Tor Marancia, Roma e i palazzinari


Tor Marancia, scatta il supersequestro
“400 mila metri cubi davanti al parco”

da: http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/02/11/news/tormarancia_scatta_il_supersequestro_400_mila_metri_cubi_davanti_al_parco-78244118/
L’VIII Municipio: “Alt ai lavori, distruggono verde e corsi d’acqua”

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Una lottizzazione di 400 mila metri cubi, in una zona pregiata, davanti al parco di Tormarancia, tra via di Grottaperfetta e viale Aldo Ballarin. Un cantiere firmato da un gruppo di re del mattone romani, una cordata in cui si sono alternati Ciribelli, Calabresi, Rebecchini, Mezzaroma, Marronaro e il Consorzio di cooperative Aic. Da questa mattina per una parte dei 23 ettari su cui dovrebbe sorgere il nuovo quartiere per 3.500 abitanti è stato disposto il sequestro, che verrà effettuato oggi, dal presidente dell'VIII municipio Catarci e dal suo assessore all'Urbanistica, Massimo Miglio, lo "sceriffo anti abusivismo" protagonista di decine di denunce e demolizioni, dall'Appia Antica al cuore del Centro Storico.

Erano da poco iniziati i lavori di urbanizzazione, fatti dai costruttori per conto del Comune, quando Miglio e i suoi tecnici hanno scoperto con un sopralluogo e con l'esame delle carte arrivate dal dipartimento "Programmazione e attuazione urbanistica" del Campidoglio, che la lottizzazione era stata progettata e in corso di realizzazione sopra il fosso delle Tre Fontane, un corso d'acqua vincolato e tutelato, con un assoluto divieto di edificazione per un'area estesa a 150 metri dal fosso stesso. E proprio su questa, invece, con il "nulla osta" del Comune, si stanno già realizzando sbancamenti e il riempimento dell'alveo del fosso tutelato per la costruzione di strade e parcheggi.

Non solo. Sempre sugli ettari vincolati è prevista la realizzazione di palazzine e spazi commerciali. L'intervento del Municipio è stato immediato. "Con i tecnici" spiega Miglio "abbiamo individuato il terreno dove si stavano già effettuando grossi reinterri, anche con materiale inquinante di risulta, e sbancamenti per tombare, ossia riempire di terra e rifiuti, il corso d'acqua, distruggendo inoltre tutta la vegetazione circostante". Ancora. "Dall'esame delle carte" prosegue Miglio "si è verificata una serie di inesattezze, tra cui anche quella di aver dichiarato che il fosso fosse già chiuso.

Inoltre, nonostante il Municipio avesse negato l'autorizzazione a riempire di terreno di risulta una caratteristica vallata, si stava invece facendo il contrario, alterando così luoghi di particolare pregio naturalistico anche per la vicinanza con il Parco di Tormarancia". Era da novembre che il presidente e l'assessore del Municipio avevano lamentato l'irregolarità del cantiere, con lettere protocollate inviate all'assessorato all'Urbanistica del Campidoglio, alla Asl e alla Direzione provinciale del Lavoro. E sempre da novembre con altre lettere all'assessorato e al Capo di Gabinetto del sindaco era stato sollevato il caso del fosso e della zona intorno, tutelati, sottolineando i rischi idrogeologici che sarebbero venuti interrompendo il deflusso naturale dell'acqua. E adesso?

Con il sequestro e il provvedimento di sospensione dei lavori, tutta la convenzione, appartamenti per 87.500 metri quadrati e negozi per 37.500, per un totale di 125 mila metri quadrati, rischia di essere messa in discussione, perché una serie di opere di urbanizzazione e molte palazzine non potranno più essere realizzati. "Questa operazione" conclude il minisindaco Catarci "ha messo in luce tre rilevanti irregolarità: la distruzione del fosso e della vegetazione, la conseguente compromissione delle funzioni idrogeologiche del fosso e l'alterazione delle quote orografiche naturali del terreno. Tutta la convenzione va accuratamente rianalizzata con un drastico abbattimento delle cubature previste nell'area".

LA MANCIA DA LUPI PER IL CEMENTO (Antonello Caporale).

LA MANCIA DA LUPI PER IL CEMENTO (Antonello Caporale).


Non sono sette ma quasi diciassette. Beneficiari di una proroga di una norma sepolta dagli anni e oramai defunta. Ma quella norma – risalente a prima di Tangentopoli – conteneva un mucchietto di soldi, cento milioni di euro. Soldi riacciuffati in extremis e affidati a costruttori di buona stazza e di ottime conoscenze. I nostri campioni s’aggireranno per campagne e città e busseranno alla porta di sindaci e presidenti di Regionii. Hanno da costruire case per i poliziotti. Aggiungeranno a quelle case delle altre, mattoncini per l’edilizia residenziale privata, e centri commerciali e ogni ben di Dio. É il corrispettivo che lo Stato concede loro per l’impegno. Sceglieranno i luoghi più ospitali e procederanno con il cemento. 
IN EFFETTI avevano vent’anni di tempo per portare a compimento l’affare, ma in vent’anni e più non hanno costruito niente. Colpa mia? Colpa tua? Vattelapesca. La legge che decreta il via al programma di edilizia convenzionata, sovvenzionata o totalmente finanziata risale infatti a a prima di Tangentopoli. Era il 1992. C’erano ancora le lire e si decise di varare programmi di edilizia straordinari, i cosiddetti “articoli 18”, per consentire ai dipendenti della polizia di ottenere una abitazione e al contempo offrire ai costruttori di questa edilizia finanziata margini di espansione produttiva nelle adiacenze di quelle aree. Fu emanato un bando, stilata una graduatoria di imprese adeguate alla prova da sforzo, e iniziati a spendere i soldi. Un battaglione di privati cooperanti con lo Stato avrebbe proceduto a ridurre i tempi della localizzazione delle opere, curare la progettazione e la realizzazione. C’è stato chi si è sbrigato prima e chi non ha fatto in tempo. Il governo Monti, nel famigerato decreto Crescita, decise di ripulire il bilancio dello Stato dai capitali mai investiti. Decise dunque di darci un taglio anche con questo programma e, visti i ritardi, offrì ai costruttori ritardatari un’ultima chance: entro il 31 dicembre del 2013 chi aveva perso tempo doveva essere considerato out. I soldi risparmiati sarebbero stati riallocati (una possibile destinazione quella della manutenzione degli immobili degradati). Un po’ di soldini in più e nuove energie liberate. Allora tutti d’accordo? Tutti d’accordo: al 31 dicembre chi è dentro è dentro e chi è fuori rimarrà fuori…
Invece no. E la storia qui prende le sembianze miracolose dell’intercessione divina. Incredibilmente qualche giorno fa si è formata una fantastica schiera di parlamentari supporters dei costruttori ritardatari. Un gruppetto di senatori di ogni razza e colore, di larghe e coincidenti intese, è riuscito a spingere dentro uno dei decreti omnibus in votazione al Parlamento l’emendamento d’oro che risistema il timing e dà altri tre anni di tempo ai ritardatari per mettersi in regola.
È DAVVERO un bel regalo, un grande pacco che una serie di imprese, tra cui la Grassetto del gruppo Ligresti, si è vista consegnare oltre i tempi supplementari. E di chi è il merito? Innanzitutto della straordinaria, come vogliamo chiamarla: abnegazione? amicizia? vicinanza?, dei rappresentanti del Pd, di Forza Italia e del Ncd (sta per Nuovo centrodestra), capeggiati da Piero Aiello (gruppo Angelino Alfano), un campione delle preferenze nella sua natia Calabria incidentalmente incappato alcune settimane fa in una inchiesta della direzione distrettuale antimafia che lo ha incriminato per voto di scambio richiedendo per lui addirittura e per ben due volte l’arresto (ambedue le richieste sono state però rigettate).
Il gruppo si è battuto testar-demente contro il principio di gravità e la stessa lingua italiana insistendo nella considerazione che un decreto, emanato per motivi d’urgenza, potesse ospitare una proroga di norme oramai afflitte dalla vecchiaia e sepolte dall’inerzia.. L’emendamento sottoposto al presidente della commissione Affari costituzionali, Anna Finocchiaro, alla guida dell’organismo che deve fare osservare le regole, è passato senza un filo di dubbio. É perfetto e molto chiaro. Trascriviamo: “Al comma 7 dell’articolo 12 del decreto legge n.83 convertito… le parole “31 dicembre 2013 sono sostituite dalle seguenti : “31 dicembre 2016”. E oplà… La commissione, compresa l’urgenza di far felici i costruttori, ha approvato e mandato alla Camera. Che stamane, dopo ampia discussione (due giorni) certamente confermerà il sì.
L’urgenza è un concetto ad uso variabile e scorrendo gli articoli del decreto legge (è il numero 150) si ha ampia prova che la lingua italiana è una costruzione progressiva di orientamenti eventuali. Un’urgenza tira l’altra, e quest’ultima proroga annuncia già la prossima. Se gli amici non dovessero farcela per il 2016 ci sarà modo di sostituire la parola e con un emendamentino aggiungere: “31 dicembre 2021”.
Da Il Fatto Quotidiano del 06/02/2014.

Bonifiche, condono per i signori dei veleni.

LETTA S’INVENTA IL CONDONO PER I GRANDI INQUINATORI (Marco Palombi).

Terra dei fuochi
Terra dei fuochi.
Bonifiche, condono per i signori dei veleni.
Nel decreto Destinazione Italia stracciato il principio del “chi inquina paga”: alle aziende uno “sconto” sui danni ambientali provocati dagli sversamenti e pure un incentivo fiscale.
IL GOVERNO FESTEGGIA IL DECRETO SULLA TERRA DEI FUOCHI. ENI, ENEL E GLI ALTRI INVECE BRINDANO A “DESTINAZIONE ITALIA” E AL MAXISCONTO SULLE BONIFICHE.
La faccenda è talmente enorme che lo stesso servizio Studi della Camera non ha potuto che farla notare con inusitata crudezza: andrebbe indagata, scrive, “la compatibilità con il principio comunitario chi inquina paga”. Di cosa stanno parlando? Dell’articolo 4 del decreto Destinazione Italia, fortemente voluto dal ministero dello Sviluppo economico, quello intitolato “Misure volte a favorire la realizzazione delle bonifiche dei siti di interesse nazionale” e di cui vi parliamo nel giorno in cui la politica si fa bella dell’approvazione del decreto per contrastare l’emergenza ambientale nella Terra dei Fuochi. 
IN SOSTANZA, quello di cui vi parliamo è una sorta di condono: le grandi aziende che hanno inquinato il territorio italiano, spesso violando la legge, creando le cinquanta e più Terre dei Fuochi che costellano la penisola, ottengono un bello sconto su quanto devono alla comunità nazionale in risarcimento del danno. Di più: se saranno così gentili da firmare l’ennesimo “Accordo di programma” col governo per le bonifiche, la collettività pagherà un bel pezzo del dovuto, gli inquinatori avranno un credito d’imposta da 70 milioni e potranno pure costruire nuovi impianti produttivi sui siti inquinati.
Cosa prescrive, infatti, l’articolato sponsorizzato dal ministero per lo Sviluppo economico? Che per tutti i Siti di interesse nazionale (SIN) il modello “chi inquina paga”, imposto dalla legislazione europea, non vale se “i fatti che hanno causato l’inquinamento sono antecedenti al 30 aprile 2007”. Basta l’accordino con l’esecutivo e questo “esclude ogni altro obbligo di bonifica e riparazione ambientale e fa venir meno l’onere reale per tutti i fatti antecedenti all’accordo medesimo”.
Trasportato in quel disastro che è la situazione delle bonifiche ambientali in Italia questo significa che dei 39 Sin attualmente riconosciuti ne restano fuori solo due: l’Ilva, che ha già la sua legge ad hoc, e il sito di Bussi sul Tirino, in Abruzzo, dove sono sfortunati e hanno ottenuto il bollino “Sin” solo nel 2008.
PER TUTTI gli altri inquinatori è un giorno di festa: citando un po’ a caso si va dall’Eni (Porto Torres, Priolo, eccetera) all’Enel (Porto Tolle, a Rovigo); dalla multinazionale tedesca E.On (è di ieri la notizia che il direttore della centrale termoelettrica di Porto Torres è indagato proprio per reati ambientali) alla Saras che fu della famiglia Moratti e ora è in mani russe (Sarroch, in Sardegna); dalla Lucchini a Piombino agli ungheresi di Mol Group, che hanno acquisito a Mantova la raffineria della italiana IES, fino alla Caffaro di Brescia, oggi di proprietà della malmessa Snia spa.
Tra i pochi ad accorgersi di questo ennesimo tentativo di accollare alla collettività danni causati da imprese private vanno segnalati il M5S e i Verdi. “Ci provarono già nel decreto del Fare scrivendo che le bonifiche dovevano essere ‘economicamente sostenibili’, oggi lo fanno in un altro modo ma l’obiettivo è lo stesso: non applicare il principio che chi inquina poi paga”, dice la deputata 5 Stelle Federica Daga: “Non solo. Il decreto non rende nemmeno le bonifiche obbligatorie: si dice alle imprese ‘o fai la bonifica o la messa in sicurezza’. E così si lascia un pezzo enorme del paese a fare i conti con l’emergenza sanitaria”.
Sulla stessa linea il leader dei Verdi, Angelo Bonelli: “Questo è un’operazione dalla portata incredibile: è un terremoto nella legislatura ambientale italiana. Voglio ricordare che il nostro paese sta già subendo moltissime procedure di infrazione europee in materia di ambiente e di bonifiche ambientali, ora si decide addirittura di disapplicare unilaterlamente la legislazione comunitaria. Faccio un appello al ministero dell’Ambiente: ritiri la norma. Che gli inquinatori abbiano un condono, in parte persino premiale, è semplicemente allucinante”.
QUEST’ULTIMO riferimento di Bonelli è a due previsioni del decreto a cui abbiamo già accennato. Non solo lo Stato sgrava dalle loro responsabilità gli autori di enormi disastri ambientali, ma per convincerli a ricevere il favore senza protestare gli dà pure qualche incentivo: basta firmare il famoso “Accordo di programma” e si ha diritto a un credito d’imposta che vale 20 milioni quest’anno e cinquanta il prossimo e poi a costruire nei SIN nuovi impianti (un rigassificatore, diciamo, o un inceneritore) automaticamente dichiarati di “pubblica utilità” e dunque beneficiati di procedura autorizzativa superaccelerata. Tradotto: non solo non pagheranno per il danno, ma ai grandi gruppi di cui sopra viene pure garantito un futuro profitto.
Da Il Fatto Quotidiano del 06/02/2014.

Che scandalo!

Non solo Bankitalia pioggia di regali alle banche amiche (Marco Palombi).

DALLE NUOVE REGOLE SUI CREDITI INESIGIBILI ALL’AIUTINO SUI DERIVATI E, ORA, ALLA RIVALUTAZIONE DELLE QUOTE DI VIA NAZIONALE. PER LA FINANZA I SOLDI CI SONO SEMPRE.
Fabrizio Saccomanni è “addolorato”. Dice che sulla questione delle quote Bankitalia sono state diffuse “falsità, cattive informazioni e distorsioni”. Si riferisce, con ogni probabilità, all’espressione “regalo alle banche” che Il Fatto Quotidiano ha usato fin dall’approvazione del decreto, lo scorso 30 novembre. Ci perdonerà il vizio giornalistico dell’espressione gergale o colorita, il ministro dell’Economia, che oggi abbandoniamo: il sostegno pubblico al sistema bancario non è un regalo, cioè un fatto episodico e connesso ad alcune circostanze, ma la politica economica stessa del suo governo e di ogni altro governo d’Europa. 
Nel giorno in cui si scopre che l’Inps non è in grado di anticipare alle regioni i soldi per la Cassa integrazione perché il Tesoro non assicura le coperture, è bene mettere in fila tutte le decisioni con cui l’esecutivo Letta è venuto incontro alle difficoltà del sistema bancario, difficoltà causate da credito erogato male e operazioni finanziarie troppo rischiose prima ancora che dalla crisi. La reazione dei governi occidentali e delle loro banche centrali è stata di aiutare le banche a rimanere in piedi. Il prezzo richiesto in cambio? Nessuno, nemmeno l’innocua stretta sullo stock option o gli stipendi del management delle banche sussidiate. Enrico Letta e l’addolorato Saccomanni non hanno fatto eccezione, soprattutto in vista dei nuovi requisiti di bilancio europei che verranno richiesti alle banche. Ecco un breve riassunto.
FISCO AMICO. Le sofferenze, vale a dire i crediti che si considerano irrecuperabili o giù di lì, sono esplose durante la crisi toccando in Italia la cifra record di circa 140 miliardi di euro. La legge consente di ottenere uno sgravio fiscale su questi “crediti non performanti”: Giulio Tremonti aveva stabilito che l’ammortamento avvenisse in 18 anni, Saccomanni nella Legge di Stabilità li ha ridotti a cinque. Sicuramente ha fatto bene il ministro, ma – come ha scritto lui stesso nella relazione tecnica alla manovra – questo fatto comporterà vantaggi fiscali per le banche pari a 20 miliardi dal 2015 al 2022.
IL CASO BANCA D’ITALIA. Col decreto che aboliva la seconda rata dell’Imu 2013, il governo – senza che nessuno glielo avesse chiesto e in contrasto con una legge del 2005 che prevedeva la ripubblicizzazione dell’istituto – ha anche rivalutato le quote della banca centrale da 156mila euro a 7,5 miliardi. Gli effetti di questa decisione sono indubitabilmente favorevoli agli istituti di credito, azionisti di Bankitalia. In cambio di un gettito di 900 milioni per l’erario – frutto della tassazione della plusvalenza – le banche incassano all’ingrosso tre cose: un aumento potenziale dei dividendi annuali da 70 a 450 milioni, un miglioramento dei loro requisiti patrimoniali nei prossimi bilanci e – alcuni istituti – addirittura l’ingresso immediato di soldi freschi nelle loro casse. Funziona così. Nessuno potrà avere più del 3 per cento di Bankitalia, dunque è facoltà della stessa banca centrale acquistare le quote eccedenti e poi rivenderle con tutta calma: ne beneficeranno i due azionisti più grandi, Intesa e Unicredit, che incasseranno circa 3,5 miliardi, mentre agli altri (Inps, Generali , Carige, Cassa di risparmio di Bologna) andranno all’ingrosso 700 milioni.
DERIVATI. Nella manovrina per riportare il deficit del 2013 sotto il 3 per cento è stata inserita la garanzia statale sui derivati stipulati dalle banche sui titoli di stato. Ovviamente questo comporta che le garanzie patrimoniali degli istituti di credito migliorino istantaneamente così come probabilmente farà il loro rating, visto che gli investimenti in debito pubblico nazionale sono stati ingenti ed eventuali perdite in quel settore sarebbero alla fine – cioè in caso di insolvenza della banca – pagate con la liquidità messa a disposizione dal Tesoro.
CDP. Attraverso Cassa depositi e prestiti – sempre con un emendamento alla manovra – lo Stato ha offerto la sua garanzia per i crediti erogati alle imprese. Non solo: Cdp potrà anche acquistare direttamente quei crediti appositamente cartolarizzati dalle banche. Se la cosa non vi è chiara si tratta in sostanza di un meccanismo che permette di lasciare gli eventuali utili agli istituti di credito e accollare le perdite alla collettività. Anche le privatizzazioni effettuate attraverso la Cassa potrebbero portare vantaggi al mondo finanziario: in caso di introiti che sfocino in un maxi dividendo, questo sarebbe distribuito per l’80 per cento al Tesoro e per il 20 alle fondazioni bancarie, azioniste di Cassa depositi.
VARIE ED EVENTUALI. Anche se non riguarda questo governo si cita - per puro dovere di cronaca – la vicenda dei quattro miliardi statali prestati a Monte dei Paschi di Siena prima da Tremonti e poi da Monti, ma l’atteggiamento di favore e verrebbe da dire di sudditanza psicologica nei confronti del mondo finanziario non finisce qui. L’esecutivo Letta, nonostante pressioni dello stesso Pd, si è rifiutato di rivedere la tassa sulle transazioni finanziarie (la cosiddetta Tobin Tax) per far pagare anche le banche, escluse da Mario Monti, come pure ha bocciato in Senato la proposta del Movimento 5 Stelle di tornare a vietare le commistioni tra banche che raccolgono il risparmio e banche d’investimenti. Fu un divieto adottato in tutto il mondo dopo la grande crisi del 1929, forse non è un caso che questo nuovo tracollo sia avvenuto pochi anni dopo la sua abolizione (in Italia ci pensò Massimo D’Alema).
Da Il Fatto Quotidiano del 01/02/2014.

E' bello camminare in una valle verde... e ora pure al verde

Valleverde: è crac per un altro ex marchio di successo italiano

da: http://it.fashionmag.com/news/Valleverde-e-crac-per-un-altro-ex-marchio-di-successo-italiano,381747.html#.UuJYlNIuKcM

Tra la fine degli anni 90 e l'inizio degli anni 2000, la Valleverde di Coriano (RN) era una delle aziende manifatturiere italiane con i bilanci più sani e con idee produttive che la portavano a presentarsi al mondo come la creatrice della scarpa del futuro. Fra i suoi popolarissimi testimonial figurarono, in tempi successivi, il presentatore Claudio Lippi, il pilota nordirlandese della Ferrari Eddie Irvine e l’attore americano Kevin Costner. L'azienda della provincia di Rimini in quegli anni viaggiava col vento in poppa, e il suo patron, Armando Arcangeli, era diventato un imprenditore molto noto e altrettanto apprezzato.

www.valleverdestilecomodo.com/

Ma oggi, dopo circa 15 anni, il successo della Valleverde è svanito in un mare di debiti e di azioni giudiziarie. Fino ad arrivare alla bancarotta fraudolenta che sta travolgendo l'azienda (che il 19 gennaio scorso ha dichiarato fallimento) e la proprietà.

Secondo quanto ricostruito dal quotidiano economico “Il Sole 24 Ore” e dal giornale “Nuovo Quotidiano” di Rimini, la Valleverde S.p.A., sommersa da debiti per 45 milioni di euro, cambia nome e ragione sociale trasformandosi in Spes S.p.A. Quest'ultima si assume l'onere di pagare il 15% del debito e intanto presenta istanza per accedere alle procedure di concordato preventivo attraverso la cessione in affitto ad un'altra società (la neonata Valleverde S.r.l. appositamente costituita) della gestione del calzaturificio, del magazzino, di tutta la produzione e del marchio. La Valleverde S.p.A./Spes è quindi una newco, ed è controllata da una cordata di imprenditori bresciani costituita ad hoc, che aveva acquistato dalla Spes S.p.A la gestione del ramo d’azienda nell’ambito del concordato fallimentare (i fatti accadono fra la metà del 2011 e l'aprile del 2012).

Tuttavia, dietro la richiesta di concordato, secondo la Procura di Rimini, ci sarebbe stato un piano premeditato per sottrarre 10 milioni di euro all'azienda. Infatti, il pagamento del canone d'affitto d'azienda, che sarebbe servito a ripagare i debiti della Spes S.p.A. (che in seguito verrà dichiarata fallita il 6 giugno del 2013), non verrà mai pagato e secondo la Guardia di Finanza era stato tutto programmato con una serie di accordi sottobanco tra vecchia e nuova gestione. In questo quadro s'inserì poi lo scorso anno una denuncia per truffa, considerata artificiosa dalla GdF, presentata dalla nuova gestione contro la vecchia, accusata di aver fatto sparire parte del magazzino. Meccanismi, secondo la Procura e gli investigatori, messi in atto al solo scopo di dirottare denaro verso altre società.

Sono stati iscritti nel registro degli indagati lo stesso Arcangeli e altre sei persone coinvolte, a vario titolo, nella distrazione di denaro dell’impero Valleverde verso altre imprese. Così, sono finiti nei guai, insieme allo storico boss, il suo braccio destro nella Valleverde S.p.A./Spes, l’amministratore delegato Antonio Gentili (per un certo periodo anche liquidatore della società), e poi cinque manager della nuova azienda, la Valleverde S.r.l., la quale però non gestisce più l’azienda di Coriano, che è stata posta sotto sequestro e affidata dal tribunale alla guida del custode giudiziario, Claudia Bazzotti, già curatore fallimentare della Valleverde S.p.A./Spes.

Si tratta del bresciano di Desenzano sul Garda Enrico Visconti, presidente della S.r.l., di un altro bresciano, Ernesto Bertola, direttore generale, del mantovano David Beruffi, responsabile dell’area finanza, di un’altra bresciana, di Salò, Anna Maria Soncina, consulente esterna dell'area amministrativa e di Raffaele Piacente, romano, responsabile di un gruppo che ha contribuito a ricapitalizzare la S.r.l. per 4-5 milioni di euro nel novembre del 2013. Gli uomini della Guardia di Finanza hanno perquisito le abitazioni di tutti e sette i professionisti, rinvenendo documenti e materiale informatico considerati interessanti per le indagini. Altre perquisizioni sono state effettuate negli uffici della Valleverde S.p.A./Spes a Coriano, e in quelli della S.r.l. a Coriano, Treviso, Fermo e Montichiari (BS).

Ovviamente alla fine chi ci rimette totalmente sono sempre i lavoratori. A rischiare il posto di lavoro oggi sono 150 persone, senza stipendio da tre mesi, che protestano contro il provvedimento di sequestro previsto sia per lo stabilimento riminese di Coriano che per la rete di punti vendita sparsa in tutta Italia.


L'allarme di Greenpeace: "Ci sono piccoli mostri che vivono nei vestiti dei bambini"

da: http://www.repubblica.it/scienze/2014/01/16/news/bambini_mostri-76120655/?ref=HRLV-18
La Cina rimane il maggior produttore al mondo di tessile. Per l'organizzazione le imprese devono impegnarsi a non rilasciare sostanze chimiche pericolose entro il 1 gennaio 2020. Dal lancio della campagna di Greenpeace "Detox" nel  2011, 18 importanti aziende d'abbigliamento si sono già impegnate.

ROMA - Sostanze chimiche pericolose annidate nei vestiti e nelle scarpe per bambini. Secondo il nuovo rapporto reso noto da Greenpeace Asia il pericolo vive anche negli abiti delle marche più care e famose. I risultati mostrano che non c'è grande differenza tra le concentrazioni delle sostanze dannose nei vestiti per piccoli o adulti.  "Un vero incubo per i genitori", afferma Chiara Campione, responsabile del progetto The Fashion Duel di Greenpeace Italia. "Questi piccoli mostri chimici li troviamo ovunque, dai vestiti di lusso a quelli più economici, e stanno contaminando i nostri fiumi da Roma a Pechino. Le alternative per fortuna ci sono e per questo l'industria dovrebbe smettere di usare i piccoli mostri, per il bene dei nostri bambini e delle future generazioni". 

Tutti i marchi testati hanno almeno un prodotto nel quale sono state rilevate sostanze chimiche pericolose. Le concentrazioni di PFOA (acido perfluorottanico) in un costume erano molto più elevate del limite previsto, mentre una maglietta per bambini conteneva l'11% di ftalati. Alti livelli di nonilfenoli etossilati sono stati trovati invece in altri prodotti. 

PFOA, ftalati e nonilfenoli etossilati sono interferenti endocrini, sostanze che, una volta rilasciate nell'ambiente, possono avere potenzialmente effetti dannosi sul sistema riproduttivo, ormonale o immunitario. "Grazie alla pressione dei genitori e dei consumatori in tutto il mondo, alcuni dei maggiori marchi hanno già aderito all'impegno Detox che abbiamo proposto loro, e molti di loro hanno iniziato un percorso orientato alla trasparenza e all'eliminazione delle sostanze tossiche dalla loro filiera, ma non basta", spiega Campione. 

La Cina rimane il maggior produttore al mondo di tessile e Greenpeace chiede al governo di bandire le sostanze pericolose dall'industria. E' importante che il governo pubblichi una lista nera di sostanze da eliminare e chieda alle imprese di agire immediatamente rendendo pubbliche le informazioni sulle sostanze impiegate, per facilitare un processo di trasparenza e pulizia  dell'intera filiera.

Greenpeace chiede alle imprese di riconoscere l'urgenza e di comportarsi da leader sulla scena globale, impegnandosi a non rilasciare sostanze chimiche pericolose entro il  1 gennaio 2020. Dal lancio della campagna di Greenpeace "Detox" nel luglio 2011, 18 importanti aziende del settore dell'abbigliamento si sono già impegnate pubblicamente.

Nuove tendenze street a Roma

Zainetto animalier da uomo

total black a via Condotti

Abitino corto stile tappezzeria con shorts sotto e ankle boots neri, capelli corti, il vero must delle prossime stagioni, come anche qui sotto.

Contributi Inps a perdere. E non è più ammissibile!

Contributi Inps a perdere

Di Marino Longoni
Contributi Inps a perdere

Ci sono in Italia un milione di lavoratori che stanno versando contributi previdenziali, anche piuttosto salati, ma inutilmente. Non riusciranno mai, infatti, a maturare il diritto ad una pensione. Si tratta della quasi totalità dei lavoratori a progetto, dei lavoratori autonomi occasionali, dei collaboratori parasubordinati e altre categorie di minor rilevanza. Insomma di quasi tutti i lavoratori che versano i loro contributi alla gestione separata Inps. Il problema di costoro è tutto richiuso in un concetto piuttosto tecnico, quello di “minimale contributivo”. In sostanza a loro viene accreditato un mese di contributi, validi ai fini pensionistici, solo se dichiarano un reddito di almeno 1.295 euro al mese, e su questo ci versano i relativi contributi (nel 2014 l’aliquota è salita al 28,72%). Se il loro reddito è invece, per esempio, la metà di questa cifra, ci vorranno due mesi di lavoro per mettere insieme un mese di contributi. E così via. A parte gli amministratori, la stragrande maggioranza di coloro che versano alla gestione separata non arriva a questi livelli di reddito. Quindi rischia seriamente di versare contributi senza riuscire mai a maturare un diritto alla pensione. Ma siccome il peggio non ha mai fine, nei prossimi anni l’aliquota contributiva, che già è salita dal 10% al 28% in meno di vent’anni, è destinata ad arrivare al 33% entro il 2018. Aumentando così i contributi versati a perdere.

Scuola, via 150 euro al mese agli insegnanti. POLITICI E GOVERNANTI MA ANNATE A M**I' AMMAZZATI!

Scuola, via 150 euro al mese agli insegnanti. La Carrozza scrive a Saccomanni: "Rinunciare"


Il governo ha bloccato retroattivamente gli scatti di anzianità dei docenti per tutto il 2014, decidendo la decurtazione della somma ogni mese "fino a concorrenza del debito". Il ministro chiede la retromarcia, ma il Mef replica: "Atto dovuto". Sindacati sul piede di guerra

INSEGNANTI sul piede di guerra, e il ministro dell'Istruzione si schiera al loro fianco. Il ministero dell’Economia chiede ai docenti degli istituti italiani di restituire gli scatti stipendiali – già percepiti nel 2013 – con una trattenuta di 150 euro mensili a partire da gennaio. E nel mondo della scuola scoppia la protesta. I sindacati minacciano lo sciopero generale e dal Pd viene inviata una lettera-petizione al ministro Maria Chiara Carrozza e al premier Enrico Letta che in poche ore ha raccolto migliaia di adesioni. A cui arriva una quasi immediata risposta di Maria Chiara Carrozza, che scrive a Saccomanni chiedendo di soprassedere.

E STILINGA PENSA CHE SE GLI INSEGNANTI NON BLOCCANO LE LEZIONI AD OLTRANZA SONO PROPRIO FESSI. MENTRE COLORO CHE CI (S)GOVERNANO SONO DEI GRAN LADRI PATENTATI ED IMPUNITI!

'STI DISGRAZIATI NON SE TAGLIANO NULLA, MANCO LE PENSIONI D'ORO, POI IN POCHI SECONDI CREANO GLI ESODATI E TAGLIANO GLI SCATTI DI ANZIANITA' ALLA CATEGORIA CHE PEGGIO SE LA PASSA IN QUESTO PAESE SENZA STATO, ABBANDONATO.
 ALLA LUCE DI COME VANNO LE COSE, POSSIAMO ASSERIRE ANCHE CHE LO STIVALE E' IN MANO AI MASSONI/MAFIOSI/ULTRACATTOLICI.
SI VERGOGNINO! 
E CHE GLI ITALIANI NON GLI SERVANO NULLA QUANDO VANNO AL BAR, AL RISTORANTE, ETC. E CHE NON LI CARICHINO SUI TAXI, E CHE NON GLI PULISCANO LE CASE E CHE NON GLI PRENDANO I FIGLI DA SCUOLA E CHE NON GLI FACCIANO I CAPELLI QUANDO VANNO AL PARRUCCHIERE E CHE.. ETC. ETC.
SIAMO OLTRE IL LIMITE.
POSSIBILE CHE AL PALAZZO NON L'ABBIANO CAPITO??? ALLORA TOCCA A NOI SVEGLIARE LE BELLE ADDORMENTATE DELLA POLITICA, I PROFESSIONISTI DELLA POLITICA RIPULITI DALLE GRANDI GRIFFE, MA MARCI DENTRO, GLI INCIUCISTI VEGLIARDI DI STATO!



Inps salvato dai precari senza pensione, e che c***o!




Da: http://ilmanifesto.it/linps-salvato-dai-precari-senza-pensione/


Dopo l’Ocse anche la Corte dei Conti denun­cia l’iniquità del Wel­fare ita­liano.

A ripia­nare le ingenti per­dite dell’Istituto nazio­nale della pre­vi­denza sociale (Inps)

sono le lavo­ra­trici e i lavo­ra­tori «para­su­bor­di­nati», le par­tite Iva, tutti coloro che sono impie­gati a tempo e in maniera inter­mit­tente.

Que­sta è una delle prin­ci­pali con­clu­sioni dell’esame del bilan­cio 2012 dell’Inps con­te­nuto nel report reso noto ieri dalla magi­stra­tura con­ta­bile. Per con­te­nere la gra­vosa per­dita cau­sata dall’incorporazione dell’Enpals e dell’Inpdap, l’Inps si avvale del «mas­sic­cio saldo posi­tivo di eser­ci­zio dei “para­su­bor­di­nati” e quello delle pre­sta­zioni tem­po­ra­nee, i cui netti patri­mo­niali con­sen­tono ancora la coper­tura di quelli nega­tivi delle altre prin­ci­pali gestioni e il man­te­ni­mento di un attivo nel bilan­cio gene­rale, espo­sto peral­tro ad un rapido azze­ra­mento». In altre parole, per la Corte dei conti, in un con­te­sto come quello ita­liano in cui i pen­sio­nati con­ti­nue­ranno a cre­scere, anche il capi­tale garan­tito dai lavo­ra­tori auto­nomi e dai pre­cari non basterà a «ripia­nare lo squi­li­brio» tra le gestioni in defi­cit. La con­se­guenza sarà «la dila­ta­zione dei saldi nega­tivi e dell’indebitamento, aggra­vati dal fondo dei dipen­denti pub­blici, in pro­gres­sivo e cre­scente dissesto».


La Corte avverte inol­tre che i lavo­ra­tori indi­pen­denti (appunto: pre­cari, par­tite Iva, inter­mit­tenti) saranno pena­liz­zati mag­gior­mente dal metodo con­tri­bu­tivo. Il loro trat­ta­mento pen­sio­ni­stico, sem­pre che rie­scano a tota­liz­zarlo, rischia di essere molto lon­tano da quello riser­vato a chi è andato, o andrà, in pen­sione con il metodo retri­bu­tivo. La Corte chiede «un costante moni­to­rag­gio degli effetti delle riforme del lavoro e della pre­vi­denza sulla spesa pen­sio­ni­stica e una cre­scente atten­zione al pro­filo di ade­gua­tezza delle pre­sta­zioni col­le­gate al metodo con­tri­bu­tivo e degli ecces­sivi divari nei trat­ta­menti con­nessi a quello retri­bu­tivo, uni­ta­mente all’urgenza di rilan­ciare la pre­vi­denza com­ple­men­tare». Una tesi molto simile a quella soste­nuta dall’Ocse. Resta tut­ta­via il mistero su come i lavo­ra­tori indi­pen­denti, ad esem­pio le par­tite Iva che ver­sano i con­tri­buti nella gestione sepa­rata dell’Inps con un red­dito medio men­sile pari a 753 euro pos­sano finan­ziarsi un fondo pri­vato. Per loro si pre­para un futuro senza pen­sione. L’Inps, con­clude la Corte, ha biso­gno di «indi­la­zio­na­bili misure di risanamento».

Gli eurobond che fecero l'unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania di Giuseppe Chiellino
da http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-06-30/eurobond-fecero-unita-italia-190357.shtml?uuid=AbDwao0F&p=2

 Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia.
 Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato».
Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.