Dei buoni propositi iniziali non è rimasta traccia alcuna
Personalmente non ho mai creduto nei ''salvatori della patria'' e nel professor Monti non avevo riposto soverchie speranze, anche se ritenevo che difficilmente avrebbe potuto fare peggio di chi lo aveva preceduto.
Ma i più realisti, tra i quali mi annoveravo, lo indicavano come l'uomo delle banche, come appartenente a quel sistema di interessi e di poteri forti che avevano determinato la crisi mondiale e quindi era come affidare le ''pecore al lupo''.
Ebbene, anche se era difficile crederlo, è riuscito a far peggio, decisamente peggio del Governo precedente.
Dei buoni propositi iniziali non è rimasta traccia alcuna.
Ha parlato di equità, ma la sua manovra economica è stata la più iniqua della storia repubblicana.
Ha colpito da subito le pensioni che erano state oggetto di penalizzanti riforme nel recentissimo passato.
Ma i privilegi della casta sono rimasti intonsi ed i nostri parlamentari continuano ad essere strapagati rispetto al resto d'Europa e non solo.
Della imposta patrimoniale non c'è più traccia. Ci riferiamo a quella seria, quella che avrebbe dovuto essere applicata a quel 10% di italiani che posseggono il 45% di tutta la ricchezza esistente in Italia.
La riforma agraria attuata negli anni 50 nel nostro paese costituisce un precedente importante. La legge 841/50 contro il latifondo cosa era se non una patrimoniale?
Anche grazie ad essa si avviò la ricostruzione morale, civile ed economica della giovane repubblica italiana.
In compenso, però, il professore Monti ha colpito il patrimonio di tutti con l'IMU, l'imposta municipale unica, che poi municipale non è.
Tutti pagheranno questa imposta con una sola aliquota, indipendentemente dal fatto che si abbia un appartamento, caso mai ereditato, o che si abbiano cento appartamenti.
L'art. 53 della Costituzione Italiana così recita: ''Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.''
La progressività dell'imposizione fiscale è un principio tributario fondato sulla solidarietà ed equità.
Le liberalizzazioni poi sono andate a finire così come sono andate.
I tassisti alla fine non sono stati toccati ma in fondo è un non problema).
I notai nemmeno (figura professionale istituita nel medioevo e che resiste pervicacemente solo in Italia). Anche questa volta sono passati indenni alla paventata liberalizzazione.
E' andata bene anche alle farmacie, che continueranno ad essere tramandate di padre in figlio così come avveniva una volta per i titoli nobiliari.
Ovviamente di far pagare le frequenze televisive che il precedente Capo del Governo, in un improvviso ed imprevedibile impeto di generosità verso il prossimo, aveva assegnato a se stesso, non se ne parla nemmeno (attenzione .. chi tocca i fili muore).
I centotrentuno caccia F 35 Jsf (Joint Strike Fighter) verranno acquistati lo stesso alla modica spesa di 16 miliardi di euro (volendo essere ottimistici). Ma come dicevano i latini''pacta servanda sunt''.
D' altronde hanno anche detto che pagare i caccia agli americani ed agli inglesi creerà lavoro in Italia, circa 600 posti. Ma quanti posti potremmo creare se li spendessimo tutti in Italia?
Con le banche il professor Monti è stato insuperabile. Ma come si dice dalle nostre parti ''al cuore non si comanda .....'' .
E' riuscito ad imporre ''ope legis'' l'apertura di un conto corrente o di una carta di credito anche a coloro che hanno entrate superiori ai mille euro mensili Praticamente alla stragrande maggioranza degli italiani. Ma è stato fatto solo con il nobile intento di combattere l'evasione fiscale, anche dell'accordo con la Svizzera per la tassazione dei capitali esportati colà illegalmente, non se ne sa più nulla alla Germania questo accordo frutterà ben 6 miliardi di euro).
Della Tobintax (tassa sulle transazioni finanziarie a breve termine e quindi derrente nei confronti delle speculazioni sui titoli di stato) nessuna traccia.
Per contro le banche continueranno ad imporre assicurazioni sulla vita ai richiedenti mutui e prestiti personali (mi domando: ma cosa sarà mai il rischio imprenditoriale?).
Per finire ad ottobre incombe l'ulteriore incremento dell'IVA al 23%.
Anche questa è una misura iniqua e fortemente recessiva. Iniqua perchè è un prelievo fiscale indiretto che colpirà tutti allo stesso modo (pensionati, disoccupati, indigenti), recessiva perchè deprimerà ulteriormente i consumi.
Comunque, il professor Monti ha recentemente dichiarato che ora è giunto il momento di pensare alla crescita.
In che modo pensa di farlo? Abolendo l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (Legge 300/70), a suo parere madre di tutti i problemi italiani (anche se mi permetto umilmente di far notare che i problemi ci sono anche nei paesi dove l'articolo 18 non esiste, negli USA per esempio).
Della cosa se ne occuperà il ministro Fornero (quella che piange dopo che vara i provvedimenti; a lei le lacrime a noi il sangue).
Che si rilanci l'economia ed i consumi interni, consentendo licenziamenti più facile, è un arcano. Il primo articolo della nostra Costituzione dice ''L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro''. Non sulle banche o sulle imprese. Sul lavoro.
Quindi, una eventuale abrogazione è un passo indietro in termini di civiltà giuridica ed un grosso passo nel processo di trasformazione del nostro ordinamento da stato liberale in stato liberista.
Vorrei sbagliare, ma sicuramente questo coacervo di vecchie imposte, di nuove imposte, di minori diritti, di maggiore incertezza sul futuro, non aumenterà la produzione, ma solo la recessione.
Con un decremento del PIL e quindi delle entrate complessive, anche senza l'art. 18, i conti pubblici saranno nuovamente a rischio, con la necessità di una nuova manovra fatta di tagli e sacrifici, in una spirale senza fine (Fornero piangerà sicuramente).
Per concludere un tre ... a Monti è anche troppo.
05 Maggio 2012
di Raffaele Salomone Megna
http://www.gildacentrostudi.it/news/dettaglio.php?id=33
This is the fashion blog of Stilinga, a fashion designer who works from home. She is from Rome, Italy and she writes about trends, things she loves to do in Rome and art. Questo è il fashion blog, e non solo, di stilinga (una stilista che lavora da casa - è una stilista-casalinga) e che spesso tra una creazione di moda e l'altra, tra ricerche e fiere, si occupa anche del suo quotidiano e del contesto in cui vive.
"Dica 33%..." No, grazie!
“DICA 33% …” NO GRAZIE!
I LAVORATORI AUTONOMI VOGLIONO VIVERE CON DIGNITÀ.
NO ALL’AUMENTO AL 33% DEI CONTRIBUTI ALLA GESTIONE SEPARATA DELL’INPS.
Il DDL di riforma del mercato del lavoro ha introdotto nell’articolo 36 un aumento graduale dei contributi
di 1 punto percentuale all’anno per gli iscritti alla Gestione Separata a partire dal 2013 e fino al 2018, quando raggiungeranno il 33%. La relazione tecnica al DDL, abbastanza doviziosa di particolari
sugli obiettivi e i benefici delle norme, non formula alcuna spiegazione sul perché di questa misura.
Tale piano pensione non offre alcun vantaggio agli iscritti alla Gestione Separata, obbligandoli a una
spesa annuale di migliaia di euro in più e rendendo loro economicamente impossibile il ricorso a
forme di previdenza integrativa privata, a fronte della certezza di una pensione pubblica irrisoria dopo
40 anni di contributi. Il montante contributivo – il complesso dei versamenti effettuati – si rivaluta
infatti a un tasso inferiore a quello offerto da investimenti alternativi, anche a causa delle agevolazioni
fiscali concesse a questi ultimi.
Noi chiediamo perciò la decontribuzione e la possibilità di orientarci verso schemi previdenziali
integrativi, perché è nostro diritto provare ad assicurarci una pensione dignitosa quando non potremo
più lavorare. (art. 38.2 Cost.: I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria).
SÌ ALLA SEPARAZIONE TRA CO.CO.PRO E P.IVA NELLA GS
Chiediamo che venga operata una distinzione fra co.co.pro. e professionisti indipendenti perché le esigenze
dei due gruppi sono diverse. I primi sono il più delle volte collaboratori legati da un rapporto di
parasubordinazione a un committente che versa nella Gestione Separata 2/3 dei contributi previdenziali.
Per loro si profila semmai la necessità di tutela dagli abusi nell’utilizzo del contratto a progetto,
dietro il quale molto spesso si cela un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato non tutelato.
I lavoratori autonomi con P. IVA sono invece integralmente responsabili del versamento dei propri
contributi previdenziali e si avvalgono unicamente di una rivalsa minima del 4% sul committente, alla
quale generalmente si rinuncia in caso di clientela estera per l’imbarazzo di dover spiegare la farraginosità
del sistema previdenziale italiano.
QUANDO “INDIPENDENZA” PUÒ FAR RIMA CON “MONOCOMMITTENZA”
Il DDL di riforma del mercato del lavoro si propone di combattere l’abuso dei rapporti di lavoro in regime
di partita IVA introducendo norme rigorose per scoraggiare la monocommittenza. Queste norme,
pur essendo state formulate con il lodevole intento di proteggere i lavoratori ricattabili, nella realtà
finiscono per penalizzare quei lavoratori autonomi che, pur derivando la maggior parte del proprio
fatturato da un singolo committente, operano in maniera pienamente indipendente da quest’ultimo.
Queste norme sono il portato di una distinzione forzata tra “finte” e “vere” partite IVA che, a nostro
avviso, non aiuta in alcun modo a trovare una soluzione che protegga i lavoratori più deboli ed esposti
al rischio di sfruttamento.
Una vera riforma del mercato del lavoro dovrebbe invece tutelare e valorizzare il lavoro in tutte le sue
forme, indipendente e dipendente, subordinato e autonomo.
A nostro avviso, piuttosto che insistere sulla distinzione tra “finti” e “veri” autonomi, che non può essere
risolta facilmente in via teorica e men che mai per via legislativa, ci si dovrebbe porre l’obiettivo
di individuare i lavoratori “economicamente vulnerabili” (a prescindere dall’inquadramento giuridico
del rapporto di lavoro) e predisporre adeguate forme di tutela per aiutarli a uscire dalla condizione di
vulnerabilità, lasciando gli altri liberi di lavorare e di produrre secondo le modalità che ritengono più
opportune.
SÌ ALL’EQUITÀ DI TRATTAMENTO PREVIDENZIALE TRA I LAVORATORI AUTONOMI
È auspicabile l’equiparazione previdenziale dei professionisti indipendenti con Partita IVA a quella
degli altri professionisti ordinisti che versano fino a un massimo del 15% o 20% di contributi previdenziali
nelle casse dei loro ordini.
Tale bassa contribuzione consente loro di usufruire delle agevolazioni fiscali offerte da altri schemi
previdenziali o comunque di impiegare in maniera più proficua i loro risparmi.
NO ALL’USO DELLA GESTIONE SEPARATA COME BANCOMAT DI STATO!
Come dichiarato negli stessi documenti programmatici del governo, l’aumento dei contributi a carico
dei lavoratori indipendenti iscritti alla Gestione Separata ha come principale obiettivo quello di reperire
risorse per fare fronte ai nuovi impegni previdenziali emersi a causa della crisi.
I liberi professionisti non ordinisti, pur essendo del tutto esclusi da qualsiasi forma di welfare, non
possono contare sul sostegno di potenti lobby di natura sindacale né socioeconomica: e quindi rappresentano
la categoria ideale alla quale attingere nuove risorse finanziarie.
La Gestione Separata è infatti ancora troppo giovane come cassa per erogare pensioni direttamente ai
suoi contribuenti, e viene nel frattempo utilizzata come fondo cui attingere per la Cassa Integrazione
Straordinaria delle imprese o per pagare le pensioni estremamente generose che venivano garantite dal
sistema retributivo.
Tutto questo è iniquo e alimenta un sistema malato in cui i lavoratori di oggi pagano i debiti, i privilegi
e gli errori di ieri con i soldi che in teoria dovrebbero essere la loro garanzia per il domani.
Assemblea dei lavoratori autonomi del 5 maggio a Roma, Porta Futuro
Gruppo Facebook “Contro l’aumento annunciato di 7% INPS Gestione separata”
I LAVORATORI AUTONOMI VOGLIONO VIVERE CON DIGNITÀ.
NO ALL’AUMENTO AL 33% DEI CONTRIBUTI ALLA GESTIONE SEPARATA DELL’INPS.
Il DDL di riforma del mercato del lavoro ha introdotto nell’articolo 36 un aumento graduale dei contributi
di 1 punto percentuale all’anno per gli iscritti alla Gestione Separata a partire dal 2013 e fino al 2018, quando raggiungeranno il 33%. La relazione tecnica al DDL, abbastanza doviziosa di particolari
sugli obiettivi e i benefici delle norme, non formula alcuna spiegazione sul perché di questa misura.
Tale piano pensione non offre alcun vantaggio agli iscritti alla Gestione Separata, obbligandoli a una
spesa annuale di migliaia di euro in più e rendendo loro economicamente impossibile il ricorso a
forme di previdenza integrativa privata, a fronte della certezza di una pensione pubblica irrisoria dopo
40 anni di contributi. Il montante contributivo – il complesso dei versamenti effettuati – si rivaluta
infatti a un tasso inferiore a quello offerto da investimenti alternativi, anche a causa delle agevolazioni
fiscali concesse a questi ultimi.
Noi chiediamo perciò la decontribuzione e la possibilità di orientarci verso schemi previdenziali
integrativi, perché è nostro diritto provare ad assicurarci una pensione dignitosa quando non potremo
più lavorare. (art. 38.2 Cost.: I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria).
SÌ ALLA SEPARAZIONE TRA CO.CO.PRO E P.IVA NELLA GS
Chiediamo che venga operata una distinzione fra co.co.pro. e professionisti indipendenti perché le esigenze
dei due gruppi sono diverse. I primi sono il più delle volte collaboratori legati da un rapporto di
parasubordinazione a un committente che versa nella Gestione Separata 2/3 dei contributi previdenziali.
Per loro si profila semmai la necessità di tutela dagli abusi nell’utilizzo del contratto a progetto,
dietro il quale molto spesso si cela un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato non tutelato.
I lavoratori autonomi con P. IVA sono invece integralmente responsabili del versamento dei propri
contributi previdenziali e si avvalgono unicamente di una rivalsa minima del 4% sul committente, alla
quale generalmente si rinuncia in caso di clientela estera per l’imbarazzo di dover spiegare la farraginosità
del sistema previdenziale italiano.
QUANDO “INDIPENDENZA” PUÒ FAR RIMA CON “MONOCOMMITTENZA”
Il DDL di riforma del mercato del lavoro si propone di combattere l’abuso dei rapporti di lavoro in regime
di partita IVA introducendo norme rigorose per scoraggiare la monocommittenza. Queste norme,
pur essendo state formulate con il lodevole intento di proteggere i lavoratori ricattabili, nella realtà
finiscono per penalizzare quei lavoratori autonomi che, pur derivando la maggior parte del proprio
fatturato da un singolo committente, operano in maniera pienamente indipendente da quest’ultimo.
Queste norme sono il portato di una distinzione forzata tra “finte” e “vere” partite IVA che, a nostro
avviso, non aiuta in alcun modo a trovare una soluzione che protegga i lavoratori più deboli ed esposti
al rischio di sfruttamento.
Una vera riforma del mercato del lavoro dovrebbe invece tutelare e valorizzare il lavoro in tutte le sue
forme, indipendente e dipendente, subordinato e autonomo.
A nostro avviso, piuttosto che insistere sulla distinzione tra “finti” e “veri” autonomi, che non può essere
risolta facilmente in via teorica e men che mai per via legislativa, ci si dovrebbe porre l’obiettivo
di individuare i lavoratori “economicamente vulnerabili” (a prescindere dall’inquadramento giuridico
del rapporto di lavoro) e predisporre adeguate forme di tutela per aiutarli a uscire dalla condizione di
vulnerabilità, lasciando gli altri liberi di lavorare e di produrre secondo le modalità che ritengono più
opportune.
SÌ ALL’EQUITÀ DI TRATTAMENTO PREVIDENZIALE TRA I LAVORATORI AUTONOMI
È auspicabile l’equiparazione previdenziale dei professionisti indipendenti con Partita IVA a quella
degli altri professionisti ordinisti che versano fino a un massimo del 15% o 20% di contributi previdenziali
nelle casse dei loro ordini.
Tale bassa contribuzione consente loro di usufruire delle agevolazioni fiscali offerte da altri schemi
previdenziali o comunque di impiegare in maniera più proficua i loro risparmi.
NO ALL’USO DELLA GESTIONE SEPARATA COME BANCOMAT DI STATO!
Come dichiarato negli stessi documenti programmatici del governo, l’aumento dei contributi a carico
dei lavoratori indipendenti iscritti alla Gestione Separata ha come principale obiettivo quello di reperire
risorse per fare fronte ai nuovi impegni previdenziali emersi a causa della crisi.
I liberi professionisti non ordinisti, pur essendo del tutto esclusi da qualsiasi forma di welfare, non
possono contare sul sostegno di potenti lobby di natura sindacale né socioeconomica: e quindi rappresentano
la categoria ideale alla quale attingere nuove risorse finanziarie.
La Gestione Separata è infatti ancora troppo giovane come cassa per erogare pensioni direttamente ai
suoi contribuenti, e viene nel frattempo utilizzata come fondo cui attingere per la Cassa Integrazione
Straordinaria delle imprese o per pagare le pensioni estremamente generose che venivano garantite dal
sistema retributivo.
Tutto questo è iniquo e alimenta un sistema malato in cui i lavoratori di oggi pagano i debiti, i privilegi
e gli errori di ieri con i soldi che in teoria dovrebbero essere la loro garanzia per il domani.
Assemblea dei lavoratori autonomi del 5 maggio a Roma, Porta Futuro
Gruppo Facebook “Contro l’aumento annunciato di 7% INPS Gestione separata”
No all'aumento dell'aliquota della gestione separata
Lettera aperta
Petizione
Al Presidente del Consiglio dei Ministri
Al Ministero dell'Economia e delle Finanze
Al Ministro dello Sviluppo Economico
Al Ministro del Lavoro
Abbiamo appreso dalla stampa la proposta di aumentare l’aliquota della Gestione Separata dell’INPS al 27,72%, aliquota che ha già registrato l’aumento di quasi 17 punti percentuali dal 1996 ad oggi .
Alla detta Gestione non sono però iscritti solo i co.co.pro. menzionati dai media, ma anche noi professionisti autonomi senza albo.
A differenza dei collaboratori, l’incremento dell’aliquota graverebbe esclusivamente sul nostro reddito, già messo a dura prova dalla difficile situazione economica che stiamo affrontando senza alcun sostegno da parte pubblica (né ammortizzatori in deroga, né incentivi).
Inoltre in questo modo il peso dei contributi previdenziali sarebbe doppio rispetto ai professionisti ordinisti con cassa privata e di fatto supererebbe anche quello dei lavoratori dipendenti (utilizzando la stessa base di computo, come dimostrato da una analisi del CERM di Roma (fonte: http://bit.ly/s0zD9K).
Chiediamo pertanto con forza che questa proposta di aumento venga ritirata.
Per firmare la petizione prego cliccare il seguente link:
http://www.petizionionline.it/petizione/no-allaumento-dellaliquota-della-gestione-separata-dellinps-al-2772/5460
Petizione
Al Presidente del Consiglio dei Ministri
Al Ministero dell'Economia e delle Finanze
Al Ministro dello Sviluppo Economico
Al Ministro del Lavoro
Abbiamo appreso dalla stampa la proposta di aumentare l’aliquota della Gestione Separata dell’INPS al 27,72%, aliquota che ha già registrato l’aumento di quasi 17 punti percentuali dal 1996 ad oggi .
Alla detta Gestione non sono però iscritti solo i co.co.pro. menzionati dai media, ma anche noi professionisti autonomi senza albo.
A differenza dei collaboratori, l’incremento dell’aliquota graverebbe esclusivamente sul nostro reddito, già messo a dura prova dalla difficile situazione economica che stiamo affrontando senza alcun sostegno da parte pubblica (né ammortizzatori in deroga, né incentivi).
Inoltre in questo modo il peso dei contributi previdenziali sarebbe doppio rispetto ai professionisti ordinisti con cassa privata e di fatto supererebbe anche quello dei lavoratori dipendenti (utilizzando la stessa base di computo, come dimostrato da una analisi del CERM di Roma (fonte: http://bit.ly/s0zD9K).
Chiediamo pertanto con forza che questa proposta di aumento venga ritirata.
Per firmare la petizione prego cliccare il seguente link:
http://www.petizionionline.it/petizione/no-allaumento-dellaliquota-della-gestione-separata-dellinps-al-2772/5460
news from Lineapelle
News from Lineapelle, April 2012:
empty halls, few Italian buyers, lots of Asian ones...
Stilinga has never seen such a situation in her whole career!
empty halls, few Italian buyers, lots of Asian ones...
Stilinga has never seen such a situation in her whole career!
pare che oltre 17 milioni siano disoccupati...
http://www.agi.it/in-primo-piano/notizie/201204030914-ipp-rt10021-dramma_disoccupazione_in_italia_a_spasso_un_giovane_su_tre
Roma, 3 apr.
Un giovane su tre e' senza un lavoro e il tasso di disoccupazione a febbraio vola al 9,3%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto a gennaio e di 1,2 punti su base annua. Si tratta, informa l'Istat del livello piu' alto dal gennaio 2004, inizio delle serie storiche.
Il tasso di disoccupazione tra i giovani (15-24enni) si attesta al 31,9% a febbraio, con un aumento di 0,9 punti percentuali rispetto a gennaio e di 4,1 punti su base annua. Anche in questo caso si tratta del dato piu' elevato da gennaio 2004.
E sempre a febbraio il numero di disoccupati aumenta su base annua del 16,6%, ovvero di 335mila unita'.
In totale i disoccupati sono 2.354 mila, 45mila in piu' rispetto a gennaio. Nel quarto trimestre 2011 il tasso di disoccupazione si attesta al 9,6%, nove decimi di punto in piu' rispetto a un anno prima e ai massimi dal quarto trimestre del 1999. In totale si sono registrate 44mila donne occupate in meno rispetto a gennaio.
Tra i giovani la disoccupazione sale al 32,6% dal 29,8% del quarto trimestre 2010), con un picco del 49,2% per le giovani donne del Mezzogiorno.
Anche nell'Eurozona la disoccupazione sale al 10,8% a febbraio, raggiungendo il massimo da quasi 15 anni. A gennaio era al 10,7%. Nella Ue a 27 paesi la disoccupazione avanza dal 10,1% al 10,2%: al 23,6% in Spagna e al 21% in Grecia. Secondo Eurostat,il numero dei disoccupati a febbraio sale di 1,48 milioni di unita' rispetto a un anno fa a 17,1 milioni di unita'.
Il numero degli occupati cresce di 1,87 milioni di unita' a quota 24,55 milioni. I paesi con i tassi di disoccupazione piu' bassa sono Austria (4,2%), Olanda (4,9%), Lussemburgo (5,2%) e Germania (5,7%).
In questa situazione "e' sempre piu' importante portare avanti riforme strutturali," ha sottolineato Amadeu Altafaj, portavoce del commissario Ue per gli affari economici Olli Rehn. In Italia l'allarme sulle prospettive di lavoro resta a livelli di guardia: secondo un sondaggio Confsercenti-Ispo il 99% degli italiani, praticamente tutti, si dice preoccupato e due famiglie su dieci sono state colpite dai licenziamenti.
La Cgil metta in guardia sulla "valanga di disoccupazione" e chiede di "fermare i licenziamenti". I dati, secondo la Cisl, "danno conto di una situazione ancora molto difficile per il mercato del lavoro".
E Stilinga chiede al governo Monti, al parlamento, al senato, al capo dello stato e all'Europa:
-VOLETE OCCUPARVI DI CRESCITA E DI AUMENTARE IL LAVORO A TEMPO INDETERMINATO IN EUROLANDIA?
-VOLETE FARE UN PIANO DI RILANCIO INDUSTRIALE E PRODUTTIVO DELL'EUROPA UNITA?
OPPURE PREFERITE LA RIVOLUZIONE, CHE DA QUESTI DATI, E' ORMAI DIETRO L'ANGOLO?
Roma, 3 apr.
Un giovane su tre e' senza un lavoro e il tasso di disoccupazione a febbraio vola al 9,3%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto a gennaio e di 1,2 punti su base annua. Si tratta, informa l'Istat del livello piu' alto dal gennaio 2004, inizio delle serie storiche.
Il tasso di disoccupazione tra i giovani (15-24enni) si attesta al 31,9% a febbraio, con un aumento di 0,9 punti percentuali rispetto a gennaio e di 4,1 punti su base annua. Anche in questo caso si tratta del dato piu' elevato da gennaio 2004.
E sempre a febbraio il numero di disoccupati aumenta su base annua del 16,6%, ovvero di 335mila unita'.
In totale i disoccupati sono 2.354 mila, 45mila in piu' rispetto a gennaio. Nel quarto trimestre 2011 il tasso di disoccupazione si attesta al 9,6%, nove decimi di punto in piu' rispetto a un anno prima e ai massimi dal quarto trimestre del 1999. In totale si sono registrate 44mila donne occupate in meno rispetto a gennaio.
Tra i giovani la disoccupazione sale al 32,6% dal 29,8% del quarto trimestre 2010), con un picco del 49,2% per le giovani donne del Mezzogiorno.
Anche nell'Eurozona la disoccupazione sale al 10,8% a febbraio, raggiungendo il massimo da quasi 15 anni. A gennaio era al 10,7%. Nella Ue a 27 paesi la disoccupazione avanza dal 10,1% al 10,2%: al 23,6% in Spagna e al 21% in Grecia. Secondo Eurostat,il numero dei disoccupati a febbraio sale di 1,48 milioni di unita' rispetto a un anno fa a 17,1 milioni di unita'.
Il numero degli occupati cresce di 1,87 milioni di unita' a quota 24,55 milioni. I paesi con i tassi di disoccupazione piu' bassa sono Austria (4,2%), Olanda (4,9%), Lussemburgo (5,2%) e Germania (5,7%).
In questa situazione "e' sempre piu' importante portare avanti riforme strutturali," ha sottolineato Amadeu Altafaj, portavoce del commissario Ue per gli affari economici Olli Rehn. In Italia l'allarme sulle prospettive di lavoro resta a livelli di guardia: secondo un sondaggio Confsercenti-Ispo il 99% degli italiani, praticamente tutti, si dice preoccupato e due famiglie su dieci sono state colpite dai licenziamenti.
La Cgil metta in guardia sulla "valanga di disoccupazione" e chiede di "fermare i licenziamenti". I dati, secondo la Cisl, "danno conto di una situazione ancora molto difficile per il mercato del lavoro".
E Stilinga chiede al governo Monti, al parlamento, al senato, al capo dello stato e all'Europa:
-VOLETE OCCUPARVI DI CRESCITA E DI AUMENTARE IL LAVORO A TEMPO INDETERMINATO IN EUROLANDIA?
-VOLETE FARE UN PIANO DI RILANCIO INDUSTRIALE E PRODUTTIVO DELL'EUROPA UNITA?
OPPURE PREFERITE LA RIVOLUZIONE, CHE DA QUESTI DATI, E' ORMAI DIETRO L'ANGOLO?
L'Italia è collassata...come l'Argentina nel 2011
Stilinga ha notato che
E però gli italiani pagano più tasse che in Svezia e ricevono i servizi da terzo mondo e non hanno protezione sociale alcuna se non la famiglia, non trovano lavoro se non da schiavi e adesso manco quello, sono allo sbando, ma il governo e il parlamento ed il senato molto più di loro sbandano e sbagliano per non parlare dell'Europa, che invece di rilanciare la produzione industriale europea e di conseguenza l'occupazione, favorisce l'invasione di merci a basso costo... ma dove andiamo di questo passo?
Bel periodo, vero?
- il negozio di calzature sotto casa ha chiuso
- la tintoria sotto casa ha chiuso
- il rivenditore di pc sotto casa ha chiuso
- il negozio di elettrodomestici del centro commerciale e quello del centro di Roma hanno chiuso
- il riparatore di pc sotto casa ha chiuso
- il grande concept store di moda e altro a via del Babuino a Roma ha chiuso
- il negozio di moda fast di via del Corso ha chiuso
- i negozi di via del Tritone a Roma hanno chiuso, etc. etc.
E però gli italiani pagano più tasse che in Svezia e ricevono i servizi da terzo mondo e non hanno protezione sociale alcuna se non la famiglia, non trovano lavoro se non da schiavi e adesso manco quello, sono allo sbando, ma il governo e il parlamento ed il senato molto più di loro sbandano e sbagliano per non parlare dell'Europa, che invece di rilanciare la produzione industriale europea e di conseguenza l'occupazione, favorisce l'invasione di merci a basso costo... ma dove andiamo di questo passo?
Bel periodo, vero?
"Ora sì che sembrate l’Argentina" di Horacio Verbitsky
"Ora sì che sembrate l’Argentina" di Horacio Verbitsky*
Le polemiche italiane sull’articolo 18 hanno per gli argentini uno sgradevole sapore di déjà vu e lo stesso dicasi per le reazioni nei confronti del governo tecnico di Mario Monti.
Se la nostra esperienza può servire a qualcosa eccone un breve resoconto.
Il presidente Carlos Menem (1989-1999) abolì le leggi a tutela dei lavoratori che garantivano diritti ottenuti dopo decenni di lotte sociali, cosa questa che non aveva osato fare nemmeno la dittatura militare (1976-1983).
Il tecnico che preparò la riforma del mercato del lavoro fu Domingo Cavallo, incaricato di porre fine al “populismo peronista”.
In Italia settori che si considerano progressisti o comunque facenti parte di una delle anime della sinistra, hanno accolto con sollievo il rappresentante delle banche e di quel mitologico personaggio che va sotto il nome di “Merkozy”.
Dicono sia un uomo serio, che gode di notevole prestigio in Europa e che ora non bisogna più vergognarsi di essere italiani.
LA SITUAZIONE ha qualche analogia con l’Argentina di 20 anni fa anche se in Argentina il problema non era il bunga bunga, ma la superinflazione.
Stabilendo il rapporto di parità tra dollaro americano e peso argentino, Cavallo fece calare immediatamente l’inflazione e avviò un programma di riforme il cui scopo era quello di migliorare la competitività dell’economia.
La brusca stabilizzazione così ottenuta permise a Menem, che somigliava più a Berlusconi che a Mario Monti, di vincere le elezioni successive e di portare avanti un programma di smantellamento delle conquiste sociali, di liberalizzazione finanziaria, di deregulation e di privatizzazioni che causò indebitamento con l’estero per sostenere la finzione secondo cui un peso valeva quanto un dollaro, deindustrializzazione e dismissione delle industrie pubbliche.
La flessibilità del lavoro fu una delle pietre angolari di questo modello. La perdita di stabilità del lavoro e la legalizzazione dei contratti a tempo determinato o a salario ridotto o senza benefici sociali per i nuovi lavoratori ridussero il costo del lavoro e fecero lievitare i profitti delle imprese il cui contributo al sistema pensionistico subì una drastica riduzione.
Di conseguenza il sistema pensionistico venne privatizzato e i fondi pensione gestiti dalle grandi banche.
Anche Cavallo era un uomo rispettato negli ambienti finanziari internazionali e Menem prometteva che con questa politica l’Argentina sarebbe diventata un Paese del primo mondo, realizzando una vecchia ossessione argentina.
Avvenne l’esatto contrario.
Invece di registrare aumenti di produttività, il settore industriale entrò in crisi profonda.
La chiusura di moltissime attività produttive, che non potevano competere con le importazioni a prezzi molto bassi, fece lievitare la disoccupazione fino a livelli mai toccati in Argentina.
Quando Fernando De la Rua successe a Menem (1999-2001), al salvatore tecnico, Domingo Cavallo, fu affidato il ministero dell’Economia. Il modello economico collassò definitivamente nel dicembre 2001.
IL TASSO di disoccupazione toccò il 25%, le banche confiscarono i depositi dei correntisti, i prestiti del Fmi furono utilizzati per finanziare il salvataggio dei grandi capitalisti che riuscirono a far uscire dal Paese migliaia di milioni di dollari prima che il sistema bancario presentasse il conto ai comuni cittadini.
Quando venivano licenziati, i lavoratori smettevano di versare i contributi al loro fondo pensione e i loro conti correnti andavano in rosso anche per le esose commissioni delle banche.
LE BANCHE, disponendo di una elevata liquidità, cominciarono a prestare denaro a tassi molto alti allo Stato che si era svenato trasferendo risorse al sistema pensionistico.
Circa tre milioni di lavoratori che avevano raggiunto l’età della pensione rimasero senza lavoro e senza pensione.
Nestor Kirchner disse molte volte che era stato eletto presidente con un numero di voti (alle elezioni del 2003 ottenne il 22% al primo turno e Menem si ritirò prima del secondo turno prevedendo una clamorosa sconfitta) inferiore al numero di disoccupati.
Il programma suo e della sua vedova Cristina Fernandez de Kirchner che governerà dal 2007 e verrà rieletta nel 2011 con il 54% dei voti, consisteva nell’abolire poco alla volta tutte le riforme introdotte dal governo tecnico di Cavallo: i diritti dei lavoratori furono ripristinati, le pensioni, che erano state congelate nel decennio precedente, furono incrementate due volte l’anno in misura superiore all’inflazione, il sistema pensionistico divenne nuovamente pubblico e vennero reintegrati i lavoratori che erano stati esclusi dal mondo del lavoro.
Mentre nel decennio precedente solo il 50% dei lavoratori che arrivavano all’età della pensione riuscivano a ottenere un assegno pensionistico, oggi tale percentuale è superiore al 90%.
I salari dei lavoratori sono i più alti dell’America Latina e il costo del lavoro per unità di prodotto è inferiore rispetto al 2001 in quanto sono aumentati la produttività e i profitti delle imprese.
Questa sorprendente realtà coincide con quella tedesca: sono gli alti salari a stimolare gli investimenti e la produttività.
(*scrittore e giornalista, dirige il Centro Studi Giuridici e Sociali di Buenos Aires)
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Da Il Fatto Quotidiano del 31.03.2012
Lavoro 2012: abolizione art. 18 e nuovo schiavismo
In Italia il lavoro manca, sono circa 35 anni che Stilinga se lo sente ripetere, non solo per tutto questo tempo codesto motivetto è stato ripetuto a cantilena, ma anche è diventato la base per promuovere il lavoro nero, il lavoro precario, quello non tutelato, etc. etc..
Ora, Elsa Fornero deve (le è stato imposto dai burocrati europei) eliminare e/o modificare l'art. 18.
E lo fa giustificando tale azione in nome della crescita italiana.
Cioè: il lavoro non c'è e allora per farlo ripartire, si tagliano le tutele? e non ci si pone la seguente semplice domanda: come mai il lavoro in Italia latita? e come mai latita pure in Europa (almeno in quella meridionale)?
La risposta è altrettanto ovvia: il lavoro non latita, nè in Italia nè in Europa, latita la voglia di pagare contributi, stipendi degni di questo nome, tasse, etc. anche perchè oggi i capitalisti senza cuore e senza senno auspicano di attuare il metodo cinese in Europa: lo schiavismo.
Allora i capi Europei invece di riportare tutti i loro concittadini indietro di secoli, in nome della falsa produttività, farebbero bene ad associarsi tra loro per fare pressioni su chi invece ha distrutto il nostro mercato: i capitalisti sfruttatori e gli speculatori di borsa che vogliono tagliare welfare, diritti e prospettive in nome del loro profitto. A breve, medio e lungo termine questa ideologia pazza porta alla rivolta e poi alla rivoluzione.
Ne saranno consci costoro? o è meglio buttare il tutto in "caciara" e ci si culla sull'art.18? è questo articolo la causa della recessione? davvero? Ma alzare i dazi ai prodotti extraeuropei? e lottare contro lo sfruttamento dei popoli? e fare pagare in solido chi ha martoriato le finanze di paesi come la Grecia? no?
Ora, Elsa Fornero deve (le è stato imposto dai burocrati europei) eliminare e/o modificare l'art. 18.
E lo fa giustificando tale azione in nome della crescita italiana.
Cioè: il lavoro non c'è e allora per farlo ripartire, si tagliano le tutele? e non ci si pone la seguente semplice domanda: come mai il lavoro in Italia latita? e come mai latita pure in Europa (almeno in quella meridionale)?
La risposta è altrettanto ovvia: il lavoro non latita, nè in Italia nè in Europa, latita la voglia di pagare contributi, stipendi degni di questo nome, tasse, etc. anche perchè oggi i capitalisti senza cuore e senza senno auspicano di attuare il metodo cinese in Europa: lo schiavismo.
Allora i capi Europei invece di riportare tutti i loro concittadini indietro di secoli, in nome della falsa produttività, farebbero bene ad associarsi tra loro per fare pressioni su chi invece ha distrutto il nostro mercato: i capitalisti sfruttatori e gli speculatori di borsa che vogliono tagliare welfare, diritti e prospettive in nome del loro profitto. A breve, medio e lungo termine questa ideologia pazza porta alla rivolta e poi alla rivoluzione.
Ne saranno consci costoro? o è meglio buttare il tutto in "caciara" e ci si culla sull'art.18? è questo articolo la causa della recessione? davvero? Ma alzare i dazi ai prodotti extraeuropei? e lottare contro lo sfruttamento dei popoli? e fare pagare in solido chi ha martoriato le finanze di paesi come la Grecia? no?
Merkel e Sarkozy stanno uccidendo la Grecia!
Spese militari. Il bilancio della Difesa ellenico a livelli record
Fregate, sottomarini e caccia. Quelle pressioni di Merkel e Sarkò per ottenere commesse militari
I greci sono alla fame, ma hanno gli arsenali bellici pieni. E continuano a comprare armi.
Quest' anno bruceranno il tre per cento del Pil (prodotto interno lordo) in spese militari.
Solo gli Stati Uniti, in proporzione, si possono permettere tanto.
Ma cosa spinge Atene a sperperare montagne di soldi? La paura dei turchi?
No, è l' ingordigia della Merkel e di Sarkozy.
I due leader europei mettono da mesi il governo greco con le spalle al muro: se volete gli aiuti, se volete rimanere nell' euro, dovete comprare i nostri carri armati e le nostre belle navi da guerra.
Le pressioni di Berlino sul governo di Atene per vendere armi sono state denunciate nei giorni scorsi da una stampa tedesca allibita per il cinismo della Merkel, che impone tagli e sacrifici ai cittadini ellenici e poi pretende di favorire l' industria bellica della Germania.
Fino al 2009 i rapporti fra Atene e Berlino andavano a gonfie vele, il governo greco era presieduto da Kostas Karamanlis (centrodestra), grande amico della Merkel. Gli anni di Karamanlis sono stati una vera manna per la Germania. «In quel periodo - ha calcolato una rivista specializzata - i produttori di armi tedeschi hanno guadagnato una fortuna».
Una delle commesse di Atene riguardò 170 panzer Leopard, costati 1,7 miliardi di euro, e 223 cannoni dismessi dalla Bundeswehr, la Difesa tedesca.
Nel 2008 i capi della Nato osservavano meravigliati le pazze spese in armamenti che facevano balzare la Grecia al quinto posto nel mondo come nazione importatrice di strumenti bellici.
Prima di concludere il suo mandato di premier, Karamanlis fece un ultimo regalo ai tedeschi, ordinò 4 sottomarini prodotti dalla ThyssenKrupp.
Il successore, George Papandreou, socialista, si è sempre rifiutato di farseli consegnare. Voleva risparmiare una spesa mostruosa. Ma Berlino insisteva. Allora il leader greco ha trovato una scusa per dire no. Ha fatto svolgere una perizia tecnica dai suoi ufficiali della Marina, i quali hanno sentenziato che quei sottomarini non reggono il mare.
Ma la verità, ha tuonato il vice di Papandreou, Teodor Pangalos, è che «ci vogliono imporre altre armi, ma noi non ne abbiamo bisogno».
Gli ha dato ragione il ministro turco Egemen Bagis che, in un' intervista allo Herald Tribune , ha detto chiaro e tondo: «I sottomarini della Germania e della Francia non servono né ad Atene né ad Ankara».
Tuttavia, Papandreou, alla disperata ricerca di fondi internazionali, non ha potuto dire di no a tutto.
L' estate scorsa il Wall Street Journal rivelava che Berlino e Parigi avevano preteso l' acquisto di armamenti come condizione per approvare il piano di salvataggio della Grecia.
E così il leader di Atene si è dovuto piegare. A marzo scorso dalla Germania ha ottenuto uno sconto, invece dei 4 sottomarini ne ha acquistati 2 al prezzo di 1,3 miliardi di euro.
Ha dovuto prendere anche 223 carri armati Leopard II per 403 milioni di euro, arricchendo l' industria tedesca a spese dei poveri greci.
Un guadagno immorale, secondo il leader dei Verdi tedeschi Daniel Cohn-Bendit.
Papandreou ha dovuto pagare pegno anche a Sarkozy.
Durante una visita a Parigi nel maggio scorso ha firmato un accordo per la fornitura di 6 fregate e 15 elicotteri. Costo: 4 miliardi di euro. Più motovedette per 400 milioni di euro.
Alla fine la Merkel è riuscita a liberarsi di Papandreou, sostituito dal più docile Papademos.
E i programmi militari ripartono: si progetta di acquisire 60 caccia intercettori. I budget sono subito lievitati.
Per il 2012 la Grecia prevede una spesa militare superiore ai 7 miliardi di euro, il 18,2 per cento in più rispetto al 2011, il tre per cento del Pil. L' Italia è ferma a meno dello 0,9 per cento del Pil.
Siccome i pagamenti sono diluiti negli anni, se la Grecia fallisce, addio soldi.
Ma un portavoce della Merkel è sicuro che «il governo Papademos rispetterà gli impegni».
Chissà se li rispetterà anche il Portogallo, altro Paese con l' acqua alla gola e al quale Germania e Francia stanno imponendo la stessa ricetta: acquisto di armi in cambio di aiuti.
I produttori di armamenti hanno bisogno del forte sostegno dei governi dei propri Paesi per vendere la loro merce. E i governi fanno pressione sui possibili acquirenti. Così nel mondo le spese militari crescono paurosamente: nel 2011 hanno raggiunto i 1800 miliardi di dollari, il 50 per cento in più rispetto al 2001.
7Miliardi di euro: la spesa militare della Grecia prevista per il 2012, il 18,2% in più rispetto al 2011
di Nese Marco
da http://archiviostorico.corriere.it/2012/febbraio/13/Fregate_sottomarini_caccia_Quelle_pressioni_co_8_120213025.shtml
Fregate, sottomarini e caccia. Quelle pressioni di Merkel e Sarkò per ottenere commesse militari
I greci sono alla fame, ma hanno gli arsenali bellici pieni. E continuano a comprare armi.
Quest' anno bruceranno il tre per cento del Pil (prodotto interno lordo) in spese militari.
Solo gli Stati Uniti, in proporzione, si possono permettere tanto.
Ma cosa spinge Atene a sperperare montagne di soldi? La paura dei turchi?
No, è l' ingordigia della Merkel e di Sarkozy.
I due leader europei mettono da mesi il governo greco con le spalle al muro: se volete gli aiuti, se volete rimanere nell' euro, dovete comprare i nostri carri armati e le nostre belle navi da guerra.
Le pressioni di Berlino sul governo di Atene per vendere armi sono state denunciate nei giorni scorsi da una stampa tedesca allibita per il cinismo della Merkel, che impone tagli e sacrifici ai cittadini ellenici e poi pretende di favorire l' industria bellica della Germania.
Fino al 2009 i rapporti fra Atene e Berlino andavano a gonfie vele, il governo greco era presieduto da Kostas Karamanlis (centrodestra), grande amico della Merkel. Gli anni di Karamanlis sono stati una vera manna per la Germania. «In quel periodo - ha calcolato una rivista specializzata - i produttori di armi tedeschi hanno guadagnato una fortuna».
Una delle commesse di Atene riguardò 170 panzer Leopard, costati 1,7 miliardi di euro, e 223 cannoni dismessi dalla Bundeswehr, la Difesa tedesca.
Nel 2008 i capi della Nato osservavano meravigliati le pazze spese in armamenti che facevano balzare la Grecia al quinto posto nel mondo come nazione importatrice di strumenti bellici.
Prima di concludere il suo mandato di premier, Karamanlis fece un ultimo regalo ai tedeschi, ordinò 4 sottomarini prodotti dalla ThyssenKrupp.
Il successore, George Papandreou, socialista, si è sempre rifiutato di farseli consegnare. Voleva risparmiare una spesa mostruosa. Ma Berlino insisteva. Allora il leader greco ha trovato una scusa per dire no. Ha fatto svolgere una perizia tecnica dai suoi ufficiali della Marina, i quali hanno sentenziato che quei sottomarini non reggono il mare.
Ma la verità, ha tuonato il vice di Papandreou, Teodor Pangalos, è che «ci vogliono imporre altre armi, ma noi non ne abbiamo bisogno».
Gli ha dato ragione il ministro turco Egemen Bagis che, in un' intervista allo Herald Tribune , ha detto chiaro e tondo: «I sottomarini della Germania e della Francia non servono né ad Atene né ad Ankara».
Tuttavia, Papandreou, alla disperata ricerca di fondi internazionali, non ha potuto dire di no a tutto.
L' estate scorsa il Wall Street Journal rivelava che Berlino e Parigi avevano preteso l' acquisto di armamenti come condizione per approvare il piano di salvataggio della Grecia.
E così il leader di Atene si è dovuto piegare. A marzo scorso dalla Germania ha ottenuto uno sconto, invece dei 4 sottomarini ne ha acquistati 2 al prezzo di 1,3 miliardi di euro.
Ha dovuto prendere anche 223 carri armati Leopard II per 403 milioni di euro, arricchendo l' industria tedesca a spese dei poveri greci.
Un guadagno immorale, secondo il leader dei Verdi tedeschi Daniel Cohn-Bendit.
Papandreou ha dovuto pagare pegno anche a Sarkozy.
Durante una visita a Parigi nel maggio scorso ha firmato un accordo per la fornitura di 6 fregate e 15 elicotteri. Costo: 4 miliardi di euro. Più motovedette per 400 milioni di euro.
Alla fine la Merkel è riuscita a liberarsi di Papandreou, sostituito dal più docile Papademos.
E i programmi militari ripartono: si progetta di acquisire 60 caccia intercettori. I budget sono subito lievitati.
Per il 2012 la Grecia prevede una spesa militare superiore ai 7 miliardi di euro, il 18,2 per cento in più rispetto al 2011, il tre per cento del Pil. L' Italia è ferma a meno dello 0,9 per cento del Pil.
Siccome i pagamenti sono diluiti negli anni, se la Grecia fallisce, addio soldi.
Ma un portavoce della Merkel è sicuro che «il governo Papademos rispetterà gli impegni».
Chissà se li rispetterà anche il Portogallo, altro Paese con l' acqua alla gola e al quale Germania e Francia stanno imponendo la stessa ricetta: acquisto di armi in cambio di aiuti.
I produttori di armamenti hanno bisogno del forte sostegno dei governi dei propri Paesi per vendere la loro merce. E i governi fanno pressione sui possibili acquirenti. Così nel mondo le spese militari crescono paurosamente: nel 2011 hanno raggiunto i 1800 miliardi di dollari, il 50 per cento in più rispetto al 2001.
7Miliardi di euro: la spesa militare della Grecia prevista per il 2012, il 18,2% in più rispetto al 2011
di Nese Marco
da http://archiviostorico.corriere.it/2012/febbraio/13/Fregate_sottomarini_caccia_Quelle_pressioni_co_8_120213025.shtml
Whitney Houston and the Grammy awards Event
R.I.P. WHITNEY HOUSTON!
Stilinga believes that since Whitney Houston, a great voice, a great actress too and a sophisticated lady of the music world, died the day before the event of the Grammy Awards, it would have been more appropriate not to make the event at all.
It was horrible to see Whitney Houston's former fans and now turned into music stars themselves make her the tribute she reallly deserved and shedding warm and true beloved tears for the loss of such an artist and human being.
Stilinga saw cynism in such a fact: would these music stars remember and understand the moment they lived at the Grammy Awards?
A star of their world died and the music business machine was just fine and playing the old, ruined song of "business is business".
These music stars are just like Whiteny Houston: a piece in the game, a little brick in the wall, a not lasting hero in the music business fairy tale.
Today you are the brightest star, the number one, and tomorrow you are past, gone and no one will really understand what it is all about: business against lives.
Tollerating all the media pressure, putting all your efforts, all your life in the job, fighting against all the competitors, reaching all the hits, remaining on top of the charts, but for what?
Your life is considered important as long as it is economically useful for the music Ceos and managers.
But you are the most precious person to yourself and after the show ends, you are always there, on the personal stage of your life.
And as human beings once a person dies it is not good at all to have such ceremonies the day after the loss, nor to sing in tears and then to receive awards.
Something is wrong and sick in such things.
Business is business, but life, birth and death, is more important.
Stilinga believes that since Whitney Houston, a great voice, a great actress too and a sophisticated lady of the music world, died the day before the event of the Grammy Awards, it would have been more appropriate not to make the event at all.
It was horrible to see Whitney Houston's former fans and now turned into music stars themselves make her the tribute she reallly deserved and shedding warm and true beloved tears for the loss of such an artist and human being.
Stilinga saw cynism in such a fact: would these music stars remember and understand the moment they lived at the Grammy Awards?
A star of their world died and the music business machine was just fine and playing the old, ruined song of "business is business".
These music stars are just like Whiteny Houston: a piece in the game, a little brick in the wall, a not lasting hero in the music business fairy tale.
Today you are the brightest star, the number one, and tomorrow you are past, gone and no one will really understand what it is all about: business against lives.
Tollerating all the media pressure, putting all your efforts, all your life in the job, fighting against all the competitors, reaching all the hits, remaining on top of the charts, but for what?
Your life is considered important as long as it is economically useful for the music Ceos and managers.
But you are the most precious person to yourself and after the show ends, you are always there, on the personal stage of your life.
And as human beings once a person dies it is not good at all to have such ceremonies the day after the loss, nor to sing in tears and then to receive awards.
Something is wrong and sick in such things.
Business is business, but life, birth and death, is more important.
Italians wish Chinese people will make the revolution in China for their rights
Italians wish Chinese people will make the revolution in their country for their rights.
It is normal and really necessary that exploited workers, who have no rights, who work for more than 12 hours a day, 6 days a week, how live in barraks of the factories, who live for working and are paid nothing, stand up and make a big change: they will fight for their rights, for fair work, for quality of air, of water, of food and for becoming what they all are: human beings, not machines!
This revolution for sure will happen for the reality is not balanced in the world.
The so called globalization actually turned to be a Chinese-zation of the world: less rights, less wages, no welfare state, no respect of any rules.
Do we want the world to be made of a group of happy and rich fews surrouned by billions of poor persons? Capitalism and mass consuption will immediately end.
So Chinese make this normal event a reality asap!
It is normal and really necessary that exploited workers, who have no rights, who work for more than 12 hours a day, 6 days a week, how live in barraks of the factories, who live for working and are paid nothing, stand up and make a big change: they will fight for their rights, for fair work, for quality of air, of water, of food and for becoming what they all are: human beings, not machines!
This revolution for sure will happen for the reality is not balanced in the world.
The so called globalization actually turned to be a Chinese-zation of the world: less rights, less wages, no welfare state, no respect of any rules.
Do we want the world to be made of a group of happy and rich fews surrouned by billions of poor persons? Capitalism and mass consuption will immediately end.
So Chinese make this normal event a reality asap!
Monti ed il Bilderberg Club
Monti e gli italiani nei "salotti buoni" del mondo
Il premier è uno dei pochi ammessi in questi circoli esclusivi, ha lasciato la carica quando è stato nominato senatore.
di Marco Dolcetta, da il Fatto Quotidiano del 29 gennaio 2012:
http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/getPDFarticolo.asp?currentArticle=1A0GC8
Ecco come si spiega la volontà di tirare una riga sul WELFARE STATE italiano ed europeo.
Ma se i capitalisti non capiscono che la disoccupazione e la mancanza di diritti, faticosamente acquisiti dai lavorati nel corso degli anni (mancanza che ora i professoroni d'economia vogliono proporre anche alla popolazione europea in nome dello spread impazzito e della crisi speculativa, mettendo in carestia popolazioni come quelle greche e portando quelle spagnole, portoghesi, italiane ed irlandesi all'emigrazione) distruggono il consumismo di massa e i mercati reali dell'economia, allora stiamo assistendo davvero alla fine stessa del capitalismo.
L'Europa come mercato economico ha arricchito la Cina, fino a quando il Welfare State e il lavoro erano concetti e realtà diffuse nel suo seno.
Se questi due pilastri sociali ed economici sono distrutti, non c'è fabbrica del mondo che regga: la Cina potrà continuare a produrre di tutto ed in quantità elevate, ma gli europei non assorbiranno la loro mercanzia e questa rimarrà invenduta nei magazzini.
Piuttosto, sarebbe necessario che i concetti di Welfare State e di lavoro con diritti siano ampliamente incoraggiati e diffusi proprio nei paesi asiatici dove sono ancora chimere. E sarebbe il caso di rendere l'euro competitivo e l'Europa una e solidale, altrimenti a che serve?
Il premier è uno dei pochi ammessi in questi circoli esclusivi, ha lasciato la carica quando è stato nominato senatore.
di Marco Dolcetta, da il Fatto Quotidiano del 29 gennaio 2012:
http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/getPDFarticolo.asp?currentArticle=1A0GC8
Ecco come si spiega la volontà di tirare una riga sul WELFARE STATE italiano ed europeo.
Ma se i capitalisti non capiscono che la disoccupazione e la mancanza di diritti, faticosamente acquisiti dai lavorati nel corso degli anni (mancanza che ora i professoroni d'economia vogliono proporre anche alla popolazione europea in nome dello spread impazzito e della crisi speculativa, mettendo in carestia popolazioni come quelle greche e portando quelle spagnole, portoghesi, italiane ed irlandesi all'emigrazione) distruggono il consumismo di massa e i mercati reali dell'economia, allora stiamo assistendo davvero alla fine stessa del capitalismo.
L'Europa come mercato economico ha arricchito la Cina, fino a quando il Welfare State e il lavoro erano concetti e realtà diffuse nel suo seno.
Se questi due pilastri sociali ed economici sono distrutti, non c'è fabbrica del mondo che regga: la Cina potrà continuare a produrre di tutto ed in quantità elevate, ma gli europei non assorbiranno la loro mercanzia e questa rimarrà invenduta nei magazzini.
Piuttosto, sarebbe necessario che i concetti di Welfare State e di lavoro con diritti siano ampliamente incoraggiati e diffusi proprio nei paesi asiatici dove sono ancora chimere. E sarebbe il caso di rendere l'euro competitivo e l'Europa una e solidale, altrimenti a che serve?
Ad Aledanno può solo risponne ALBERTO SORDI - Te c'hanno mai mannato
IL SENSO DI ALEDANNO PER LA NEVE
Nevica a Roma, a febbraio 2012 e il Sindaco de 'sta città, Aledanno dice: "Romani! Spalate!"
Stilinga al sindaco Aledanno: te c'hanno mai mannato?
Ma vedi de annà a...
Alta Moda a Roma: evento "La Sala Bianca"
Stilinga il 29 gennaio 2012 ha partecipato alla serata evento intitolata la Sala Bianca e organizzata da LabCostume, presso il Circolo degli Artisti, dove alcune realtà artigianali romane hanno esposto i loro prodotti, dalle calzature di Calzarium, agli accessori di PurpleAccessories, dai cappelli di Le Teste Calde alle maglie di Bumbuki's Mood.
Inoltre, la serata è stata arricchita non solo da una mostra di abiti originali d'epoca, ma anche dalla sfilata di abiti di alta moda che hanno ripercorso gli anni più salienti della moda del '900.
Calzarium |
PurpleAccessories |
Calzarium |
LabCostume |
PurpleAccessories |
PurpleAccessories |
PurpleAccessories |
Bumbuki's mood |
PurpleAccessories |
PurpleAccessories |
Calzarium |
Rip Oscar Luigi Scalfaro
Siamo addolorati per la perdita di Oscar Luigi Scalfaro, l'Italia perde una luce fondamentale!
La faccia sporca della Mela nella fabbrica-lager degli iPad
La faccia sporca della Mela nella fabbrica-lager degli iPad
da: La Repubblica del 27 gennaio 2012
Esplosioni, turni massacranti, polveri velenose: così si muore nei capannoni dove nascono i prodotti Apple..
I dirigenti del colosso americano si difendono: abbiamo un codice rigoroso che i fornitori devono rispettare
La faccia sporca della Mela nella fabbrica-lager degli iPad
di Charles Duhigg e David Barboza
Un venerdì sera del maggio scorso un’esplosione ha dilaniato l’Edificio A5. Quando le tute blu che erano a mensa sono corse fuori a guardare cosa fosse accaduto, hanno visto alzarsi fumo nero dall’area nella quale gli operai lucidavano migliaia di tavolette iPad al giorno. Due sono rimasti uccisi sul colpo e molte decine di altri hanno subito lesioni. Tra i feriti, uno pareva particolarmente grave: aveva i lineamenti del volto cancellati dalla forte esplosione. Bocca e naso erano ridotti a una poltiglia rossa e nera. «Lei è il padre di Lai Xiaodong?», ha chiesto una voce quando il telefono è squillato nella casa in cui è cresciuto Lai, e dalla quale il giovane ventiduenne si era trasferito a Chengdu, nel Sud Ovest della Cina, per diventare una delle milioni di ruote umane del grande ingranaggio che alimenta la più veloce e sofisticata catena di montaggio sulla Terra. «Suo figlio sta male. Si rechi subito in ospedale».
Negli ultimi dieci anni, Apple è diventata una delle più potenti, ricche aziende di successo al mondo. Malgrado ciò, gli operai che assemblano iPad, iPhone e altri apparecchi spesso lavorano in condizioni estreme, secondo quanto affermano i dipendenti delle fabbriche, i difensori dei lavoratori e alcuni documenti pubblicati dalle stesse aziende. I problemi vanno da ambienti di lavoro gravosi a questioni di sicurezza. Gli operai lavorano in turni lunghi, fanno molti straordinari, talvolta anche sette giorni su sette, e vivono in affollati dormitori. Alcuni stanno in piedi per così tante ore che le gambe si gonfiano al punto da non permettere loro di camminare. Operai in età minorile aiutano ad assemblare alcuni prodotti Apple, e le fabbriche che la riforniscono hanno smaltito in modo improprio rifiuti pericolosi e falsificato i registri: a sostenerlo sono alcuni rapporti aziendali e gruppi di difesa che, in Cina, sono spesso considerati affidabili.
La cosa più preoccupante, però — prosegue la denuncia del gruppo — è che le fabbriche non tengono in alcun conto la salute degli operai. Due anni fa presso uno stabilimento Apple della Cina orientale 137 operai si ammalarono gravemente dopo essere stati costretti a utilizzare una sostanza chimica tossica per lucidare gli schermi degli iPhone. Nel giro di soli sette mesi l’anno scorso due esplosioni avvenute in altrettante fabbriche di iPad—una a Chengdu —hanno fatto 4 morti e 77 feriti. L’Apple era stata avvisata delle condizioni pericolose di lavoro all’interno dell’impianto di Chengdu: così afferma il gruppo cinese che aveva reso noto l’avvertimento. «Se l’Apple era stata avvertita e non è intervenuta, è da biasimare» dice Nicholas Ashford, ex presidente del National Advisory Committee on Occupational Safety and Health, un ente che offre consulenze al Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti. L’Apple non è l’unica società di elettronica a fare affidamento su simili fabbriche e stabilimenti. Pessime condizioni di lavoro sono state documentate anche negli impianti di produzione di Dell, Hewlett-Packard, IBM, Lenovo, Motorola, Nokia, Sony, Toshiba e altri ancora.
Dirigenti ed ex dirigenti dell’Apple affermano che negli ultimi anni l’azienda ha messo a segno significativi progressi nel migliorare gli stabilimenti di produzione. L’Apple ha un codice comportamentale che gli stabilimenti dei fornitori sono tenuti a rispettare, e che precisa gli standard inerenti al lavoro, alla sicurezza, a numerose altre questioni. Apple ha anche avviato un’importante campagna di verifiche e revisioni. I problemi più significativi, però, sussistono. Si è scoperto che oltre la metà degli stabilimenti che riforniscono la Apple ha violato ogni anno e dal 2007 una almeno delle norme previste. «Alla Apple non è mai interessato altro che aumentare la qualità del prodotto e abbassare i costi di produzione», dice Li Mingqi, ex manager alla Foxconn Technology, uno dei più importanti partner della catena di produzione di Apple. Li, che ha portato in tribunale Foxconn per essere stato licenziato, ha aiutato a dirigere lo stabilimento di Chengdu dove si è verificata l’esplosione.
Lai Xiaodong sapeva che la fabbrica di Foxconn a Chengdu era particolare: gli operai costruiscono l’iPad, il prodotto della Apple più innovativo. Ottenuto un posto per riparare le apparecchiature dello stabilimento, avevano subito notato le luci, accecanti. I turni di lavoro erano anche di 24 ore al giorno e la fabbrica era illuminata notte e giorno. Alcuni avevano gambe talmente gonfie da trascinarsi a fatica. Dalle pareti i manifesti ammonivano i 120mila operai a “sgobbare sodo oggi o a sgobbare sodo domani per trovarsi un nuovo lavoro”. Il codice comportamentale della Apple per le fabbriche fornitrici prevede che, salvo eccezioni, gli operai non debbano lavorare più di 60 ore a settimana. A Foxconn, invece, alcuni lavoravano molto di più, come documentano le buste paga e alcuni sondaggi condotti da gruppi esterni. Gli operai che arrivavano in ritardo al lavoro spesso dovevano scrivere una confessione di colpevolezza e copiare citazioni. Da alcune rivelazioni risulta che c’erano “turni continui”. In alcuni dormitori della Foxconn dormono fino a 70mila persone, stipate anche in 20 in un trilocale. La Foxconn ha definito menzognere le dichiarazioni degli operai sui turni continui, gli straordinari e gli alloggi sovrappopolati.
La mattina in cui si è verificata l’esplosione, Lai si era recato al lavoro in bicicletta. L’iPad era stato appena lanciato sul mercato e gli operai avevano l’ordine di lucidarne a migliaia ogni giorno. Il lavoro nella fabbrica era frenetico. C’era polvere d’alluminio ovunque. Due ore dopo l’inizio del secondo turno di Lai si è verificata una serie di esplosioni. Alla fine il bilancio delle vittime sarebbe stato di quattro morti, e 18 feriti. Il corpo di Lai è stato straziato sul 90 per cento della superficie. La fabbrica ha fatto avere alla famiglia circa 150mila dollari. A dicembre è esplosa un’altra fabbrica di iPad, a Shanghai. Il bilancio delle vittime è stato di 59 feriti. Nel rapporto sulle proprie responsabilità, Apple ha scritto che anche se in entrambi i casi le esplosioni hanno coinvolto polvere di alluminio combustibile, le cause erano diverse, ma si è rifiutata di fornire dettagli. Per la famiglia di Lai, molte domande restano senza risposte.
New York Times-La Repubblica
Traduzione di Anna Bissanti
L’articolo fa parte di “iEconomy” una serie di inchieste sulle industrie cinesi che producono i nostri cellulari. Secondo “Fortune” otterrà il Pulitzer.
Articles in this series are examining challenges posed by increasingly globalized high-tech industries.
In China, Human Costs Are Built Into an iPad
By Charles Duhigg and David Barboza
Published: January 25, 2012
—
The iEconomy
How the U.S. Lost Out on iPhone Work
By Charles Duhigg and David Barboza
da: La Repubblica del 27 gennaio 2012
Esplosioni, turni massacranti, polveri velenose: così si muore nei capannoni dove nascono i prodotti Apple..
I dirigenti del colosso americano si difendono: abbiamo un codice rigoroso che i fornitori devono rispettare
La faccia sporca della Mela nella fabbrica-lager degli iPad
di Charles Duhigg e David Barboza
Un venerdì sera del maggio scorso un’esplosione ha dilaniato l’Edificio A5. Quando le tute blu che erano a mensa sono corse fuori a guardare cosa fosse accaduto, hanno visto alzarsi fumo nero dall’area nella quale gli operai lucidavano migliaia di tavolette iPad al giorno. Due sono rimasti uccisi sul colpo e molte decine di altri hanno subito lesioni. Tra i feriti, uno pareva particolarmente grave: aveva i lineamenti del volto cancellati dalla forte esplosione. Bocca e naso erano ridotti a una poltiglia rossa e nera. «Lei è il padre di Lai Xiaodong?», ha chiesto una voce quando il telefono è squillato nella casa in cui è cresciuto Lai, e dalla quale il giovane ventiduenne si era trasferito a Chengdu, nel Sud Ovest della Cina, per diventare una delle milioni di ruote umane del grande ingranaggio che alimenta la più veloce e sofisticata catena di montaggio sulla Terra. «Suo figlio sta male. Si rechi subito in ospedale».
Negli ultimi dieci anni, Apple è diventata una delle più potenti, ricche aziende di successo al mondo. Malgrado ciò, gli operai che assemblano iPad, iPhone e altri apparecchi spesso lavorano in condizioni estreme, secondo quanto affermano i dipendenti delle fabbriche, i difensori dei lavoratori e alcuni documenti pubblicati dalle stesse aziende. I problemi vanno da ambienti di lavoro gravosi a questioni di sicurezza. Gli operai lavorano in turni lunghi, fanno molti straordinari, talvolta anche sette giorni su sette, e vivono in affollati dormitori. Alcuni stanno in piedi per così tante ore che le gambe si gonfiano al punto da non permettere loro di camminare. Operai in età minorile aiutano ad assemblare alcuni prodotti Apple, e le fabbriche che la riforniscono hanno smaltito in modo improprio rifiuti pericolosi e falsificato i registri: a sostenerlo sono alcuni rapporti aziendali e gruppi di difesa che, in Cina, sono spesso considerati affidabili.
La cosa più preoccupante, però — prosegue la denuncia del gruppo — è che le fabbriche non tengono in alcun conto la salute degli operai. Due anni fa presso uno stabilimento Apple della Cina orientale 137 operai si ammalarono gravemente dopo essere stati costretti a utilizzare una sostanza chimica tossica per lucidare gli schermi degli iPhone. Nel giro di soli sette mesi l’anno scorso due esplosioni avvenute in altrettante fabbriche di iPad—una a Chengdu —hanno fatto 4 morti e 77 feriti. L’Apple era stata avvisata delle condizioni pericolose di lavoro all’interno dell’impianto di Chengdu: così afferma il gruppo cinese che aveva reso noto l’avvertimento. «Se l’Apple era stata avvertita e non è intervenuta, è da biasimare» dice Nicholas Ashford, ex presidente del National Advisory Committee on Occupational Safety and Health, un ente che offre consulenze al Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti. L’Apple non è l’unica società di elettronica a fare affidamento su simili fabbriche e stabilimenti. Pessime condizioni di lavoro sono state documentate anche negli impianti di produzione di Dell, Hewlett-Packard, IBM, Lenovo, Motorola, Nokia, Sony, Toshiba e altri ancora.
Dirigenti ed ex dirigenti dell’Apple affermano che negli ultimi anni l’azienda ha messo a segno significativi progressi nel migliorare gli stabilimenti di produzione. L’Apple ha un codice comportamentale che gli stabilimenti dei fornitori sono tenuti a rispettare, e che precisa gli standard inerenti al lavoro, alla sicurezza, a numerose altre questioni. Apple ha anche avviato un’importante campagna di verifiche e revisioni. I problemi più significativi, però, sussistono. Si è scoperto che oltre la metà degli stabilimenti che riforniscono la Apple ha violato ogni anno e dal 2007 una almeno delle norme previste. «Alla Apple non è mai interessato altro che aumentare la qualità del prodotto e abbassare i costi di produzione», dice Li Mingqi, ex manager alla Foxconn Technology, uno dei più importanti partner della catena di produzione di Apple. Li, che ha portato in tribunale Foxconn per essere stato licenziato, ha aiutato a dirigere lo stabilimento di Chengdu dove si è verificata l’esplosione.
Lai Xiaodong sapeva che la fabbrica di Foxconn a Chengdu era particolare: gli operai costruiscono l’iPad, il prodotto della Apple più innovativo. Ottenuto un posto per riparare le apparecchiature dello stabilimento, avevano subito notato le luci, accecanti. I turni di lavoro erano anche di 24 ore al giorno e la fabbrica era illuminata notte e giorno. Alcuni avevano gambe talmente gonfie da trascinarsi a fatica. Dalle pareti i manifesti ammonivano i 120mila operai a “sgobbare sodo oggi o a sgobbare sodo domani per trovarsi un nuovo lavoro”. Il codice comportamentale della Apple per le fabbriche fornitrici prevede che, salvo eccezioni, gli operai non debbano lavorare più di 60 ore a settimana. A Foxconn, invece, alcuni lavoravano molto di più, come documentano le buste paga e alcuni sondaggi condotti da gruppi esterni. Gli operai che arrivavano in ritardo al lavoro spesso dovevano scrivere una confessione di colpevolezza e copiare citazioni. Da alcune rivelazioni risulta che c’erano “turni continui”. In alcuni dormitori della Foxconn dormono fino a 70mila persone, stipate anche in 20 in un trilocale. La Foxconn ha definito menzognere le dichiarazioni degli operai sui turni continui, gli straordinari e gli alloggi sovrappopolati.
La mattina in cui si è verificata l’esplosione, Lai si era recato al lavoro in bicicletta. L’iPad era stato appena lanciato sul mercato e gli operai avevano l’ordine di lucidarne a migliaia ogni giorno. Il lavoro nella fabbrica era frenetico. C’era polvere d’alluminio ovunque. Due ore dopo l’inizio del secondo turno di Lai si è verificata una serie di esplosioni. Alla fine il bilancio delle vittime sarebbe stato di quattro morti, e 18 feriti. Il corpo di Lai è stato straziato sul 90 per cento della superficie. La fabbrica ha fatto avere alla famiglia circa 150mila dollari. A dicembre è esplosa un’altra fabbrica di iPad, a Shanghai. Il bilancio delle vittime è stato di 59 feriti. Nel rapporto sulle proprie responsabilità, Apple ha scritto che anche se in entrambi i casi le esplosioni hanno coinvolto polvere di alluminio combustibile, le cause erano diverse, ma si è rifiutata di fornire dettagli. Per la famiglia di Lai, molte domande restano senza risposte.
New York Times-La Repubblica
Traduzione di Anna Bissanti
L’articolo fa parte di “iEconomy” una serie di inchieste sulle industrie cinesi che producono i nostri cellulari. Secondo “Fortune” otterrà il Pulitzer.
Articles in this series are examining challenges posed by increasingly globalized high-tech industries.
In China, Human Costs Are Built Into an iPad
By Charles Duhigg and David Barboza
Published: January 25, 2012
—
The iEconomy
How the U.S. Lost Out on iPhone Work
By Charles Duhigg and David Barboza
Italian shoe design managers do not want to go to China to teach how to make shoes
Stilinga was interviewed by a world know outsole brand, based in Italy, China and USA and the proposed position was to organize and teach to different industrial (hired) outsole designers, in USA and in China, how to create real shoes, since these teams of creative people can design beautiful images (of shoes too) but they have no knowledge of how to make shoes!
That's crazy and normal for now the market is looking for designers who are very able in using 2D and 3D software to sketch amazing looking virtual shoes, outsoles, etc... but once these projects must be turned into real products, they are unfit, that's it: totally unfit!
So these famous shoe design schools, from each part of the globe, are not teaching what a shoelast is? they are not educating shoe/outsoles designers to solve shoe factory issues, such as how to develop a shoeline from a to z?
Crazy and the most hurting thing is that Italian shoe designers and managers should go to China and USA to inform the so called and hired and very well paid shoe technicians about how to make real shoes? Since Chinese ones do not get the problem of a shoe, although they seem to know what a shoe is...but actually their shoes have got problems.
They seem, but they are not!
This role means to spread Italian know how, experience and view on shoes to places that have been destroying our shoe industry since now!
Stilinga hopes these Chinese shoe technicians and US ones will have the humbleness and courage to take classes by themselves on how making shoes that fit!
It's time for a real revolution: coming back to reality: shoes that fit instead of amazing virtual images of them!
That's crazy and normal for now the market is looking for designers who are very able in using 2D and 3D software to sketch amazing looking virtual shoes, outsoles, etc... but once these projects must be turned into real products, they are unfit, that's it: totally unfit!
So these famous shoe design schools, from each part of the globe, are not teaching what a shoelast is? they are not educating shoe/outsoles designers to solve shoe factory issues, such as how to develop a shoeline from a to z?
Crazy and the most hurting thing is that Italian shoe designers and managers should go to China and USA to inform the so called and hired and very well paid shoe technicians about how to make real shoes? Since Chinese ones do not get the problem of a shoe, although they seem to know what a shoe is...but actually their shoes have got problems.
They seem, but they are not!
This role means to spread Italian know how, experience and view on shoes to places that have been destroying our shoe industry since now!
Stilinga hopes these Chinese shoe technicians and US ones will have the humbleness and courage to take classes by themselves on how making shoes that fit!
It's time for a real revolution: coming back to reality: shoes that fit instead of amazing virtual images of them!
Indonesia: Nike costretta a pagare straordinari a operai
Indonesia: Nike costretta a pagare straordinari a operai
Circa 4.500 operai che lavorano per in una fabbrica del gruppo Nike in Indonesia sono riusciti a ottenere il versamento degli arretrati per le ore straordinarie lavorate e mai pagate.
Lo ha annunciato il sindacato dei lavoratori Serikat Pekerja National (Spn) sottolineando che, dopo una battaglia di undici mesi, l'azienda produttrice di abbigliamento e accessori sportivi dovrà sborsare un milione di dollari (circa 700 mila euro) per pagare 593.468 ore di straordinario dei suoi operai della fabbrica di Serang, lavorate negli ultimi due anni.
Il leader del Spn, Bambang Wirahyoso, citato dalla Bbc, si augura che questa vittoria sindacale sia da esempio per le altre multinazionali dell'abbigliamento che operano in Indonesia.
Da: http://it.fashionmag.com/news-227266-Indonesia-Nike-costretta-a-pagare-straordinari-a-operai
Circa 4.500 operai che lavorano per in una fabbrica del gruppo Nike in Indonesia sono riusciti a ottenere il versamento degli arretrati per le ore straordinarie lavorate e mai pagate.
Lo ha annunciato il sindacato dei lavoratori Serikat Pekerja National (Spn) sottolineando che, dopo una battaglia di undici mesi, l'azienda produttrice di abbigliamento e accessori sportivi dovrà sborsare un milione di dollari (circa 700 mila euro) per pagare 593.468 ore di straordinario dei suoi operai della fabbrica di Serang, lavorate negli ultimi due anni.
Il leader del Spn, Bambang Wirahyoso, citato dalla Bbc, si augura che questa vittoria sindacale sia da esempio per le altre multinazionali dell'abbigliamento che operano in Indonesia.
Da: http://it.fashionmag.com/news-227266-Indonesia-Nike-costretta-a-pagare-straordinari-a-operai
Evento La Sala Bianca - Circolo degli Artisti- 29 Gennaio 2012- Roma
LA SALA BIANCA evento sfilata dedicato all'Altamoda
in collaborazione con LabCostume e The Hysterics
Il circolo degli Artisti ritorna con le domeniche dedicate alla moda indipendente con sfilate di moda e installazioni artistiche di laboratori artigianali;
questa sarà la... volta del laboratorio di costumi per lo spettacolo Labcostume che proporrà una sfilata davvero particolare dal nome “La sala bianca”.
La memoria della Moda tra passato e rielaborazione stilistica : un percorso dagli inizi del XX secolo fino alla rivoluzione del New Look.
Concept della sfilata
L’idea è quella di “mischiare” con equilibrio il recupero della storia in chiave
contemporanea.
Creazioni d’epoca sfileranno insieme ad abiti di couture ispirati al passato:
un percorso dagli anni ’10 fino alla rivoluzione del New Look.
Installazioni- Gli artigiani della moda
Cinque laboratori artigianali Romani presenteranno attraverso installazioni artistiche i loro lavori e mostreranno al pubblico dal vivo come nasce un cappello, una scarpa ed il loro
processo creativo dall'inizio alla fine.
Laboratori artigianali:
Le Teste Calde
Bumbukis Mood
Purple Accessories
Calzarium
Mami Kawai
Installazione Vintage Couture a cura di : Roberto Prili Di Rado
Selezioni musicali a cura di Supermarket
Aperitivo a cura di Tricolore monti dalle ore 19.00 free entry
Circolo degli Artisti - Via Casilina vecchia, 42 - Roma
in collaborazione con LabCostume e The Hysterics
Il circolo degli Artisti ritorna con le domeniche dedicate alla moda indipendente con sfilate di moda e installazioni artistiche di laboratori artigianali;
questa sarà la... volta del laboratorio di costumi per lo spettacolo Labcostume che proporrà una sfilata davvero particolare dal nome “La sala bianca”.
La memoria della Moda tra passato e rielaborazione stilistica : un percorso dagli inizi del XX secolo fino alla rivoluzione del New Look.
Concept della sfilata
L’idea è quella di “mischiare” con equilibrio il recupero della storia in chiave
contemporanea.
Creazioni d’epoca sfileranno insieme ad abiti di couture ispirati al passato:
un percorso dagli anni ’10 fino alla rivoluzione del New Look.
Installazioni- Gli artigiani della moda
Cinque laboratori artigianali Romani presenteranno attraverso installazioni artistiche i loro lavori e mostreranno al pubblico dal vivo come nasce un cappello, una scarpa ed il loro
processo creativo dall'inizio alla fine.
Laboratori artigianali:
Le Teste Calde
Bumbukis Mood
Purple Accessories
Calzarium
Mami Kawai
Installazione Vintage Couture a cura di : Roberto Prili Di Rado
Selezioni musicali a cura di Supermarket
Aperitivo a cura di Tricolore monti dalle ore 19.00 free entry
Circolo degli Artisti - Via Casilina vecchia, 42 - Roma
Lavoro femminile, Italia peggio della Grecia ‘Siamo un paese tradizionalista e ingessato’ | Redazione Il Fatto Quotidiano | Il Fatto Quotidiano
Lavoro femminile, Italia peggio della Grecia ‘Siamo un paese tradizionalista e ingessato’ Redazione Il Fatto Quotidiano Il Fatto Quotidiano di Angela Gennaro
Secondo i calcoli della Ue, il tasso di occupazione delle donne senza figli in Italia tra i 25 e i 54 anni è pari al 63,9%. La media dell’Unione è del 75,8%. "Una differenza che si fa abissale - dice Carla Collicelli, vice direttore generale del Censis - quando si parla di giovani e donne".
Anno nuovo, vizi antichi: il 2011 si chiude con la conferma che per occupazione, retribuzione e condizione femminile l’Italia è ancora, in Europa, il fanalino di coda. Lo dice l’Eurostat: il tasso di donne occupate è tra i più bassi dell’Unione. E peggio di noi fa solo Malta.Secondo l’ufficio statistico Ue, il tasso di occupazione delle donne senza figli in Italia tra i 25 e i 54 anni, è pari al 63,9%.
La media dell’Unione è del 75,8%: in Germania il tasso, per la stessa fascia di età, è dell’81,8%. Malta è ferma al 56,6%.
“Siamo un paese così tradizionalista e ingessato”, sospira Carla Collicelli, vice direttore generale del Censis. “Troppo lontano dagli obiettivi europei”.
E la lontananza diviene abissale quando “si parla di giovani e donne”, e se il dato anagrafico viene geolocalizzato al Sud e nelle isole.
Lo ricorda l’Istat proprio in questi giorni: al Sud addirittura il 39% delle ragazze è in cerca di occupazione.
Ancora: nell’Unione a 27, il tasso di occupazione totale di donne e uomini è del 64,2%, con le donne a quota 58,2%. Alla fine del primo semestre 2011, il tasso italiano di occupazione per uomini e donne è del 57,2%, e scende al 46,7% per le sole donne. Anche la Grecia è sopra di noi, con il suo 48,1%.
E la disoccupazione?
In Italia il totale del primo semestre dello scorso anno è dell’8,2%: 7% per gli uomini, 9% per le donne. Al netto del lavoro nero. Non solo: una donna in Italia continua a prendere 1/5 in meno rispetto a un uomo, anche in casi di ruoli analoghi.
“Dipende dai contratti”, dice Carla Collicelli. “Per quelli che prevedono emolumenti aggiuntivi la paga di base non può cambiare, ma assegni, progressione di carriera, promozioni e scatti interni sì”.
La parola chiave è precariato. “I contratti atipici, nei quali si concentrano donne e giovani, rappresentano per il datore di lavoro una valvola di flessibilità in caso di necessità di ridimensionamento dell’attività produttiva”, dice la sociologa.
Per certi versi “permettono l’accesso al lavoro”, per altri ne permettono l’uscita “con altrettanta facilità”. “E non abbiamo trovato soluzioni adeguate”. È il “clou della discriminazione”: la perdita di posti si registra “nella stragrande maggioranza per i giovani e per le donne giovani, sotto i 40 anni”. Per la fascia sopra i 40, invece, “hanno tamponato gli ammortizzatori sociali”. Eppure il Consiglio europeo di Lisbona del 2000 aveva già posto come obiettivo quello di aumentare il tasso di occupazione globale dell’Unione al 70% e il tasso di occupazione femminile a più del 60% entro il 2010.
Una percentuale che vorrebbe dire un aumento del 7% del Pil. Il rischio di povertà dei figli passerebbe dal 22,5% al 2,7% e si avvierebbe un ciclo virtuoso di imprenditoria e occupazione, con l’implementazione di quei servizi di cura per bambini e anziani, cardine della cura ricostituente per l’occupazione femminile italiana.Secondo l’Istat, infatti, l’assenza di servizi di supporto nelle attività di cura costituisce un ostacolo per l’ingresso nel mercato del lavoro di 489mila donne non occupate, cioè dell’11,6%, e per il lavoro a tempo pieno per molte delle 204mila donne occupate part time, ovvero del 14,3%.
In Italia viene destinato solo l’1,4% del Pil a contributi, servizi e detrazioni fiscali per le famiglie: dato ben più basso rispetto a quell’1,8% destinato in ambito Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nei paesi a bassa fertilità.Con i contratti atipici, poi, chi va in maternità difficilmente ritorna al posto di lavoro lasciato prima del lieto evento.
“Ci siamo lasciati alle spalle i tristi episodi del passato, quando accadeva che alle donne assunte venisse richiesto l’impegno di non fare figli per un certo numero di anni”, racconta Carla Collicelli.
Ma oggi “la donna con contratto atipico si trova in una condizione altrettanto spiacevole: sa che se si allontanerà per maternità difficilmente potrà riprendere il proprio posto in seguito”.
In paesi come ed esempio il Belgio, la presenza di molte scuole materne permette all’occupazione femminile di rimanere invariata in caso di uno o due figli.
“Da noi invece il welfare è spostato totalmente sulle pensioni e su una sanità nella media che comincia a scricchiolare con liste di attesa drammatiche per la diagnostica”, spiega la sociologa.
Il tutto “mentre le famiglie affrontano problemi di casa, asilo nido, supporti economici, servizi”.
In Italia l’11% dei bambini va al nido, privato o pubblico. In Emilia la percentuale sale al 25,2%, in Sicilia non supera il 5,1%. “Un asilo pubblico costa 8700 euro a bambino all’anno”, racconta la Collicelli. “Un privato 7500”.
In alcuni casi i comuni danno alle famiglie un contributo per la retta: ma non è la regola. Secondo l’Istat, la percentuale di occupate è del 58,5% per le donne con un figlio di meno di 15 anni, e del 54% quando i figli sono due.
Se poi i figli sono tre o più, la percentuale precipita al 33,3%. E “se si ha in casa un anziano con handicap sono guai”. Anche nelle regioni più avanzate, dove “si fa fatica a dare un’assistenza adeguata, che sgravi la famiglia”. O meglio: figlie, mogli, sorelle.“All’inizio della mia carriera, il concetto di quota rosa mi ripugnava”, conclude Carla Collicelli. “Arrivata a questo punto sono favorevole: i tempi sono maturi per proporre di applicare criteri di proporzionalità di genere rispetto alla composizione della categoria”.
D’altro canto era il 1932 quando in Italia è arrivata la prima donna in un consiglio di amministrazione di un’azienda quotata. 80 anni dopo le donne sono 150: il 6% del totale. Lì dove si decide, ancora oggi, “sono tutti uomini, e in età avanzata”, dice la vice direttrice del Censis.
Secondo i calcoli della Ue, il tasso di occupazione delle donne senza figli in Italia tra i 25 e i 54 anni è pari al 63,9%. La media dell’Unione è del 75,8%. "Una differenza che si fa abissale - dice Carla Collicelli, vice direttore generale del Censis - quando si parla di giovani e donne".
Anno nuovo, vizi antichi: il 2011 si chiude con la conferma che per occupazione, retribuzione e condizione femminile l’Italia è ancora, in Europa, il fanalino di coda. Lo dice l’Eurostat: il tasso di donne occupate è tra i più bassi dell’Unione. E peggio di noi fa solo Malta.Secondo l’ufficio statistico Ue, il tasso di occupazione delle donne senza figli in Italia tra i 25 e i 54 anni, è pari al 63,9%.
La media dell’Unione è del 75,8%: in Germania il tasso, per la stessa fascia di età, è dell’81,8%. Malta è ferma al 56,6%.
“Siamo un paese così tradizionalista e ingessato”, sospira Carla Collicelli, vice direttore generale del Censis. “Troppo lontano dagli obiettivi europei”.
E la lontananza diviene abissale quando “si parla di giovani e donne”, e se il dato anagrafico viene geolocalizzato al Sud e nelle isole.
Lo ricorda l’Istat proprio in questi giorni: al Sud addirittura il 39% delle ragazze è in cerca di occupazione.
Ancora: nell’Unione a 27, il tasso di occupazione totale di donne e uomini è del 64,2%, con le donne a quota 58,2%. Alla fine del primo semestre 2011, il tasso italiano di occupazione per uomini e donne è del 57,2%, e scende al 46,7% per le sole donne. Anche la Grecia è sopra di noi, con il suo 48,1%.
E la disoccupazione?
In Italia il totale del primo semestre dello scorso anno è dell’8,2%: 7% per gli uomini, 9% per le donne. Al netto del lavoro nero. Non solo: una donna in Italia continua a prendere 1/5 in meno rispetto a un uomo, anche in casi di ruoli analoghi.
“Dipende dai contratti”, dice Carla Collicelli. “Per quelli che prevedono emolumenti aggiuntivi la paga di base non può cambiare, ma assegni, progressione di carriera, promozioni e scatti interni sì”.
La parola chiave è precariato. “I contratti atipici, nei quali si concentrano donne e giovani, rappresentano per il datore di lavoro una valvola di flessibilità in caso di necessità di ridimensionamento dell’attività produttiva”, dice la sociologa.
Per certi versi “permettono l’accesso al lavoro”, per altri ne permettono l’uscita “con altrettanta facilità”. “E non abbiamo trovato soluzioni adeguate”. È il “clou della discriminazione”: la perdita di posti si registra “nella stragrande maggioranza per i giovani e per le donne giovani, sotto i 40 anni”. Per la fascia sopra i 40, invece, “hanno tamponato gli ammortizzatori sociali”. Eppure il Consiglio europeo di Lisbona del 2000 aveva già posto come obiettivo quello di aumentare il tasso di occupazione globale dell’Unione al 70% e il tasso di occupazione femminile a più del 60% entro il 2010.
Una percentuale che vorrebbe dire un aumento del 7% del Pil. Il rischio di povertà dei figli passerebbe dal 22,5% al 2,7% e si avvierebbe un ciclo virtuoso di imprenditoria e occupazione, con l’implementazione di quei servizi di cura per bambini e anziani, cardine della cura ricostituente per l’occupazione femminile italiana.Secondo l’Istat, infatti, l’assenza di servizi di supporto nelle attività di cura costituisce un ostacolo per l’ingresso nel mercato del lavoro di 489mila donne non occupate, cioè dell’11,6%, e per il lavoro a tempo pieno per molte delle 204mila donne occupate part time, ovvero del 14,3%.
In Italia viene destinato solo l’1,4% del Pil a contributi, servizi e detrazioni fiscali per le famiglie: dato ben più basso rispetto a quell’1,8% destinato in ambito Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nei paesi a bassa fertilità.Con i contratti atipici, poi, chi va in maternità difficilmente ritorna al posto di lavoro lasciato prima del lieto evento.
“Ci siamo lasciati alle spalle i tristi episodi del passato, quando accadeva che alle donne assunte venisse richiesto l’impegno di non fare figli per un certo numero di anni”, racconta Carla Collicelli.
Ma oggi “la donna con contratto atipico si trova in una condizione altrettanto spiacevole: sa che se si allontanerà per maternità difficilmente potrà riprendere il proprio posto in seguito”.
In paesi come ed esempio il Belgio, la presenza di molte scuole materne permette all’occupazione femminile di rimanere invariata in caso di uno o due figli.
“Da noi invece il welfare è spostato totalmente sulle pensioni e su una sanità nella media che comincia a scricchiolare con liste di attesa drammatiche per la diagnostica”, spiega la sociologa.
Il tutto “mentre le famiglie affrontano problemi di casa, asilo nido, supporti economici, servizi”.
In Italia l’11% dei bambini va al nido, privato o pubblico. In Emilia la percentuale sale al 25,2%, in Sicilia non supera il 5,1%. “Un asilo pubblico costa 8700 euro a bambino all’anno”, racconta la Collicelli. “Un privato 7500”.
In alcuni casi i comuni danno alle famiglie un contributo per la retta: ma non è la regola. Secondo l’Istat, la percentuale di occupate è del 58,5% per le donne con un figlio di meno di 15 anni, e del 54% quando i figli sono due.
Se poi i figli sono tre o più, la percentuale precipita al 33,3%. E “se si ha in casa un anziano con handicap sono guai”. Anche nelle regioni più avanzate, dove “si fa fatica a dare un’assistenza adeguata, che sgravi la famiglia”. O meglio: figlie, mogli, sorelle.“All’inizio della mia carriera, il concetto di quota rosa mi ripugnava”, conclude Carla Collicelli. “Arrivata a questo punto sono favorevole: i tempi sono maturi per proporre di applicare criteri di proporzionalità di genere rispetto alla composizione della categoria”.
D’altro canto era il 1932 quando in Italia è arrivata la prima donna in un consiglio di amministrazione di un’azienda quotata. 80 anni dopo le donne sono 150: il 6% del totale. Lì dove si decide, ancora oggi, “sono tutti uomini, e in età avanzata”, dice la vice direttrice del Censis.
Ricetta per risolvere la crisi italiana ed europea
Stilinga ha letto molti articoli di giornali in queste feste natalizie e si è convinta che la ricetta (per lo più vecchia nella sua testa: è da un pezzo che Stilinga ha partorito e cresciuto tale visione/osservazione) per risolvere la crisi economica italiana ed europea (soprattutto dell'Europa meridionale) è far ripartire la produzione italiana ed europea, a detrimento dell'economia che esporta maggiormente da noi: quella cinese.
Di fatto, in questi ultimi decenni, che sono stati caratterizzati dalla "globalizzazione" (in realtà la nostra nazione ed il continente europeo in particolare è stato colpito dalla sola nuda e cruda "cinesizzazione"), si sono aumentate le importazioni cinesi (causa delocalizzazione sfrenata delle aziende italiane ed europee in Asia) e si è illuso il popolo italiano ed europeo che la patria - fabbrica del mondo sarebbe stato il luogo utopistico ove vendere montagne di prodotti autoctoni, dove un mercato di oltre un miliardo di persone non aspetterebbe altro che comprare prodotti italiani ed europei.
Insomma, una vera e grassa bugia.
Tale miliardo e passa di gente cinese, o almeno, la maggior parte di questa massa di potenziali acquirenti non sbarca manco il lunario e come può permettersi di comprare prodotti italiani ed europei? che ormai sono realizzati dai loro connazionali in Cina ed in Italia?
La cinesizzazione ha ucciso migliaia di posti di lavoro in tutto il Mediterraneo, arricchendo pochi ed impoverendo moltissimi, e ha invaso lo stesso con prodotti ad obsolescenza programmata ed ora le Erinni economiche devastano quello che resta, con speculazione e spread che vola, in quanto l'Europa di fatto a livello politico non esiste.
Allora la ricetta è: produrre tutto (dagli zampironi alle scarpe, dai pomodori ai prodotti tecnologici, etc., etc.) ma, proprio tutto qua in Italia, in Europa.
Promuovere per legge il rilancio dei distretti industriali e crearne di nuovi, istituire la filiera corta, il km zero dalla carta, alla frutta, dalla plastica alla verdura per far risorgere il LOCAL e ammazzare il rincaro sui prodotti, in quanto il carburante per trasportarli è alle stelle (ma poi perchè la merce non viaggia su ferro?).
Assicurare la piena occupazione alla forza lavorativa attiva italiana ed europea, aumenterebbe le entrate fiscali, la crescita e potremmo finalmente permetterci (qua da noi, in questo paese crudele e arrogante) anche il sussidio minimo di cittadinanza per diventare finalmente civili.
Altrimenti il pericolo è il collasso dell'Italia (dove vivere ora - ma pure ieri- è una lotta alla sopravvivenza, un perdersi nella burocrazia bizantina, un arrabbiarsi continuo, una dannazione infernale).
Allora cosa aspettiamo?
Di fatto, in questi ultimi decenni, che sono stati caratterizzati dalla "globalizzazione" (in realtà la nostra nazione ed il continente europeo in particolare è stato colpito dalla sola nuda e cruda "cinesizzazione"), si sono aumentate le importazioni cinesi (causa delocalizzazione sfrenata delle aziende italiane ed europee in Asia) e si è illuso il popolo italiano ed europeo che la patria - fabbrica del mondo sarebbe stato il luogo utopistico ove vendere montagne di prodotti autoctoni, dove un mercato di oltre un miliardo di persone non aspetterebbe altro che comprare prodotti italiani ed europei.
Insomma, una vera e grassa bugia.
Tale miliardo e passa di gente cinese, o almeno, la maggior parte di questa massa di potenziali acquirenti non sbarca manco il lunario e come può permettersi di comprare prodotti italiani ed europei? che ormai sono realizzati dai loro connazionali in Cina ed in Italia?
La cinesizzazione ha ucciso migliaia di posti di lavoro in tutto il Mediterraneo, arricchendo pochi ed impoverendo moltissimi, e ha invaso lo stesso con prodotti ad obsolescenza programmata ed ora le Erinni economiche devastano quello che resta, con speculazione e spread che vola, in quanto l'Europa di fatto a livello politico non esiste.
Allora la ricetta è: produrre tutto (dagli zampironi alle scarpe, dai pomodori ai prodotti tecnologici, etc., etc.) ma, proprio tutto qua in Italia, in Europa.
Promuovere per legge il rilancio dei distretti industriali e crearne di nuovi, istituire la filiera corta, il km zero dalla carta, alla frutta, dalla plastica alla verdura per far risorgere il LOCAL e ammazzare il rincaro sui prodotti, in quanto il carburante per trasportarli è alle stelle (ma poi perchè la merce non viaggia su ferro?).
Assicurare la piena occupazione alla forza lavorativa attiva italiana ed europea, aumenterebbe le entrate fiscali, la crescita e potremmo finalmente permetterci (qua da noi, in questo paese crudele e arrogante) anche il sussidio minimo di cittadinanza per diventare finalmente civili.
Altrimenti il pericolo è il collasso dell'Italia (dove vivere ora - ma pure ieri- è una lotta alla sopravvivenza, un perdersi nella burocrazia bizantina, un arrabbiarsi continuo, una dannazione infernale).
Allora cosa aspettiamo?
Licenziamenti falso problema di Luciano Gallino
"Licenziamenti falso problema” (Luciano Gallino).
C´è una realtà sotto gli occhi di milioni di italiani, che essi vedono e patiscono ogni giorno.
L´industria italiana sta perdendo i pezzi.
Lo dicono, più ancora che i media nazionali, che si debbono per forza concentrare sui casi più eclatanti, la miriade di Tg regionali e di giornali locali. Non ce n´è uno, da settimane, che non rechi in prima pagina l´allarme per un´impresa del luogo che sta per chiudere. Da Varese a Palermo, dal Cuneese al Friuli, da Ancona a Cagliari. Per tal via sono già scomparsi centinaia di migliaia di posti di lavoro; altrettanti rischiano di seguirli nel prossimo anno.
Nessun settore sembra salvarsi.
Sono in crisi l´auto (ovviamente Fiat: 550.000 vetture prodotte in Italia nel 2010, un quarto rispetto a vent´anni fa) e l´aerospazio (vari siti di Alenia); la costruzione di grandi navi, di cui l´Italia fu leader mondiale (almeno sei siti di Fincantieri) e gli elettrodomestici (Merloni di Fabriano e Nocera Umbra); la microelettronica (ST-Microelectronics a Catania) e il trasporto navale di container (Mct di Gioia Tauro); la siderurgia (Ilva a Taranto) e la chimica (Montefibre a Venezia, Petrolchimico e Vinyls a Porto Torres). Si potrebbe continuare per un paio di pagine. Sono anche crisi, tutte, accompagnate da forti perdite di posti di lavoro nell´indotto e nei servizi, poiché è pur sempre l´industria il settore da cui proviene la maggior domanda di essi.
Di fronte a una simile realtà, ed alla inettitudine dimostrata al riguardo dal precedente governo, ci si poteva aspettare che il governo nuovo aprisse una robusta discussione con sindacati, industriali, manager, esperti del settore, per vedere se si trova il modo o di rilanciare rapidamente le industrie in crisi, o di svilupparne di nuove affinché assorbano il maggior numero di disoccupati presenti e futuri.
Invece no.
Il governo apre un tavolo di discussione per decidere quali riforme introdurre sul mercato del lavoro al fine di renderlo più flessibile. Ed i sindacati, anziché ribattere che il problema primo e vitale è quello di creare lavoro, accettano di discutere sul come riformare le norme d´ingresso e di uscita da un mercato che intanto rischia una contrazione senza precedenti. Il che equivale a chiedere all´orchestra, tutti insieme, di suonare il valzer preferito mentre la nave è in vista dell´iceberg che la porterà a fondo. Fondo che in questo caso si chiama una durissima recessione, con milioni di disoccupati di lunga durata.
Dinanzi a una simile disconnessione dalla realtà di ambedue le controparti non restano che due strade. Una è arcibattuta: se mai c´è stato in passato un frammento di evidenza empirica comprovante che una maggior flessibilità in uscita accresce il numero degli occupati, a causa della crisi economica in atto tale affermazione è ancora più illusoria.
Le imprese non assumono perché non ricevono ordinativi.
In molti casi è chiaro che è colpa loro. La grande cantieristica, per citare un caso paradigmatico, conta ancora nel mondo numerose società che producono ogni anno decine di navi d´ogni genere, dalle petroliere ecologiche ai trasporti adatti alle autostrade del mare. Non avendo saputo riconvertirsi, i cantieri di Fincantieri si ritrovano ora con zero commesse.
Davvero si può pensare che se gli facilitassero i licenziamenti individuali essi assumerebbero folle di lavoratori?
Un altro argomento che occorre pur ripetere è che il proposito di far assumere come lavoratori dipendenti un buon numero di precari è decisamente apprezzabile.
Ma se il contratto di breve durata che caratterizza le occupazioni atipiche si riproduce nell´area dei nuovi contratti perché questi implicano la possibilità di licenziare il nuovo assunto, anche senza giusta causa, per un periodo che addirittura supera di molto l´attuale durata media dei contratti atipici, la precarietà cambierà di pelle giuridica, ma resterà tal quale nella realtà.
Le imprese che in questi anni sono ricorse a milioni di contratti di breve durata in forza della legge 30/2003, allo scopo precipuo di adattare la forza lavoro in carico all´andamento degli ordinativi, useranno il periodo di prova, di apprendistato o come si voglia chiamarlo, lungo addirittura tre anni e più, per perseguire il medesimo scopo.
Duole dire che anche le proposte di un potenziamento degli ammortizzatori sociali, sponsorizzato in specie dal Pd, appare arretrato di fronte alla realtà della disoccupazione ed alle sue cause.
Certo, se si ritiene che non ci siano alternative, come diceva la signora Thatcher, meglio un sussidio che non la miseria.
Ma creare nuovi posti di lavoro in realtà non costerebbe molto di più, immaginazione politica ed economica aiutando.
E un lavoro stabile e remunerato intorno o poco sotto alla media salariale è una soluzione che molti preferirebbero rispetto a sette od ottocento euro di sussidio percepito magari per anni, ma senza la possibilità di ritrovare un lavoro. Oltre ad essere, in tema di difesa delle competenze professionali e della coesione sociale, assai più efficace.
Da La Repubblica del 05/01/2012.
C´è una realtà sotto gli occhi di milioni di italiani, che essi vedono e patiscono ogni giorno.
L´industria italiana sta perdendo i pezzi.
Lo dicono, più ancora che i media nazionali, che si debbono per forza concentrare sui casi più eclatanti, la miriade di Tg regionali e di giornali locali. Non ce n´è uno, da settimane, che non rechi in prima pagina l´allarme per un´impresa del luogo che sta per chiudere. Da Varese a Palermo, dal Cuneese al Friuli, da Ancona a Cagliari. Per tal via sono già scomparsi centinaia di migliaia di posti di lavoro; altrettanti rischiano di seguirli nel prossimo anno.
Nessun settore sembra salvarsi.
Sono in crisi l´auto (ovviamente Fiat: 550.000 vetture prodotte in Italia nel 2010, un quarto rispetto a vent´anni fa) e l´aerospazio (vari siti di Alenia); la costruzione di grandi navi, di cui l´Italia fu leader mondiale (almeno sei siti di Fincantieri) e gli elettrodomestici (Merloni di Fabriano e Nocera Umbra); la microelettronica (ST-Microelectronics a Catania) e il trasporto navale di container (Mct di Gioia Tauro); la siderurgia (Ilva a Taranto) e la chimica (Montefibre a Venezia, Petrolchimico e Vinyls a Porto Torres). Si potrebbe continuare per un paio di pagine. Sono anche crisi, tutte, accompagnate da forti perdite di posti di lavoro nell´indotto e nei servizi, poiché è pur sempre l´industria il settore da cui proviene la maggior domanda di essi.
Di fronte a una simile realtà, ed alla inettitudine dimostrata al riguardo dal precedente governo, ci si poteva aspettare che il governo nuovo aprisse una robusta discussione con sindacati, industriali, manager, esperti del settore, per vedere se si trova il modo o di rilanciare rapidamente le industrie in crisi, o di svilupparne di nuove affinché assorbano il maggior numero di disoccupati presenti e futuri.
Invece no.
Il governo apre un tavolo di discussione per decidere quali riforme introdurre sul mercato del lavoro al fine di renderlo più flessibile. Ed i sindacati, anziché ribattere che il problema primo e vitale è quello di creare lavoro, accettano di discutere sul come riformare le norme d´ingresso e di uscita da un mercato che intanto rischia una contrazione senza precedenti. Il che equivale a chiedere all´orchestra, tutti insieme, di suonare il valzer preferito mentre la nave è in vista dell´iceberg che la porterà a fondo. Fondo che in questo caso si chiama una durissima recessione, con milioni di disoccupati di lunga durata.
Dinanzi a una simile disconnessione dalla realtà di ambedue le controparti non restano che due strade. Una è arcibattuta: se mai c´è stato in passato un frammento di evidenza empirica comprovante che una maggior flessibilità in uscita accresce il numero degli occupati, a causa della crisi economica in atto tale affermazione è ancora più illusoria.
Le imprese non assumono perché non ricevono ordinativi.
In molti casi è chiaro che è colpa loro. La grande cantieristica, per citare un caso paradigmatico, conta ancora nel mondo numerose società che producono ogni anno decine di navi d´ogni genere, dalle petroliere ecologiche ai trasporti adatti alle autostrade del mare. Non avendo saputo riconvertirsi, i cantieri di Fincantieri si ritrovano ora con zero commesse.
Davvero si può pensare che se gli facilitassero i licenziamenti individuali essi assumerebbero folle di lavoratori?
Un altro argomento che occorre pur ripetere è che il proposito di far assumere come lavoratori dipendenti un buon numero di precari è decisamente apprezzabile.
Ma se il contratto di breve durata che caratterizza le occupazioni atipiche si riproduce nell´area dei nuovi contratti perché questi implicano la possibilità di licenziare il nuovo assunto, anche senza giusta causa, per un periodo che addirittura supera di molto l´attuale durata media dei contratti atipici, la precarietà cambierà di pelle giuridica, ma resterà tal quale nella realtà.
Le imprese che in questi anni sono ricorse a milioni di contratti di breve durata in forza della legge 30/2003, allo scopo precipuo di adattare la forza lavoro in carico all´andamento degli ordinativi, useranno il periodo di prova, di apprendistato o come si voglia chiamarlo, lungo addirittura tre anni e più, per perseguire il medesimo scopo.
Duole dire che anche le proposte di un potenziamento degli ammortizzatori sociali, sponsorizzato in specie dal Pd, appare arretrato di fronte alla realtà della disoccupazione ed alle sue cause.
Certo, se si ritiene che non ci siano alternative, come diceva la signora Thatcher, meglio un sussidio che non la miseria.
Ma creare nuovi posti di lavoro in realtà non costerebbe molto di più, immaginazione politica ed economica aiutando.
E un lavoro stabile e remunerato intorno o poco sotto alla media salariale è una soluzione che molti preferirebbero rispetto a sette od ottocento euro di sussidio percepito magari per anni, ma senza la possibilità di ritrovare un lavoro. Oltre ad essere, in tema di difesa delle competenze professionali e della coesione sociale, assai più efficace.
Da La Repubblica del 05/01/2012.
Il laboratorio di calzature artigianali Calzarium e le scarpe per il Crazy Horse
Queste meraviglie calzaturiere sono state realizzate, a mano, dal laboratorio artigianale Calzarium, su progetto di Isabelle Chiarotti per le ballerine del Crazy Horse di Paris, Las Vegas, Singapore.
Il laboratorio di calzature si trova a Roma in via Morichini, 30 - tel. 06/ 44 24 1808
"Odio il Capodanno" di Antonio Gramsci
Odio il capodanno di A. Gramsci
Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.
Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.
Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa la film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.
Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.
(Antonio Gramsci, 1° Gennaio 1916 su l’Avanti!, edizione torinese, rubrica “Sotto la Mole”)
http://violapost.wordpress.com/2011/12/31/odio-il-capodanno/
Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.
Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.
Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa la film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.
Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.
(Antonio Gramsci, 1° Gennaio 1916 su l’Avanti!, edizione torinese, rubrica “Sotto la Mole”)
http://violapost.wordpress.com/2011/12/31/odio-il-capodanno/
Hai una missione da compiere: alzati e combatti.
Hai una missione da compiere: alzati e combatti.
"(...) C’è un mondo migliore da costruire e c’è un mucchio di cose impossibili da fare subito.
Quindi, se il mondo ama l’impossibile ti conviene capire che non c’è di peggio che morire rendendosi conto che potevi fare di tutto e non ci hai provato! E’ quello l’inferno. E ci sono dei diavoli carogne che ti buttano tutti i giorni giù da un grattacielo sopra un’istrice di pali di ferro roventi.
Quindi alzati e combatti. Se non fai niente rischi troppo."
di Jacopo Fo http://www.jacopofo.com/
"(...) C’è un mondo migliore da costruire e c’è un mucchio di cose impossibili da fare subito.
Quindi, se il mondo ama l’impossibile ti conviene capire che non c’è di peggio che morire rendendosi conto che potevi fare di tutto e non ci hai provato! E’ quello l’inferno. E ci sono dei diavoli carogne che ti buttano tutti i giorni giù da un grattacielo sopra un’istrice di pali di ferro roventi.
Quindi alzati e combatti. Se non fai niente rischi troppo."
di Jacopo Fo http://www.jacopofo.com/
Polverinicrazia, nuovi vitalizi e posti d’oro
Polverinicrazia, nuovi vitalizi e posti d’oro
in aziende esterne alla regione Lazio
La lista dei berlusconiani che rimase fuori dalle elezioni perché presentata in ritardo, andava sistemata. Per questo i sei non eletti sono stati collocati in aziende satelliti della Regione
Il pacco firmato Regione Lazio è complicato. La manovra dei vitalizi per assessori esterni e consiglieri decaduti nasconde tagli e tasse per 1,4 miliardi di euro. Come incartare i sacrifici (per i cittadini) con i privilegi (per i politici). Eppure il governatore Renata Polverini mette su il viso del dispiacere, quel senso di pudore nel chiedere euro ai cittadini, sempre e comunque ai cittadini: “Era l’unica possibile”. Già, mica poteva lasciare senza pensione la Giunta oppure i tre consiglieri del centrodestra transitati per sbaglio in Regione? Il regalo farà contento il sindaco Giovanni Di Giorgi che, nervosamente, deve scegliere la poltrona giusta: resta nel Consiglio laziale o si dedica al comune di Latina? Un dilemma e un sollievo: qualsiasi decisione prenda Di Giorgi, il vitalizio è garantito a 50 anni con una riduzione del 5 per cento, a 55 al 100 per cento.
Nessun dubbio, però, sui rincari: aumentano le imposte (+ 0, 33 % Irpef), la benzina con un’accisa inedita (20 centesimi al litro), il bollo per l’automobile (+ 10 %). Mentre calano i fondi per il sociale e le opere pubbliche (-100 milioni di euro). Com’era? “L’unica manovra possibile”. Peccato che il centrosinistra suggeriva al Governatore di vietare un mal costume tipico di una regione grossa, indebitata e spendacciona: un dirigente pubblico deve rispettare un tetto massimo di stipendio senza cumulare l’incarico in corso con il vitalizio regionale. Non conosciamo la risposta perché l’ex sindacalista si è rifiutata di rispondere ai partiti di opposizione: rischiava di bombardare l’alleanza con il Pdl che si regge sui favori reciproci e il potere condiviso.
Il mandato Polverini ha un difetto di nascita: la lista dei berlusconiani rimase fuori perché presentata in ritardo, e dunque i cacicchi locali, non eletti, andavano sistemati. Quelli che sommano lo stipendio pubblico con il vitalizio già maturato in banca o in tasca. Ecco i sei candidati trombati in partenza e ora, momentaneamente, occupati in aziende satelliti della Regione Lazio. C’è l’imprenditore Luigi Celori, 54 anni, a spasso con una rendita di tre legislature: è stato nominato presidente di Autostrade del Lazio, superati mesi di inattività politica. C’è Tommaso Luzzi, 61 anni, per 15 anni in Regione: si è accontentato di Astral, una società che pulisce e asfalta le tangenziali e i raccordi. C’è il socialista Donato Robilotta, 56 anni, commissario straordinario di Ipab Sant’Alessio, un centro per ciechi che gestiva un imponente patrimonio immobiliare. C’è Bruno Prestagiovanni, 54 anni, commissario straordinario di Ater Roma, un carrozzone che assegna le case pubbliche. C’è Massimiliano Maselli, 44 anni, presidente di Sviluppo Lazio, dove transitano bandi di gara e studi scientifici. C’è Erder Mazzocchi, 43 anni, commissario straordinario di Arsial, l’agenzia regionale per l’agricoltura.
I magnifici sei incassano un degno e meritato stipendio pubblico, servono serenamente le istituzioni sapendo di incassare (in futuro o adesso) un sostanzioso vitalizio. I magnifici sei, soprattutto, assicurano l’esistenza politica di Renata Polverini. Al traguardo di una serie di nomi e scrivanie, fra le proteste cestinate e negate, c’è un’ultima idea che i partiti di opposizione hanno presentato al governatore: perché confermare il rimborso chilometrico per i consiglieri? Vi può suonare stonato, ma i rappresentanti laziali, se abitano a 15 chilometri dal palazzo regionale, recuperano un quinto di un pieno di benzina. I 71 consiglieri laziali vengono pagati per il mandato in Regione (indennità), per essere presenti in aula (diaria), per raggiungere il palazzo (rimborso), per presiedere o partecipare in commissione (e sono venti). Però, va detto che la Polverini ci ha provato. Voleva fare una manovra con meno tasse ai cittadini e più tagli ai politici. Il Governatore ha deluso i cronisti che speravano in un ripensamento sui vitalizi: “Niente passo indietro. Da due giorni siamo in linea con le altre Regioni. Avevamo una discriminazione che colpiva solo i nostri assessori esterni, abbiamo messo le cose a posto”. E il Codacons che fa ricorso contro la manovra? “Che devo fare?”, ha risposto la Polverini. Se sapesse cosa fare, sarebbe il governatore del Lazio che toglie ai ricchi e dà ai poveri, non viceversa. O forse, caspita, è proprio lei?
da Il Fatto Quotidiano del 24 dicembre 2011
in aziende esterne alla regione Lazio
La lista dei berlusconiani che rimase fuori dalle elezioni perché presentata in ritardo, andava sistemata. Per questo i sei non eletti sono stati collocati in aziende satelliti della Regione
Il pacco firmato Regione Lazio è complicato. La manovra dei vitalizi per assessori esterni e consiglieri decaduti nasconde tagli e tasse per 1,4 miliardi di euro. Come incartare i sacrifici (per i cittadini) con i privilegi (per i politici). Eppure il governatore Renata Polverini mette su il viso del dispiacere, quel senso di pudore nel chiedere euro ai cittadini, sempre e comunque ai cittadini: “Era l’unica possibile”. Già, mica poteva lasciare senza pensione la Giunta oppure i tre consiglieri del centrodestra transitati per sbaglio in Regione? Il regalo farà contento il sindaco Giovanni Di Giorgi che, nervosamente, deve scegliere la poltrona giusta: resta nel Consiglio laziale o si dedica al comune di Latina? Un dilemma e un sollievo: qualsiasi decisione prenda Di Giorgi, il vitalizio è garantito a 50 anni con una riduzione del 5 per cento, a 55 al 100 per cento.
Nessun dubbio, però, sui rincari: aumentano le imposte (+ 0, 33 % Irpef), la benzina con un’accisa inedita (20 centesimi al litro), il bollo per l’automobile (+ 10 %). Mentre calano i fondi per il sociale e le opere pubbliche (-100 milioni di euro). Com’era? “L’unica manovra possibile”. Peccato che il centrosinistra suggeriva al Governatore di vietare un mal costume tipico di una regione grossa, indebitata e spendacciona: un dirigente pubblico deve rispettare un tetto massimo di stipendio senza cumulare l’incarico in corso con il vitalizio regionale. Non conosciamo la risposta perché l’ex sindacalista si è rifiutata di rispondere ai partiti di opposizione: rischiava di bombardare l’alleanza con il Pdl che si regge sui favori reciproci e il potere condiviso.
Il mandato Polverini ha un difetto di nascita: la lista dei berlusconiani rimase fuori perché presentata in ritardo, e dunque i cacicchi locali, non eletti, andavano sistemati. Quelli che sommano lo stipendio pubblico con il vitalizio già maturato in banca o in tasca. Ecco i sei candidati trombati in partenza e ora, momentaneamente, occupati in aziende satelliti della Regione Lazio. C’è l’imprenditore Luigi Celori, 54 anni, a spasso con una rendita di tre legislature: è stato nominato presidente di Autostrade del Lazio, superati mesi di inattività politica. C’è Tommaso Luzzi, 61 anni, per 15 anni in Regione: si è accontentato di Astral, una società che pulisce e asfalta le tangenziali e i raccordi. C’è il socialista Donato Robilotta, 56 anni, commissario straordinario di Ipab Sant’Alessio, un centro per ciechi che gestiva un imponente patrimonio immobiliare. C’è Bruno Prestagiovanni, 54 anni, commissario straordinario di Ater Roma, un carrozzone che assegna le case pubbliche. C’è Massimiliano Maselli, 44 anni, presidente di Sviluppo Lazio, dove transitano bandi di gara e studi scientifici. C’è Erder Mazzocchi, 43 anni, commissario straordinario di Arsial, l’agenzia regionale per l’agricoltura.
I magnifici sei incassano un degno e meritato stipendio pubblico, servono serenamente le istituzioni sapendo di incassare (in futuro o adesso) un sostanzioso vitalizio. I magnifici sei, soprattutto, assicurano l’esistenza politica di Renata Polverini. Al traguardo di una serie di nomi e scrivanie, fra le proteste cestinate e negate, c’è un’ultima idea che i partiti di opposizione hanno presentato al governatore: perché confermare il rimborso chilometrico per i consiglieri? Vi può suonare stonato, ma i rappresentanti laziali, se abitano a 15 chilometri dal palazzo regionale, recuperano un quinto di un pieno di benzina. I 71 consiglieri laziali vengono pagati per il mandato in Regione (indennità), per essere presenti in aula (diaria), per raggiungere il palazzo (rimborso), per presiedere o partecipare in commissione (e sono venti). Però, va detto che la Polverini ci ha provato. Voleva fare una manovra con meno tasse ai cittadini e più tagli ai politici. Il Governatore ha deluso i cronisti che speravano in un ripensamento sui vitalizi: “Niente passo indietro. Da due giorni siamo in linea con le altre Regioni. Avevamo una discriminazione che colpiva solo i nostri assessori esterni, abbiamo messo le cose a posto”. E il Codacons che fa ricorso contro la manovra? “Che devo fare?”, ha risposto la Polverini. Se sapesse cosa fare, sarebbe il governatore del Lazio che toglie ai ricchi e dà ai poveri, non viceversa. O forse, caspita, è proprio lei?
da Il Fatto Quotidiano del 24 dicembre 2011
Iscriviti a:
Post (Atom)