Pensioni d’oro, “Intoccabili anche se arrivano a 90mila euro al mese”

Pensioni d’oro, “Intoccabili anche se arrivano a 90mila euro al mese”

Il ministro Giovannini presenta la classifica dei dieci assegni più ricchi, ma ammette: "Non passiamo tagliarle". Sacrificando 7 miliardi di euro di risparmi.


L’ammissione del ministro lascia l’amaro in bocca. Anche in caso di pensioni da 90mila euro al mese, come quella che l’Inps corrisponde a Mario Sentinelli, ex dirigente Telecom, il governo non può intervenire con contributi di solidarietà ad hoc. Non si può far niente, come ha ribadito recentemente la stessa Corte costituzionale. Enrico Giovannini ha risposto a un’interrogazione della deputata Pdl, Deborah Bergamini, esibendo la classifica delle prime dieci “pensioni d’oro” erogate dall’Inps. La più ricca è di 91.337,18 euro lordi al mese, la seconda “si ferma” a 66.436 mila euro mensili, la terza sfiora i 52mila fino alla decima che è di 41.707,54.
Nel suo testo Giovannini ha osservato che “misure volte in modo diretto ed immediato a ridurre l’ammontare delle pensioni in godimento“, avrebbero potuto incorrere in “profili di l’incostituzionalità”. Il riferimento più evidente è alla sentenza n. 116/2013 con cui “la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del contributo di perequazione sulle pensioni di importo superiore a 90.000 euro”. Un orientamento “che non può in alcun modo essere sottovalutato” aggiunge il ministro. L’affermazione, di stampo istituzionale, si scontra però con la sostanza dei numeri evidenziati nella classifica che suona come uno schiaffo per i circa 4 milioni di pensionati al minimo (500 euro al mese) e a tutti coloro che vivono con meno di mille euro al mese.
Il pensionato più ricco d’Italia verosimilmente – il ministero, per rispetto della privacy, non ha reso pubblici i nomi – è Mauro Sentinelli, come riportato nel 2011 nel libro di Mario Giordano,Sanguisughe. In quel volume è possibile desumere anche qualcun altro dei nomi in classifica, come Vito Gamberale. I due provengono entrambi dalla telefonia. Sentinelli in realtà fa ancora parte del consiglio di amministrazione Telecom dove beneficia di altri compensi: 110mila euro annui per far parte del cda, 35mila per il comitato esecutivo e 45mila per il comitato controllo e rischi. Totale: 190mila euro che aggiunge alla pensione. Gamberale, invece, è l’amministratore delegato delFondo F2i controllato dalla Cassa depositi e prestiti. Dove percepisce un lauto compenso. L’Italia dei doppi stipendi e delle pensioni d’oro è fatta di queste cose.
Era stato l’Espresso a scoprire come ha fatto Sentinelli a ottenere un assegno così generoso: “Ha pagato i contributi al fondo telefonici dell’Inps sulla retribuzione base ma poi è entrato nel ‘fondo generale’ ed è andato in pensione calcolando l’assegno su tutte le voci della busta paga, benefit e stock option comprese”.
 La pensione, dunque, è molto superiore ai contributi versati ed è una delle ragioni per cui l’Inps soffre di alcuni deficit. 
Se il fondo dei “lavoratori dipendenti”, infatti, è in equilibrio, quelli dei “telefonici”, degli “elettricisti”, dei “ferrovieri” o dei “dirigenti d’azienda” soffrono un deficit più che cronico.
Nella sua risposta Giovannini ha garantito che il passaggio al sistema contributivo permetterà di superare queste disparità. 
Che però esistono. Nella fascia di pensioni superiori ai 4.000 euro lordi mensili ci sono 104.793 persone.
Secondo Beppe Grillo con un tetto alle pensioni collocato a 5.000 euro al mese si potrebbe ricavare un risparmio di 7 miliardi annui. Cifre analoghe le ha stimate anche il Cobas dell’Inpdap. Calcoli complicati ma non impossibili. Certamente meno difficili che continuare a vedere una pensione da 33.700 euro al mese come quella di Cesare Geronzi o i 31mila euro del più noto Giuliano Amato.
Dal Fatto Quotidiano dell’8 agosto 2013

Centomila pensionati italiani costano 13 miliardi!

Andare in pensione con 90 mila euro mensili? In Italia si poteva

08/08/2013 10.29.02

(Teleborsa) - Roma, 8 ago - E' un ex top manager di Telecom il pensionato più ricco d'Italia. Forte di compensi che arrivavano fino a 8 milioni di euro, di leggi che permettevano di andare in pensione con l'80% dello stipendio medio degli ultimi 10 anni e di moltiplicare il trattamento con benefit e stock option percepiti durante la carriera, ma anche del vantaggioso fondo dei dipendenti telefonici, Mauro Sentinelli porta a casa ogni giorno qualcosa come 3 mila euro. Lordi, certamente, ma comunque imparagonabili alle milioni di pensioni "normali" di "normali" e lavoratori.

A riportare in auge questa annosa questione delle pensioni d'oro una interrogazione parlamentare della deputata Pdl Deborah Bergamini, alla quale ha risposto il Ministro del Lavoro Enrico Giovannini.

Non che Sentinelli sia un parassita della società: ingegnere con una lista di master e lauree da far rabbrividire, ideò tra le altre cose la scheda ricaricabile TimCard che fece guadagnare all'azienda miliardi a palate.

Non sia detto nemmeno che Sentinelli e  i centomila pensionati d'oro (che costano allo Stato 13 miliardi di euro l'anno) stiano "rubando": il loro trattamento è infatti perfettamente legale, frutto delle allora allegre leggi che permettevano di accumulare trattamenti da nababbo.

Scopo dell'interrogazione che, ovviamente, ha avuto una notevole risonanza mediatica, era quello di porre l'accento su una tematica troppo importante per essere lasciata nel cassetto.

Infatti la Bergamini ha commentato: "questi numeri dimostrano tutta la portata distorsiva di quel criterio retributivo dal quale ci stiamo fortunatamente allontanando grazie alle riforme pensionistiche degli ultimi anni. Benché gli interventi in materia siano particolarmente delicati, anche sul fronte della costituzionalità, e avendo cura di evitare qualsiasi colpevolizzazione verso i beneficiari di questi trattamenti, che li hanno maturati secondo le regole vigenti, è evidente che il tema coinvolge una questione di equità e di coesione sociale non più trascurabile dalle istituzioni, specialmente in un momento di grave crisi economica e di pesanti sacrifici per tutti".

Tornando ai pensionati di lusso, il secondo trattamento più alto è pari a 66 mila euro mensili.

 Ignoto il nome del fortunato beneficiario, mentre al terzo posto, con 51 mila euro, dovrebbe esserci l'ex direttore generale di Interbanca e dell'Inter Football Club, Mauro Gambaro. 

Un po' di confusione sull'ex di Infostrada e Telecom, Alberto De Petris. Per qualche testata porta a casa 41 mila euro, per altre è il misterioso secondo pensionato più ricco.

Al di là dei nomi, bisogna riflettere sulle cifre e sull'opportunità o meno di andarle a tassare più severamente di quelle dei comuni mortali.

Un tema quanto mai spinoso che, forse, cadrà come sempre nel vuoto.

Il professor Vittorino Andreoli: "L'Italia è un Paese malato di mente. Esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti"

“L’Italia è un paziente malato di mente. Malato grave. Dal punto di vista psichiatrico, direi che è da ricovero. Però non ci sono più i manicomi”. Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciencese presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association ha messo idealmente sul lettino questo Paese che si dibatte tra crisi economica e caos politico e si è fatto un’idea precisa del malessere del suo popolo. Un’idea drammatica. Con una premessa: “Che io vedo gli italiani da italiano, in questo momento particolare. Quindi, sia chiaro che questa è una visione degli altri e nello stesso tempo di me. Come in uno specchio”.
Quali sono i sintomi della malattia mentale dell’Italia, professor Andreoli?
“Ne ho individuati quattro. Il primo lo definirei “masochismo nascosto”. Il piacere di trattarsi male e quasi goderne. Però, dietro la maschera dell’esibizionismo”.
Mi faccia capire questa storia della maschera.
“Beh, basta ascoltare gli italiani e i racconti meravigliosi delle loro vacanze, della loro famiglia. Ho fatto questo, ho fatto quello. Sono stato in quel ristorante, il più caro naturalmente. Mio figlio è straordinario, quello piccolo poi…”.
Esibizionisti.
“Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che generalmente l’esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l’impotenza”.
Viene da pensare a certi politici. Anzi, a un politico in particolare.
“Pensi pure quello che vuole. Io faccio lo psichiatra e le parlo di questo sintomo degli italiani, di noi italiani. Del masochismo mascherato dall’esibizionismo. Tipo: non ho una lira ma mostro il portafoglio, anche se dentro non c’è niente. Oppure: sono vecchio, però metto un paio di jeans per sembrare più giovane e una conchiglia nel punto dove lei sa, così sembra che lì ci sia qualcosa e invece non c’è niente”.
Secondo sintomo.
“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.
Cattivo.
“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.
Terzo sintomo della malattia mentale degli italiani?
“La recita”.
La recita?
“Aaaahhh, proprio così… noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l’italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto. Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l’attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?”.
Che fanno gli inglesi?
“Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale. Mi permetta di ricordare uno che aveva capito benissimo gli italiani, che era Luigi Pirandello. Aveva capito la follia perché aveva una moglie malata di mente. Uno nessuno e centomila è una delle più grandi opere mai scritte ed è perfetta per comprendere la nostra malattia mentale”.
Torniamo ai sintomi, professore.
“No, no. Rimaniamo alla maschera. Pensi a quelli che vanno in vacanza. Dicono che sono stati fuori quindici giorni e invece è una settimana. Oppure raccontano che hanno una terrazza stupenda e invece vivono in un monolocale con un’unica finestra e un vaso di fiori secchi sul davanzale. Non è magnifico? E a forza di raccontarlo, quando vanno a casa si convincono di avere sul serio una terrazza piena di piante. E poi c’è il quarto sintomo, importantissimo. Riguarda la fede…”.
Con la fede non si scherza.
“Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c’è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. E’ una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l’altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c’è il miracolo”.
Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.
“Proprio così. Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l’Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto. Se ti togliessi la maschera ti vergogneresti, perché abbiamo perso la faccia dappertutto. Se ti togliessi la fede, ti vedresti meschino. Insomma, se trattassimo questo paziente secondo la ragione, secondo la psichiatria, lo metteremmo in una condizione che lo aggraverebbe. In conclusione, senza questi sintomi il popolo italiano non potrebbe che andare verso un suicidio di massa”.
E allora?
“Allora ci vorrebbe il manicomio. Ma siccome siamo tanti, l’unica considerazione è che il manicomio è l’Italia. E l’unico sano, che potrebbe essere lo psichiatra, visto da tutti questi malati è considerato matto”.
Scherza o dice sul serio?
“Ho cercato di usare un tono realistico facendo dell’ironia, un tono italiano. Però adesso le dico che ogni criterio di buona economia o di buona politica su di noi non funziona, perché in questo momento la nostra malattia è vista come una salvezza. E’ come se dicessi a un credente che dio non esiste e che invece di pregare dovrebbe andare in piazza a fare la rivoluzione. Oppure, da psichiatra, dovrei dire a tutti quelli che stanno facendo le vacanze, ma in realtà non le fanno perché non hanno una lira, tornate a casa e andate in piazza, andate a votare, togliete il potere a quello che dice che bisogna abbattere la magistratura perché non fa quello che vuole lui. Ma non lo farebbero, perché si mettono la maschera e dicono che gli va tutto benissimo”.
Guardi, professore, che non sono tutti malati. