere. Noi studiamo queste discipline perché crediamo che sia nostro dovere capire quanto meglio possibile il mondo in cui siamo nati. La Scienza fornisce la possibilità di comprendere razionalmente il nostro ruolo nell’Universo e può rimpiazzare le superstizioni che tanti distruzioni hanno prodotto nel passato. In conclusione, dovremmo notare che il grande successo dello spirito di iniziativa degli scienziati di tutto il mondo dovrebbe servire da modello per una più ampia collaborazione internazionale. Speriamo che la scienza e gli scienziati ci conducano verso un secolo più giusto e meno violento di quello che lo ha preceduto. ”
A margine di queste considerazioni il Prof. Glashow mette in risalto altri due punti importanti:
“Ma ci sono molte altre ragioni per le quali i governi dovrebbero continuare a finanziare ricerche apparentemente inutili e non indirizzate a scopi pratici:
Qui adatto una considerazione di Sir Chris Llewellyn-Smith, ex-direttore del CERN . Se la ricerca guidata dalla curiosità scientifica è economicamente importante, perché dovrebbe essere finanziata da fondi pubblici piuttosto che privati? La ragione è che ci sono delle scienze che portano benefici di carattere generale, piuttosto che vantaggi specifici a prodotti individuali. L’eventuale ritorno economico di queste ricerche non può essere ascritto ad una singola impresa o imprenditore. Questa è la ragione per la quale la ricerca pura è finanziata dai governi senza tener conto dell’immediato interesse commerciale dei risultati. Il finanziamento governativo della ricerca di base, non indirizzata a finalità immediate, deve continuare se si vogliono ottenere ulteriori progressi.
I fisici delle particelle e coloro che si occupano di cosmologia spendono molti anni sviluppando competenze tecniche o metodi per risolvere problemi che possono (e spesso sono) reindirizzati verso scopi più pratici. Molte delle industrie della Silicon Valley e dell’area di Boston sono state create da fisici, informatici e ingegneri degli acceleratori di particelle che devono le loro capacità all’esperienza conseguita nei laboratori di fisica delle alte energie.”
Che poi la discussione in Italia, sia ridotta al livello di confrontare la scienza con la fabbricazione di scarpe dà un’idea dell’imbarbarimento di chi dovrebbe, in un modo o nell’altro, guidare il paese."
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/10/20/perche-dovremmo-pagare-uno-scienziato/72702/
ed ecco il commento di Stilinga alla domanda retorica del Premier Berlusconi:
"Caro Berlusconi,
in Italia FACEVAMO le più belle scarpe, siamo stati superati, ormai da un bel pezzo, strano, non se n’è accorto? anche da chi non le sapeva fare (Asia e Sud America) che però con grossi investimenti economici e di ricerca, hanno acquistato, e purtroppo tocca dirlo, dall’Italia, i macchinari tecnologicamente più avanzati e ora le scarpe più belle le fanno loro! Anche perchè assieme a questi macchinari, le aziende italiane hanno esportato fior di tecnici calzaturieri e ora gli addetti ai lavori nostrani non riescono a distinguere un paio di scarpe cinesi, brasiliane, etc. da quelle italiane!
E la ricerca nel nostro martoriato Paese serve e pure moltissimo, altrimenti quei distretti calzaturieri italiani che si sono svuotati e languono ma ancora provano a resistere nonostante tutto, come, Presidente Berlusconi, pensa che possano innovare? Non solo non capisce nulla di economia, ma non è immerso nella realtà!
Si svegli!"
Per approfondire sulla vendita di macchinari calzaturieri all'estero, da trendcalzaturiero:
"Più 65% l’export italiano di macchine utensili per calzaturifici
Vento di poppa per l’export nazionale di macchine utensili per la fabbricazione di calzature. Nel primo semestre 2010 il fatturato oltre confine ha fatto segnare una crescita del 65%, spingendosi a quota 41 milioni e mezzo di euro. Quasi quadruplicato il giro d’affari in India, che resta il primo sbocco commerciale, con crescita a tre cifre anche in Turchia e ottimi sviluppi in Tunisia e Romania.
Aumenti si segnalano inoltre in Spagna, Brasile e Messico, mentre è apparsa decisamente più modesta la performance sul mercato cinese dove il fatturato è cresciuto di soli 2 punti percentuali.
Export italiano di macchine e apprecchi per la fabbricazione di calzature
(euro - dati riferiti al I semestre)
2009 2010 Var. %
Mondo 25.052.931 41.477.954 65,6%
Ue-27 8.375.906 9.817.656 17,2%
Extra Ue 16.677.025 31.660.298 89,8%
India 2.522.190 9.573.017 279,6%
Turchia 511.025 2.270.159 344,2%
Tunisia 1.561.450 2.248.010 44,0%
Romania 1.381.520 2.012.598 45,7%
Spagna 752.285 1.940.990 158,0%
Brasile 1.008.734 1.448.517 43,6%
Messico 362.478 1.303.680 259,7%
Cina 1.211.320 1.237.727 2,2%
Albania 494.179 1.127.375 128,1%
Francia 1.001.482 1.087.286 8,6%
Germania 1.380.013 1.038.098 -24,8%
Venezuela 251.182 983.230 291,4%
Russia 606.758 863.176 42,3%
Hong Kong 1.691.302 847.134 -49,9%
Bangladesh 618.483 828.882 34,0%
Portogallo 1.236.966 772.105 -37,6%
Ceca, Repubblica 294.690 650.558 120,8%
Polonia 736.719 630.447 -14,4%
Ucraina 94.047 588.314 525,6%
Fonte: Elaborazioni Trend Calzaturiero su dati Istat
Per approfondire la crisi del settore calzaturiero, ecco un post interessante, da Trendcalzaturiero:
"Calzaturiero, freno tirato per produzione e fatturato nel 2009
Un calo della produzione, in termini fisici, valutato attorno al 16% rispetto al 2008. Associato a un ridimensionamento del fatturato, ai prezzi “ex fabrica”, del 15%, che incorpora un meno 11% sul mercato domestico e una flessione ancora più robusta, nell’ordine del 16,5%, oltre confine.
Sono le stime elaborate da Trend Calzaturiero sugli sviluppi congiunturali del 2009 riferiti al sistema calzaturiero italiano.
Un comparto tradizionalmente pro ciclico costituito in Italia da una solida realtà di matrice industriale e artigianale, che negli ultimi dodici mesi ha subito gli effetti del forte deterioramento del contesto macro di riferimento, manifestando comunque una migliore tenuta, in termini relativi, rispetto all’intero settore manifatturiero.
Le risultanze positive dei principali indicatori anticipatori emersi dalle indagini sul clima di fiducia non sembrano ancora concretizzarsi in una ripresa, se non graduale, dell’attività produttiva con il rischio di dilatare i tempi di recupero anche per il settore calzaturiero, in termini di potenziale riaggancio dei livelli pre crisi.
Le proiezioni per il 2010 - rileva Trend Calzaturiero - delineano il protrarsi della fragilità del quadro economico di riferimento, seppure in previsione di una ripresa dei livelli di produzione e soprattutto degli scambi internazionali. Sviluppi che, per il sistema calzaturiero, assumono una maggiore rilevanza, data la forte propensione all’export, avvalorando la tesi, più incoraggiante, di una migliore capacità di reazione alla crisi.
