Alaia: i giovani escono dalle scuole e vogliono essere subito grandi

da: http://www.corriere.it/moda/news/15_giugno_19/alaia-giovani-escono-scuole-vogliono-essere-subito-grandi-1bff62ce-16ac-11e5-9531-d169a57fe795.shtml

Azzedine Alaïa, tunisino di nascita, francese di vita, classe 1940, stilista fra i più venerati al mondo, restìo ad apparire, figurarsi a parlare, preferisce da sempre esprimersi con i suoi abiti che raccontano di curve e dolcezze, di materia e spazio, di rispetto e bellezza. E di tempo che non passa.
di Paola Pollo
Non è dunque strano se a luglio saranno alla Galleria Borghese, fra le meraviglie del Bernini e del Canova, 80 pezzi «adattati», come dice lui. «Saranno grandi come le statue. Ma mai invadenti e invasivi: la gente è li per vedere le opere d’arte, non i miei abiti!». Eppure quando attraversa corso Como, a Milano, qualche ora prima di presentare il suo nuovo profumo, più di una persona bisbiglia: «Guarda c’è Alaïa!».
Non si è mai pentito di aver scelto la strada della discrezione? Sfilate fuori dai circuiti, niente pubblicità e rare apparizioni?
«Non tornerei indietro».
Fare moda oggi è?
«Qualcosa di diverso da un tempo. I ritmi sono disumani, ci sono troppe collezioni. E personalmente non ne vedo l’utilità. E poi i prezzi sono esorbitanti. A volte vado nelle boutique e quando giro i cartellini non ci posso credere! Penso sempre a quella ragazza che compererà quell’abito e che dovrà avere un budget incredibile e uno stipendio altrettanto enorme».
Sta dicendo che la moda è tutta un bluff?
«No, quello no. Semplicemente ha un ritmo inutilmente frenetico a causa delle esigenze industriali. Io ho un po’ di libertà, io rispetto gli altri e le esigenze, ma contesto questo sistemo e ne sono uscito».
Spesso a Parigi la si vede in prima fila dai colleghi: ci sono artisti, le star, i business man...Le piacciono insomma i nuovi designer?
Ride. «Non va forse così il mondo? la gente si adatta. Io preferisco il mio studio, che credo sia il più piccolo al mondo, con due soli assistenti».
La sua giornata?
«Dormo poco, 4-5 ore. E lavoro sempre. Non è una corvè per me. Io mi diverto. E ho incontrato e incontro sempre gente meravigliosa».
Lei dice sempre che il mondo è «troppo» pieno di vestiti
«Tutti i giorni, ovunque, si aprono boutique: le pasticcerie diventano boutique, le panetterie diventano boutique, i fioristi diventano boutique, ma è anche vero che ci sono tanti stoccheristi! D’altronde non si lascia neppure il tempo alla gente di scegliere e acquistare. Dopo una collezione, subito un’altra. E cosa succede? Che una camicia che ho disegnato nel 2005 e che allora nessun acquistò, quest’anno è stata venduta e venduta. Lasciamo il tempo alle donne di scegliere e alla moda di essere scelta. Non si può spingere la gente a consumare».
All’orizzonte che c’è?
«È difficile per un giovane, da solo, andare avanti. Ma escono dalle scuole e vogliono essere subito grandi».
Colpa dei maestri?
«Non credo. Sono le industrie che spingono perché diventino subito delle star... ma senza passione. Ma capisco e non voglio dare consigli né tantomeno invitare i giovani a seguire il mio cammino».
Perché no? Diventare Azzedine Alaïa è il sogno di tanti.
«Quando ho cominciato non mi sentivo un immortale. Avevo la mia maison, vestivo le donne ed ero contento. Adesso nessuno ha voglia di aspettare, arrivano in un atelier e dopo poco pretendono il ruolo principale: è pericoloso e poi i posti sono pochi».
Una maison deve sempre sopravvivere al fondatore?
«Io penso che sarebbe meglio si fermasse. E che i giovani cominciassero altre storie, con il proprio nome. Credo oltretutto che sia anche meno caro e più stimolante. Ora per esempio ho sentito dire che qualcuno vuole riprendere il nome di Poiret: ma che bêtise! Non devono».
Lei non ha allievi?
«Vengono. Ma non credo sia bene insegnare la moda, più giusto però imparare a vivere».
Lei sembra odiare il business, però è un uomo di business!
«Per forza, seguo tutto. Dal profumo agli accessori: non mi piace che la gente metta il mio nome su ciò che non conosco».
Moda e tecnologia?
«Fantastica, ma non guardo Internet per ispirarmi mi basta la mia amica-sorella Carla Sozzani».

Quelle leggi mai attuate simbolo di malgoverno


da: http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2015/06/15/news/palazzo_europa-116952815/
Ogni Paese ha i suoi paradossi. Un paradosso tutto italiano è contenuto nel rapporto della Commissione europea sul nostro Paese per il 2015.
 Esso recita così: l'inefficienza della pubblica amministrazione italiana è una delle principali cause della bassa produttività e della bassa crescita del Paese, ma è anche il principale ostacolo ai numerosi tentativi fatti da governi successivi di riformare la pubblica amministrazione. 
Secondo il rapporto, «a metà febbraio 2015, 348 provvedimenti esecutivi che derivano da norme adottate dai governi Monti e Letta sono ancora in attesa di adozione.
 Inoltre 401 misure che derivano dalla legislazione del governo Renzi già pubblicata sulla Gazzetta ufficiale sono ancora in attesa di essere messe in pratica». 
La Commissione europea punta il dito su molti fattori di penalizzazione dell'inefficienza amministrativa: dalla lunghezza degli adempimenti burocratici per aprire un'azienda, alla difficoltà di pagare le tasse; dallo scarsissimo uso di Internet da parte della pubblica amministrazione, alla lentezza della giustizia civile oberata da una mole di arretrati. 
Ma forse, in tempi di Mafia Capitale, la cosa più interessante è la parte dedicata al malgoverno pubblico. «La debolezza della pubblica amministrazione in Italia - è scritto nel rapporto - comprende mancato rispetto delle competenze, mancanza di trasparenza e clientelismo». E la Commissione rinvia allo «European Quality of Government Index», uno studio fatto da Bruxelles che nella sua ultima edizione, del 2013, offre un quadro desolante della qualità della governance pubblica in Italia.
 Dall'indagine risulta che sei regioni italiane, Lazio, Molise, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, hanno il più basso indice di qualità dell'amministrazione pubblica in Europa, a livelli condivisi solo dalle peggiori regioni di Romania, Bulgaria e Turchia.
 Liguria, Abruzzo, Basilicata e Sardegna sono molto al di sotto della media europea. Lombardia, Piemonte, Toscana, Umbria e Marche sono nettamente al di sotto. Veneto ed Emilia sono leggermente al di sotto. Solo Friuli, Valle d'Aosta e Trentino Alto Adige registrano livelli di qualità della pubblica amministrazione che sono invece la norma in Francia, Germania, Gran Bretagna, Austria e Belgio mentre Olanda, Danimarca, Svezia e Finlandia hanno su tutto il loro territorio i massimi livelli di efficienza registrati in Europa. Difficile immaginare che, dal 2013, le cose siano significativamente migliorate. 

Once in Rome, do as the the Romans do!

Maybe you are visiting the eternal city.

And maybe you are really weary of traffic jam, of beautiful but tiring tourism.

And you just want to relax, to free your soul and breathe.

And maybe laugh too so that lots of energy returns in your body.

In the heart of Trastevere, in Via della Luce, 32, there's a Cultural Association, called Gioia Pura, that organizes lots of activities: from laughter yoga to Gibberish conversations, from workshops to free your soul to Reiki sessions and much more.

Just one hour of Laughter Yoga and you'll feel so good that you can climb mountains.

L'origine della crisi? Vedi alla voce "delocalizzazione"

di Riccardo Staglianò 
dahttp://stagliano.blogautore.repubblica.it/

Non hai lavoro. Se ce l'hai, non guadagni abbastanza. Eppure una volta tuo padre, che faceva il tuo stesso mestiere, possedeva una bella casetta e vi portava regolarmente al ristorante e in settimana bianca. «È cambiato il mondo» commenta qualcuno, scuotendo la testa. Con la stessa ineluttabilità che si sfodererebbe davanti a un terremoto. Sì, ma non è successo da solo. E soprattutto non è andata così per tutti se quel tipo che conoscevi con una Porsche ora ha anche due Ferrari. Bisogna passare dalla constatazione (amara, amareggiante, complessivamente inutile) alla domanda (complessa, ma a questo punto ineludibile) che pone, già dal titolo, lo storico Ignazio Masulli nel suo Chi ha cambiato il mondo? (Laterza, pag. 254, e. 18). Perché poteva andare diversamente. La «ristrutturazione tardo-capitalista» in atto dagli anni 70 ad oggi poteva avere esiti diversi, anche opposti. Aumentare l'eguaglianza, come nel dopoguerra, invece che esasperare la disuguaglianza, come nell'800 rievocato dal bestseller di Piketty. Nel determinare la destinazione la scelta della strada non è mai un dettaglio. Noi – l'occidente industrializzato – abbiamo apparentemente imboccato tutte quelle sbagliate, scambiandole per scorciatoie. Verso il precipizio.
L'economia ha cominciato a cambiare strutturalmente a metà anni 70. Ma la causa principale, lei sostiene, non è stata lo shock petrolifero del '73 quanto una «crisi di valorizzazione del capitale». Ci spiega meglio?Significa che si era arrivati a un punto di saturazione del capitalismo dei consumi. Tv, elettrodomestici, auto: se ne erano venduti sin troppi. Ed esportarli nei Paesi meno sviluppati all'epoca era impraticabile. Ciò provocò un calo dei profitti per gli industriali. Ovvero: a parità di capitale investito, l'investitore realizzava un profitto minore. Questo era il problema cui dare risposte. C'era una soluzione difficile ma duratura e una facile. La prima sarebbe stata innovare radicalmente, investire in tecnologie e offrire prodotti nuovi. Era la strada maestra, ma non fu presa.

Si preferirono tre scorciatoie. La prima è la delocalizzazione. In pratica, cosa cambiò?I profitti calano? La risposta più ovvia è tagliare i costi. Per farlo si andò a cercare dove la manodopera costava meno. Il rapporto tra la retribuzione media di un lavoratore cinese rispetto a uno statunitense resta oggi di 396 dollari al mese contro 2970. In aggiunta a questa disuguaglianza tra Paesi, c'era anche quella interna, tra gente di città e gente di campagna, abituata a standard ancora più bassi e che continua a costituire una riserva inesauribile di manodopera low cost.

Lei ha calcolato in dettaglio l'entità di questi investimenti diretti all'estero. Di che cifre parliamo?Enormi. La loro crescita, soprattutto, fu impressionante. Nel 1980 la Francia investiva all'estero (in attività produttive durevoli che creino posti di lavoro) somme pari al 3,6 per cento del suo Pil. Nel 2012 erano oltre la metà (57 per cento) della ricchezza del paese. La virtuosa Germania è passata, nello stesso intervallo, dal 4,7 al 45,6 per cento. Mentre la Gran Bretagna è schizzata dal 14,8 al 62,5. Noi abbiamo registrato una moltiplicazione di quasi venti volte: dall’1,6 al 28 per cento.

È possibile calcolare quanti posti di lavoro sono andati perduti delocalizzando così massicciamente?Io l'ho fatto applicando la legge di Okun (dall'economista che la propose nel '62) per la quale a ogni punto in meno di disoccupazione il Pil cresce di 2-3 punti. Immaginando che quella ricchezza fosse rimasta in Francia, sarebbe equivalsa a circa 5,9 milioni di posti di lavoro potenziali. In Germania 7,3 mentre in Italia i 475 miliardi di dollari spesi fuori sarebbero potuti trasformarsi in 2,6 milioni di posti di lavoro. Non è un caso che quasi tutti i paesi che hanno fatto largo ricorso all'outsourcing siano stati scavalcati nelle classifiche internazionali».

Paradossalmente la delocalizzazione, invece di arrestarla, ha anche moltiplicato l'emigrazione...
Quel modello di produzione si è avvantaggiato delle vecchie contraddizioni nei paesi di destinazione, acuendole. Per i cinesi di campagna non è stato facile trasferirsi in città e lavorare alle condizioni imposte dai committenti stranieri. A quel punto però, fatto il primo salto, è stato più naturale fare anche il secondo e trasferirisi direttamente nei paesi dei committenti, dove guadagnare meglio. Così si è passati da poco o niente ai 7 milioni di immigrati in Francia e Gran Bretagna, i 10 in Germania e i 5 in Italia.

Il secondo importante fattore della ristrutturazione che lei cita è l'automazione. È un solito sospetto dai tempi della prima rivoluzione industriale: cosa sarebbe cambiato stavolta?Che le macchine, grazie al software, hanno incorporato il programma con le istruzioni che la fanno funzionare. Quindi sempre meno bisogno di interventi esterni (più economiche) e sempre maggior autonomia. Prima i robot sostituivano i colletti blu (che magari si riciclavano nei servizi), ora l'algoritmo sostituisce i colletti bianchi, e non c'è più rifugio. Storia ed economia, scienze inesatte, non hanno capacità predittive. Però l'automazione attuale procede a un ritmo inedito che sta innescando un dibattito sempre più preoccupato anche tra gli addetti ai lavori.

Il terzo responsabile è la finanza. Cosa succede e perché?Risparmiando con cinesi e robot si è ridotto l'effetto del crollo dei profitti, ma non si è invertita la tendenza. Ormai sembra che il valore di un'industria dipenda meno dalla qualità del prodotto che dall'immagine finanziaria che è capace di proiettare. Se procedi a ristrutturazioni, con tagli drastici della manodopera, il mercato ti premia. Anche le imprese non finanziarie hanno introiettato questa attitudine.

Spinte dai fondi pensione e dalle grandi assicurazioni?
Sì. Questi enormi raccoglitori di denaro che dovevano garantire una vecchiaia serena ai lavoratori sono diventati sempre più aggressivi. Non gli bastavano più gli interessi declinanti generati dalla manifattura, volevano quelli a due cifre della finanza. Ci hanno investito e convinto anche i consigli di amministrazione che controllavano a farlo. Una volta una banca concedeva un mutuo e intascava gli interessi. Poi ha messo insieme tanti mutui, li ha cartolarizzati, impacchettandoli in prodotti finanziari nuovi e pericolosi, che rivendeva subito sul mercato. Nel 2007 il capitale finanziario valeva 240 trilioni di dollari, ovvero più di quattro volte il Pil mondiale. Un fanta-denaro che, a differenza della finanza delle origini, non serviva a trovare risorse per la produzione ma a far arricchire i già ricchi che potevano permettersi di giocare a quel casinò.
Ecco chi ha cambiato il mondo, negli ultimi quarant'anni. Tra le tante vittime, fa eccezione la Germania. «Ha delocalizzato, sì, però mantenendo una politica industriale e investendo in ricerca e sviluppo. Predica l'austerity per gli altri ma mantiene un welfare robusto. Già dalla Costituzione del '52 prevedeva nelle aziende commissioni paritetiche datori-lavoratori». Ci sono ancora. Da quelle parti hanno chiara la distinzione tra diritti e privilegi. E di avviare i primi a una carriera di modernariato, nonostante la moda del momento, proprio non se ne parla.

COSA DICONO DAVVERO I DATI ISTAT SULLA RIPRESA

da: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/05/30/cosa-dicono-davvero-i-dati-istat-sulla-ripresa29.html?ref=search

di Alberto Bisin

IL PAESE ha finalmente ripreso a crescere; il timore della deflazione è finito. I titoli dei giornali si sprecano, ed è giusto che sia così. Il Paese ha bisogno di buone notizie e la pubblicazione dei conti economici trimestrali da parte dell'Istat permette un qualche ottimismo. Persino il Financial Times titola, "L'Italia torna in piedi". La notizia del ritorno alla crescita mette in secondo piano addirittura le previsioni di tracollo definitivo della Grecia che in questi giorni hanno innervosito non poco i mercati, così come i timori di scoppio della presunta bolla sull'azionario in Cina.
Commentare queste notizie per un economista è sempre compito ingrato. Se il rapido ciclo delle notizie rende i giornali inclini a concentrarsi sui dati congiunturali, una prospettiva più analitica non può che soffermarsi con maggiore attenzione sulle tendenze di crescita dell'economia e quindi sulle indicazioni che le diverse componenti dei dati congiunturali permettono di trarre sulla situazione economica generale. Da questo punto di vista i dati Istat vanno purtroppo letti in modo meno trionfale di quanto non vorremmo fare.
Innanzitutto la crescita del Pil nel primo trimestre 2015 è stata dello 0,1% rispetto allo stesso trimestre dell'anno precedente (questa è la cosiddetta "crescita tendenziale"). Non è molto se confrontata all'1% della Germania, al 3% degli Stati Uniti, al 2,4% del Regno Unito e anche allo 0,7% della Francia. Il risultato è ancora peggiore se si tiene conto che la crisi ha colpito il nostro paese più severamente di questi altri e che quindi sarebbe naturale aspettarsi un effetto "rimbalzo" più pronunciato in Italia. L'immagine che meglio riassume la situazione economica del Paese purtroppo è quella della crescita cumulata del Pil negli ultimi 15 anni. Se il Regno Unito è cresciuto di circa il 30% e l'Eurozona di circa il 15%, l'Italia è rimasta al palo. Zero. Questo è il risultato di una combinazione di tre fattori: una minore crescita fino al 2008, una recessione più profonda fino al 2013, e una ripresa più tarda e più lenta da allora.
Una lettura più ottimistica dei nuovi dati Istat è però chiaramente possibile. I dati sulla crescita tendenziale in Italia patiscono il ritardo della ripresa, che ha notevolmente faticato negli ultimi tre trimestri del 2014. I dati di "crescita congiunturale", relativi cioè all'ultimo trimestre, sono invece più favorevoli, sia in assoluto che relativamente agli altri paesi. L'Italia cresce dello 0,3%, come la Germania e il Regno Unito, e più degli Stati Uniti. Questi sono i dati che potrebbero farci pensare di aver svoltato l'angolo. Difficile a dirsi naturalmente: estrapolare da un trimestre in controtendenza è operazione statisticamente suicida che evito con piacere. Ma un'occhiata ai dati disaggregati è utile per cercare di farsi un'idea più precisa di cosa stia succedendo.
Innanzitutto la crescita del primo trimestre del 2015 è dovuta in misura sostanziale alla crescita degli investimenti fissi lordi e delle scorte, senza un contributo positivo dei consumi finali nazionali. La spesa delle famiglie è leggermente diminuita e quella della Pubblica Amministrazione è aumentata in pari entità percentuale. Questo non è un buon segno naturalmente, nel senso che una solida ripresa dopo una recessione è associata tipicamente ad una rinnovata fiducia dei consumatori e quindi ad una ripresa dei consumi assieme a quella degli investimenti. Anche il fatto che cresca l'Agricoltura e non i Servizi non è un buon presagio: è nei Servizi che si nascondono le maggiori opportunità di sviluppo di una economia moderna e avanzata come la nostra. Anche a "nutrire il pianeta" e produrre "energia per la vita" si arriva attraverso innovazione e tecnologia, è lì che si genera crescita.
Ma il dato più rilevante, non so dire se allarmante, è che la crescita congiunturale degli investimenti si è manifestata in larga parte nel settore Mezzi di trasporto. Sarà anche vero che quando va bene la Fiat va bene il Paese, ma una crescita più omogenea tra settori avrebbe indicato più nettamente una ripresa in atto.
Infine, è necessario anche ridimensionare i commenti sulla fine della deflazione. L'inversione di tendenza dei prezzi è dovuta in parte sostanziale al fatto che il calo dei prezzi dei beni energetici abbia rallentato notevolmente. Il deflatore della spesa delle famiglie residenti e quello degli investimenti sono calati ma non direi in modo preoccupante. La notizia rilevante riguardo ai prezzi è quindi che possibili tendenze deflattive continuino a non manifestarsi.
Riassumo quindi, per chi si fosse perso nella noiosa ma inevitabile analisi dei dati. A costo di apparire Cassandra, come spesso accade agli economisti che discutono della situazione economica del nostro Paese, i dati dell'Istat sono meno positivi di quanto non possa sembrare. Vi sono pochi dubbi che la ripresa, ammesso che sia iniziata, rimanga debole e fragile. E certo, meglio che niente, ma uno 0.1%, o 0,3% che dir si voglia, non ha un gran potere taumaturgico di per sé.

PERCHÉ VANNO ABOLITE LE REGIONI

PERCHÉ VANNO ABOLITE LE REGIONI NON SOLO SPRECHI E "MUTANDE VERDI": NEI REGNI DEI PRESIDENTI VICERÉ LE TASSE SONO ALTISSIME E I CONTROLLI IMPOSSIBILI
di Carlo Di Foggia

da:http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/29/edicola-sabato-30-maggio-de-luca-impresentabile-guerra-pd-antimafia/1732132/

Too big to fail, troppo grandi per fallire, ma anche troppo grandi per essere governate bene. Il primo dicembre del 2013 Stefano Caldoro, presidente della Campania ora in corsa per la riconferma, mise a verbale quanto segue: "Le Regioni vanno abolite, sono mesi che lo diciamo: la Costituzione non voleva farne dei mini-Stati. Si potrebbe iniziare con lo svuotarle". Il 2 marzo scorso, a 58 giorni dalle elezioni di domenica, invece, la sua Giunta firma in un solo giorno una raffica di delibere che fanno piovere 23,6 milioni di euro - fondi europei co-finanziati dallo Stato - in decine di piccoli comuni: 1,3 milioni per la "fruizione turistica" del territorio di Riardo, nel Casertano; due per la fogna sotto via Torquato Tasso a Sant'Antimo; 800 mila euro per i versanti in frana di Valfortore etc. Cosa c'entrano i fondi Ue con tutto questo? Poco o nulla. La Regione l'ha chiamata "accelerazione della spesa", per i consiglieri d'opposizione è il nuovo nome delle mancia pre-elettorale: in tutto "l'accelerazione" riguarda 1700 progetti che vanno dalle "vie dell'Expo" alle emittenti locali che sono passate al digitale, dai campi da basket fino ai corsi di guida sicura ad Avellino. 

C'è di tutto, ma Caldoro è in buona compagnia. Luca Zaia, presidente leghista del Veneto in corsa per il secondo mandato, ha destinato 50 milioni per le sagre più disparate. Claudio Burlando, governatore uscente della Liguria, ha firmato questa settimana l'accordo che destina 140 milioni per il nuovo ospedale di La Spezia, atteso da decenni, e a febbraio - ha rivelato l'Espresso - 51 milioni sono andati alle fondamenta del "Galliera Bis", il nuovo ospedale di Genova presieduto dall'arcivescovo Angelo Bagnasco. Magari non c'entra, ma quando la candidata Pd alla presidenza della Regione, Raffaella Paita, delfino di Burlando, si è vista recapitare un avviso di garanzia, Bagnasco non l'ha presa bene: "Chissà perché certe indagini esplodono in certe ore e in certi momenti". Indagati, spese pazze, stipendi e rimborsi. 

Da tempo, più o meno dalle mutande verdi di Roberto Cota, ex governatore del Piemonte, il quesito fondamentale non è più un tabù: e se al posto delle province, trasformate in zombie, ci si fosse concentrati sulle Regioni? Argomenti anti-casta non mancano: dalla gestione della Sanità di Roberto Formigoni in Lombardia alle mutandine di pizzo e al cibo per gatti rimborsati dai liguri; dai manuali erotici nelle Marche ai vibratori in Emilia-Romagna, fino ai consiglieri toscani che si facevano pagare le interviste

Negli ultimi tre anni - racconta Goffedo Buccini nel suo Governatori, così le Regioni hanno devastato l'Italia - sono stati almeno 300 i consiglieri regionali inquisiti. 

Poi c'è il tema madre: i costi della politica. Le Regioni danno lavoro a 1356 politici, per un costo di macchina complessivo - ha stimato l'economista Roberto Perotti, ora consigliere di Palazzo Chigi per la spending review - di 958 milioni di euro. Qui dentro ci sono pure i rimborsi elettorali. Quelli che nel solo 2013 hanno portato 29,39 milioni di euro nelle casse dei gruppi consiliari. Il Molise, a fronte di una popolazione di poco più di 300mila persone, ha sborsato 934mila euro, 3 euro a cittadino. Fare politica costa, si dirà, eppure non una sola volta le spese accertate sono state pari ai rimborsi portati a casa: stando ai dati di Openpolis, nel '95 il guadagno netto sfiorò i 22 milioni di euro, saliti a 57 nel 2000 e a 147 nel 2005, per attestarsi ai 56 milioni dell'ultima tornata elettorale. Un affare da 300 milioni in vent'anni. "Non si può impedire che vengano usati per clientelismo - ha spiegato Perotti - Vanno tolti e va dimezzato il numero dei consiglieri". Eravamo nel 2013, nessuno ci è mai riuscito, neanche Carlo Cottarelli. L'ex supercommissario rispedito al Fmi nell'ottobre scorso, stimò un risparmio di 300 milioni solo applicando i costi standard almeno agli apparati regionali. Per i consiglieri l'indennità media è di "900 mila euro, ma Lazio, Calabria e Sicilia spendono più di 1,5 milioni, mentre Molise e Marche sono attorno ai 500 mila", si legge nel dossier sui costi della politica. In media, fanno più o meno 200 mila euro l'anno. 

Niente da fare anche qui. E il motivo è semplice: i compensi dei consiglieri regionali li decide la Regione, cioè i consiglieri stessi, non è cosi per Comuni e Province, dove si rischia l'accusa di danno erariale. L'autonomia senza freni genera mostri (e tasse). Costituzione e statuti speciali permettono ai governatori di stabilire tributi propri, incassare i trasferimenti dallo Stato e una quota-parte delle imposte statali. Così succede che alzino le tasse senza controllo, né sanzioni. Anzi, quando i deficit esplodono, come nella sanità, vengono perfino nominati commissari. 

E il federalismo fiscale, la panacea di tutti i mali? Non pervenuto. Nel suo La finanza pubblica in Italia. Rapporto2013 (il Mulino), l'economista Alberto Zanardi, consigliere dell'Ufficio parlamentare di Bilancio, ha provato a individuare i colpevoli della morte silenziosa della più sbandierata delle riforme berlusconiane, avviata nel 2009: l'inerzia della politica e i tagli feroci imposti a partire dalle manovre dell'estate 2011 e poi continuate dal governo Monti che "ne hanno sgonfiato la consistenza finanziaria". Gran parte della riforma semplicemente è morta prima ancora di nascere. È il caso della "fiscalizzazione" dei trasferimenti dello Stato. L'idea era quella di cancellarli in buona parte, delegando alle amministrazioni decentrate funzioni e tributi, ma garantendo un gettito equivalente: "II decreto che avrebbe dovuto farlo non è stato adottato", ha spiegato Zanardi. Non esiste neanche "un censimento dei Lep, i Livelli essenziali delle prestazioni, ne i costi applicati nei diversi settori di intervento pubblico fuori dalla sanità". Il federalismo prevedeva poi l'invarianza della pressione fiscale: se aumenta l'addizionale Irpef locale, deve scendere quella nazionale. "Purtroppo non si trovano tracce di questa compensazione", ha spiegato l'anno scorso il presidente della Corte dei conti, Raffaele Squitieri. Solo tra il 2011 e il 2012, secondo uno studio della Bocconi, i cittadini hanno sborsato 5 miliardi di tributi locali, aumentati dalle Regioni per evitare di sforare i conti della sanità, peraltro senza riuscirci. Negli ultimi cinque anni, i presidenti hanno dovuto rinunciare a 13 miliardi, coperti facendo schizzare verso l'alto le addizionali: esordirono nel '98 con lo 0,5 per cento, ora possono arrivare al 3,33 per cento (è il caso del Piemonte). Risultato? Nel 2014 il gettito complessivo ha toccato i 10,9 miliardi (erano 2,4 miliardi a fine anni Novanta, in 15 anni l'aumento è stato del 350 per cento). Senza la possibilità di applicare economie di scala, le grandi dimensioni moltiplicano sprechi e inefficienze. Bilanci creativi e buchi reali "Vinceremo le elezioni regionali per abolire le Regioni", promette ora Beppe Grillo. Vasto programma in un macrocosmo pullulato da presidenti Viceré, a cui ogni cosa è concessa. Regioni che possono tutto. Perfino scrivere il bilancio in base a regole che si sono scelte da sole, al di là di qualunque controllo esterno. Possibile? Il 27 novembre, davanti alla commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale, la Corte dei conti ha reso noto il primo bilancio delle verifiche effettuate sui conti dei governatori - grazie a una norma dell'ottobre 2012 - per "armonizzarli", cioè renderli credibili. Ad oggi, però, la situazione è che ogni regione fa quello che gli pare. Solo alcuni esempi. Nel bilancio della Liguria - si legge nella relazione della magistratura contabile - ci sono 91 milioni di "residui attivi" (crediti, in realtà inesigibili) sui poco più di 100 incassati a suo tempo cedendo gli immobili delle Asl all'Arte (l'ente regionale che gestisce le case popolari) per colmare i buchi del bilancio sanitario e sulle operazioni in derivati per 17 milioni con la banca americana Merrill Lynch.
Sempre i derivati coprivano buona parte dello scollamento dei conti in Veneto, dove non vengono nemmeno conteggiati i rendiconti delle società partecipate. La Campania ha ottenuto per ora il ritiro del devastante giudizio dei magistrati contabili sul bilancio 2012, chiuso con un deficit di 1,7 miliardi. In Piemonte l'accusa è di aver usato i 2,5 miliardi che il Tesoro aveva prestato per pagare i debiti ai fornitori della sanità, per "passività extra bilancio", cioè per saldare "altri debiti" che non c'entravano niente. Per non farsi mancare nulla, la Regione non ha poi inserito il prestito come debito a bilancio. Motivo? La legge regionale lo consente, ma per la Corte dei conti è un trucchetto su cui dovrà pronunciarsi la Consulta e il vero "rosso" supera i 5 miliardi. In Toscana, nel 2013, tra preventivo e consuntivo ballano 8 miliardi - un po' troppi - mentre la Regione di Enrico Rossi è salita nel capitale di diverse partecipate in forte perdita. Stessa cosa ha fatto l'Emilia Romagna con le "Terme di Salsomaggiore e di Tabiano Spa.", società "che continua a registrare rilevanti perdite di esercizio". Il Friuli Venezia-Giulia si è "scordato" di conteggiare nel proprio personale 1700 lavoratori impiegati in "un sistema satellitare composto da enti, agenzie, aziende, società e enti funzionali", e così nel bilancio ne risultano 2800 al posto di 4500. In Calabria semplicemente i controlli non ci sono e la Regione non ha gli strumenti per verificare la liquidità di cassa. Nel 2013 - scrivono i magistrati contabili - i residui attivi rappresentavano il 96 per cento del totale delle entrate: "Ciò significa che i crediti (in gran parte difficilmente esigibili, ndr) sono quasi pari all'ammontare delle attività prodotte nell'esercizio finanziario". Nelle virtuose Trento e Bolzano, invece, buona parte delle spese di rappresentanza dei presidenti non presenta "giustificazioni credibili". In Sicilia metà delle leggi presentate dalla Giunta non hanno relazione tecnica e il 90 per cento delle uscite va per spese "correnti", con un serio rischio per la "sostenibilità futura dei conti". La Puglia di Nichi Vendola nel 2013 sforava il tetto di spesa farmaceutica e pagava i fornitori della Sanità a 204 giorni.

E Stilinga è convinta che se non aboliamo le regioni, le province e tutte quelle propaggini ingiustificate in cui si catapultano i politici a fine carriera, questo povero Paese continuerà la discesa lenta verso il default. La ripresa sbandierata dal governo è illusione gettata negli occhi dell'opinione pubblica estera, è belletto per una situazione pesante. Inoltre, la burocrazia, creata per favorire determinate lobby e contro la popolazione, contribuiscono a tenere in stallo l'Italia, a farla marciare all'indietro, a farla marcire. Italiani riprendiamoci la patria!

L'ascensore sociale funziona al contrario: ora il ceto medio si sente classe operaia

da: http://www.repubblica.it/politica/2015/05/25/news/l_ascensore_sociale_funziona_al_contrario_ora_il_ceto_medio_si_sente_classe_operaia-115182379/

Mappe: la percezione della crisi è ancora molto forte, gli italiani non si fidano più del futuro. Dati rovesciati rispetto al 2008. Oltre la metà della popolazione si colloca tra i ceti popolari

LA SOCIETA' italiana scivola verso il basso. Spinta dalla crisi, che dal 2008 ha investito l'economia globale  -  e nazionale. Non è tanto e solo l'andamento dei redditi e del mercato del lavoro, a rivelarlo. Anche se, nell'ultimo anno, in metà delle famiglie qualcuno ha perduto il lavoro oppure l'ha cercato senza esito (indagine Demos-Coop, aprile 2015). Il problema è che, al di là della "condizione", misurata dalle statistiche socioeconomiche, il declino ha colpito, in modo sensibile, anche la "percezione". Ha, cioè, modificato sensibilmente il modo di guardare la realtà intorno a noi e di rappresentare, anzitutto, noi stessi.

Come si è detto in altre occasioni, l'ascensore sociale, in Italia, si è bloccato. E gran parte degli italiani ha smesso di attendere che riparta. E oggi è, invece, impegnata a frenare, se non a bloccare, la marcia del "discensore sociale". Dal quale sono in molti, la maggioranza, a sentirsi trasportati, meglio: trascinati. Verso il basso. Ma la percezione delle cose e di noi stessi è difficile da modificare. Molto più della realtà stessa. Perché ci vuole tempo prima di "credere" che il lavoro e il reddito abbiano ripreso a crescere. E che, di conseguenza, si possa guardare di nuovo il futuro con minore pessimismo del passato. Malgrado l'Istat e l'Ocse, oltre al nostro governo, segnalino una ripresa della nostra economia, i consumi, continuano, infatti, a stagnare. Perché gli italiani non si fidano. Del futuro. Del "proprio" futuro. E preferiscono risparmiare, piuttosto che consumare. Per prudenza.

TABELLE

Di certo, è finita l'epoca della "cetomedizzazione". Termine ostico, ma sicuramente efficace, con il quale Giuseppe De Rita, negli anni Novanta, ha definito la tendenza della società italiana a ridimensionare il peso delle èlite, ma soprattutto degli strati più bassi. E, dunque, ad allargare i confini della "società di mezzo". Oggi, invece, la società italiana si è "operaizzata". Oltre la metà degli italiani, per la precisione: il 52%, si colloca nei "ceti popolari" o nella "classe operaia". Mentre il 42% si sente "ceto medio". Nel 2006, dunque: poco meno di dieci anni fa, il rapporto fra queste posizioni  -  e visioni  -  risultava rovesciato. Il 53% degli italiani si definiva "ceto medio" e il 40% classe operaia (o "popolare"). Nel 2008, mentre la crisi incombeva, peraltro, le posizioni apparivano più vicine. Ma il ceto medio, in Italia, prevaleva ancora, seppur di poco, sulla classe operaia: 48 a 45%. Questa tendenza ha investito un po' tutte le professioni e tutte le categorie. Non solo quelle che erano già, di fatto, "classe operaia". I lavoratori dipendenti. Ma ha coinvolto anche altre figure, catalogate, tradizionalmente, nella "piccola borghesia" (come ha fatto Paolo Sylos Labini, nel suo classico "Saggio sulle classi sociali", pubblicato nel 1988 e di prossima ri-edizione, sempre per i tipi di Laterza). In particolare, i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori. Ancora nel 2008, il 60% di essi si sentiva "ceto medio", il 34%, poco più di metà, classe operaia. Oggi, però, questa distanza si è sensibilmente ridotta. Perché il 40% dei lavoratori autonomi e in-dipendenti si sente "classe operaia". Il 54% ceto medio.

Anche il ceto medio impiegatizio si è operaizzato. Mentre i liberi professionisti continuano a proporre un'auto-rappresentazione più resistente alla crisi. All'opposto, com'è prevedibile, dei disoccupati. Gli "esclusi" dal mercato del lavoro. Sorprende, semmai, la marcata tendenza "operaia" delle casalinghe sul piano dell'auto-immagine. Più dei due terzi di esse, infatti, oggi si posiziona fra i ceti popolari. Nel 2008, all'inizio della crisi, questa opinione veniva espressa da una quota molto minore: il 50% circa. Le "casalinghe", d'altronde, più delle altre componenti, riflettono le diverse tensioni in atto. Anzitutto, in quanto donne, costituiscono figure deboli e vulnerabili del mercato del lavoro. In secondo luogo, su di loro si scaricano i problemi che investono la famiglia. Perché sono uno specchio e, al tempo stesso, un moltiplicatore delle conseguenze della crisi a livello sociale e micro sociale.

Le "donne", non per caso, si sono notevolmente operaizzate. Oggi il 55% di esse si riconosce e si inserisce nelle "classi popolari". Assai più degli uomini (49%), che si sentono, invece, molto più "cetomedizzati" e "borghesi" delle donne. La "discesa sociale" degli italiani negli ultimi dieci anni, quindi, appare evidente nella percezione sociale. Ancor più che negli indici economici e di reddito. Investe le figure deboli, ma anche quelle che avevano conquistato un certo benessere ed erano convinte di essere al sicuro. Saldamente insediate al "centro" della società. Nei piani  -  e nei ceti  -  medi della gerarchia sociale. Così si spiegano le paure e l'incertezza che inquietano queste componenti della popolazione. (Tendenze ben sottolineate, di recente, dal Rapporto sulla sicurezza 2015, curato da Demos, insieme all'Osservatorio di Pavia e alla Fondazione Unipolis). Così si possono comprendere anche il senso di frustrazione e il ri-sentimento politico dei ceti popolari e operai, che si traducono in una spiccata preferenza per il M5s. Soprattutto fra coloro che vedono il futuro con sfiducia. Anche perché nel passato hanno perduto prestigio e, anzitutto, potere. Sul piano del reddito e dei consumi, oltre che della posizione sociale. Così, in Italia avanza una società "operaia". Che vive con una certa preoccupazione e un certo risentimento questa condizione. Perché aveva creduto alla promessa berlusconiana di un futuro da "imprenditori" per tutti. Attraverso il passaggio "intermedio" del "ceto-medio". Ma oggi, che la crisi ha dissolto il sogno-ceto-medio, per molti è faticoso rassegnarsi al risveglio-operaio.