Le evidenze statistiche, ancora incomplete, portano a stimare in un meno 2,5% la flessione finale delle vendite retail dell’intero segmento dell’area pelle sul mercato domestico. Con una riduzione leggermente più accentuata in termini di volumi, a fronte di un aumento dei prezzi al consumo che nel caso delle calzature è quantificabile, nel 2009, nell’intorno dell’1%. Leggermente positiva anche la dinamica dei prezzi alla produzione industriale, con le previsioni di Trend Calzaturiero che attestano la crescita del 2009 in un frazionale più 0,7%. Sugli sviluppi dei consumi interni è prevedibile un proseguimento della stagnazione nel corso del 2010, considerando una probabile accentuazione dei risvolti negativi della crisi sul versante occupazionale.
Quanto all’export, in valore le vendite all’estero dovrebbero sperimentare un meno 16% abbondante, incorporando in aggiunta a un calo fisico delle spedizioni, una flessione dei prezzi oltre confine misurata attorno all’1%. Sul fronte delle importazioni è atteso un meno 1,5% in valore, con i prezzi delle scarpe importate, in prevalenza di marca cinese e vietnamita, rincarati mediamente del 12%, anche per effetto dei dazi antidumping, prorogati nella Ue per altri 15 mesi. In forte deterioramento i conti con l’estero del settore con il saldo, strutturalmente in attivo, che ha accumulato in tre trimestri una riduzione del 30%.
Nel 2009 le imprese del segmento pelli e calzature hanno aumentato di oltre tre volte il ricorso alla cassa integrazione guadagni, in termini di ore autorizzate dall’Inps. Più marcato in fenomeno nelle regioni del Sud, dove gli esiti congiunturali - conclude la nota - mostrano nella dimensione statistica degli sviluppi occupazionali elementi di maggiore criticità rispetto al resto d’Italia."
"La domanda completa, che sembra sia stata posta dal nostro presidente del Consiglio, è piuttosto una domanda retorica oltre che spaventosamente primitiva: perché dovremmo pagare uno scienziato quando facciamo le migliori scarpe del mondo? Per quanto questa domanda suoni insensata ed invero piuttosto gretta, pare che ci si debba fare i conti oggi in Italia in quanto sembra essere un pensiero comune di tanti. Infatti, è indubbio che vi sia un problema culturale in Italia, che porta a vedere la ricerca come un lusso inutile ed è proprio da questa sciagurata domanda che bisogna partire per un rinnovamento del sistema dell’università e della ricerca.
Per rispondere, potrei citare Feynman (uno dei più grandi fisici del 900) quando dice che “Tra molto tempo – per esempio tra diecimila anni – non c’è dubbio che la scoperta delle equazioni di Maxwell [ndr, che descrivono le onde elettromagnetiche] sarà giudicato l’evento più significativo del XIX secolo. La guerra civile americana apparirà insignificante e provinciale se paragonata a questo importante evento scientifico avvenuto nel medesimo decennio (Lectures on Physics, vol. II) ” .
Ma non c’è solo un motivo culturale, quello che bisogna ricordare è che la ricerca, quella fondamentale, ha anche un’importanza economica e sociale. Per rispondere a questa domanda vorrei dunque riportare alcuni brani di un articolo di Sheldon Glashow, Premio Nobel per la fisica 1979, presentato a Parigi alcuni anni fa (ringrazio il Prof. Guido Martinelli per avermelo dato, è tanto efficace quanto introvabile):
“Molti politici, ma anche molti rappresentanti dell’industria e del mondo accademico, sono convinti che la società dovrebbe investire esclusivamente in ricerche che abbiano buone probabilità di generare benefici diretti e specifici, nella forma di creazione di ricchezza e di miglioramenti della qualità della vita. In particolare essi ritengono che le ricerche nella Fisica delle Alte Energie e dell’Astrofisica siano lussi inutili e dispendiosi, che queste discipline consumino risorse piuttosto che promuovere crescita economica e benessere per l’uomo. Per esempio, fatemi citare una recente lettera all’Economist: ‘I fisici che lavorano nella ricerca fondamentale si sentirebbero vessati se dovessero indicare qualcosa d’utile che possa derivare dalle loro elaborazioni teoriche … E’ molto più importante incoraggiare i nostri ‘migliori cervelli’ a risolvere problemi reali e lasciare la teologia ai professionisti della religione’. Io credo invece che queste persone si sbaglino completamente, e che la politica che essi invocano è molto poco saggia e controproducente.
Se Faraday, Roentgen e Hertz si fossero concentrati sui ‘problemi reali’ dei loro tempi, non avremmo mai sviluppato i motori elettrici, i raggi X e la radio. E’ vero che i fisici che lavorano nella ricerca fondamentale si occupano di fenomeni ‘esotici’ che non sono in se stessi particolarmente utili. E’ anche vero che questo tipo di ricerca è costoso. Ciò nonostante, io sostengo che il loro lavoro continua ad avere un enorme impatto sulla nostra vita. In verità, la ricerca delle conoscenze fondamentali, guidata dalla curiosità umana, è altrettanto importante che la ricerca di soluzioni a specifici problemi pratici. Dieci esempi dovrebbero essere sufficienti per provare questo punto.”
In breve i dieci esempi sono: il world-wide-web sviluppato all’interno delle ricerche della fisica delle alte energie, i computer, la crittografia moderna (alla base delle transizioni finanziarie a distanza), i sistemi di posizionamento globale GPS, la terapia con i fasci di particelle (per curare ad esempio il tumore al seno, l’AIDS, ecc.), il medical imaging (risonanza magnetica nucleare, tomografia ad emissione di positroni, ecc.) la superconduttività (generazione, trasporto ed immagazzinamento di energia elettrica), i radioisotopi (di nuovo applicazioni nel campo della fisica medica, ma anche in archeologia, geologia, ecc.), le sorgenti di luce di sincrotrone (scienza dei materiali, scienze della terra, ecc.), le sorgenti di neutroni (scienze di base ed ingegneria).
Il Prof. Glashow conclude dunque che“Ho descritto come le discipline scientifiche fondamentali ed apparentemente inutili abbiano contribuito enormemente alla crescita economica ed al benessere dell’uomo. Molto tempo fa ci si mise in guardia che la pressione per ottenere risultati immediati avrebbe distrutto la ricerca pura, a meno di perseguire delle politiche consapevoli per evitare che questo accada. Questo avvertimento è ancora più pertinente al giorno d’oggi. Tuttavia il perseguimento della fisica delle particelle e dell’astrofisica non è motivato dalla loro potenziale importanza economica, non importa quanto grande questa possa essere. Noi studiamo queste discipline perché crediamo che sia nostro dovere capire quanto meglio possibile il mondo in cui siamo nati. La Scienza fornisce la possibilità di comprendere razionalmente il nostro ruolo nell’Universo e può rimpiazzare le superstizioni che tanti distruzioni hanno prodotto nel passato. In conclusione, dovremmo notare che il grande successo dello spirito di iniziativa degli scienziati di tutto il mondo dovrebbe servire da modello per una più ampia collaborazione internazionale. Speriamo che la scienza e gli scienziati ci conducano verso un secolo più giusto e meno violento di quello che lo ha preceduto. ”
A margine di queste considerazioni il Prof. Glashow mette in risalto altri due punti importanti:
“Ma ci sono molte altre ragioni per le quali i governi dovrebbero continuare a finanziare ricerche apparentemente inutili e non indirizzate a scopi pratici:
Qui adatto una considerazione di Sir Chris Llewellyn-Smith, ex-direttore del CERN . Se la ricerca guidata dalla curiosità scientifica è economicamente importante, perché dovrebbe essere finanziata da fondi pubblici piuttosto che privati? La ragione è che ci sono delle scienze che portano benefici di carattere generale, piuttosto che vantaggi specifici a prodotti individuali. L’eventuale ritorno economico di queste ricerche non può essere ascritto ad una singola impresa o imprenditore. Questa è la ragione per la quale la ricerca pura è finanziata dai governi senza tener conto dell’immediato interesse commerciale dei risultati. Il finanziamento governativo della ricerca di base, non indirizzata a finalità immediate, deve continuare se si vogliono ottenere ulteriori progressi.
I fisici delle particelle e coloro che si occupano di cosmologia spendono molti anni sviluppando competenze tecniche o metodi per risolvere problemi che possono (e spesso sono) reindirizzati verso scopi più pratici. Molte delle industrie della Silicon Valley e dell’area di Boston sono state create da fisici, informatici e ingegneri degli acceleratori di particelle che devono le loro capacità all’esperienza conseguita nei laboratori di fisica delle alte energie.”
Che poi la discussione in Italia, sia ridotta al livello di confrontare la scienza con la fabbricazione di scarpe dà un’idea dell’imbarbarimento di chi dovrebbe, in un modo o nell’altro, guidare il paese."
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/10/20/perche-dovremmo-pagare-uno-scienziato/72702/
ed ecco il commento di Stilinga alla domanda retorica del Premier Berlusconi:
"Caro Berlusconi,
in Italia FACEVAMO le più belle scarpe, siamo stati superati, ormai da un bel pezzo, strano, non se n’è accorto? anche da chi non le sapeva fare (Asia e Sud America) che però con grossi investimenti economici e di ricerca, hanno acquistato, e purtroppo tocca dirlo, dall’Italia, i macchinari tecnologicamente più avanzati e ora le scarpe più belle le fanno loro! Anche perchè assieme a questi macchinari, le aziende italiane hanno esportato fior di tecnici calzaturieri e ora gli addetti ai lavori nostrani non riescono a distinguere un paio di scarpe cinesi, brasiliane, etc. da quelle italiane!
E la ricerca nel nostro martoriato Paese serve e pure moltissimo, altrimenti quei distretti calzaturieri italiani che si sono svuotati e languono ma ancora provano a resistere nonostante tutto, come, Presidente Berlusconi, pensa che possano innovare? Non solo non capisce nulla di economia, ma non è immerso nella realtà!
Si svegli!"
Per approfondire sulla vendita di macchinari calzaturieri all'estero, da trendcalzaturiero:
"Più 65% l’export italiano di macchine utensili per calzaturifici
Vento di poppa per l’export nazionale di macchine utensili per la fabbricazione di calzature. Nel primo semestre 2010 il fatturato oltre confine ha fatto segnare una crescita del 65%, spingendosi a quota 41 milioni e mezzo di euro. Quasi quadruplicato il giro d’affari in India, che resta il primo sbocco commerciale, con crescita a tre cifre anche in Turchia e ottimi sviluppi in Tunisia e Romania.
Aumenti si segnalano inoltre in Spagna, Brasile e Messico, mentre è apparsa decisamente più modesta la performance sul mercato cinese dove il fatturato è cresciuto di soli 2 punti percentuali.
Export italiano di macchine e apprecchi per la fabbricazione di calzature
(euro - dati riferiti al I semestre)
2009 2010 Var. %
Mondo 25.052.931 41.477.954 65,6%
Ue-27 8.375.906 9.817.656 17,2%
Extra Ue 16.677.025 31.660.298 89,8%
India 2.522.190 9.573.017 279,6%
Turchia 511.025 2.270.159 344,2%
Tunisia 1.561.450 2.248.010 44,0%
Romania 1.381.520 2.012.598 45,7%
Spagna 752.285 1.940.990 158,0%
Brasile 1.008.734 1.448.517 43,6%
Messico 362.478 1.303.680 259,7%
Cina 1.211.320 1.237.727 2,2%
Albania 494.179 1.127.375 128,1%
Francia 1.001.482 1.087.286 8,6%
Germania 1.380.013 1.038.098 -24,8%
Venezuela 251.182 983.230 291,4%
Russia 606.758 863.176 42,3%
Hong Kong 1.691.302 847.134 -49,9%
Bangladesh 618.483 828.882 34,0%
Portogallo 1.236.966 772.105 -37,6%
Ceca, Repubblica 294.690 650.558 120,8%
Polonia 736.719 630.447 -14,4%
Ucraina 94.047 588.314 525,6%
Fonte: Elaborazioni Trend Calzaturiero su dati Istat
Per approfondire la crisi del settore calzaturiero, ecco un post interessante, da Trendcalzaturiero:
"Calzaturiero, freno tirato per produzione e fatturato nel 2009
Un calo della produzione, in termini fisici, valutato attorno al 16% rispetto al 2008. Associato a un ridimensionamento del fatturato, ai prezzi “ex fabrica”, del 15%, che incorpora un meno 11% sul mercato domestico e una flessione ancora più robusta, nell’ordine del 16,5%, oltre confine.
Sono le stime elaborate da Trend Calzaturiero sugli sviluppi congiunturali del 2009 riferiti al sistema calzaturiero italiano.
Un comparto tradizionalmente pro ciclico costituito in Italia da una solida realtà di matrice industriale e artigianale, che negli ultimi dodici mesi ha subito gli effetti del forte deterioramento del contesto macro di riferimento, manifestando comunque una migliore tenuta, in termini relativi, rispetto all’intero settore manifatturiero.
Le risultanze positive dei principali indicatori anticipatori emersi dalle indagini sul clima di fiducia non sembrano ancora concretizzarsi in una ripresa, se non graduale, dell’attività produttiva con il rischio di dilatare i tempi di recupero anche per il settore calzaturiero, in termini di potenziale riaggancio dei livelli pre crisi.
Le proiezioni per il 2010 - rileva Trend Calzaturiero - delineano il protrarsi della fragilità del quadro economico di riferimento, seppure in previsione di una ripresa dei livelli di produzione e soprattutto degli scambi internazionali. Sviluppi che, per il sistema calzaturiero, assumono una maggiore rilevanza, data la forte propensione all’export, avvalorando la tesi, più incoraggiante, di una migliore capacità di reazione alla crisi.
Le evidenze statistiche, ancora incomplete, portano a stimare in un meno 2,5% la flessione finale delle vendite retail dell’intero segmento dell’area pelle sul mercato domestico. Con una riduzione leggermente più accentuata in termini di volumi, a fronte di un aumento dei prezzi al consumo che nel caso delle calzature è quantificabile, nel 2009, nell’intorno dell’1%. Leggermente positiva anche la dinamica dei prezzi alla produzione industriale, con le previsioni di Trend Calzaturiero che attestano la crescita del 2009 in un frazionale più 0,7%. Sugli sviluppi dei consumi interni è prevedibile un proseguimento della stagnazione nel corso del 2010, considerando una probabile accentuazione dei risvolti negativi della crisi sul versante occupazionale.
Quanto all’export, in valore le vendite all’estero dovrebbero sperimentare un meno 16% abbondante, incorporando in aggiunta a un calo fisico delle spedizioni, una flessione dei prezzi oltre confine misurata attorno all’1%. Sul fronte delle importazioni è atteso un meno 1,5% in valore, con i prezzi delle scarpe importate, in prevalenza di marca cinese e vietnamita, rincarati mediamente del 12%, anche per effetto dei dazi antidumping, prorogati nella Ue per altri 15 mesi. In forte deterioramento i conti con l’estero del settore con il saldo, strutturalmente in attivo, che ha accumulato in tre trimestri una riduzione del 30%.
Nel 2009 le imprese del segmento pelli e calzature hanno aumentato di oltre tre volte il ricorso alla cassa integrazione guadagni, in termini di ore autorizzate dall’Inps. Più marcato in fenomeno nelle regioni del Sud, dove gli esiti congiunturali - conclude la nota - mostrano nella dimensione statistica degli sviluppi occupazionali elementi di maggiore criticità rispetto al resto d’Italia."
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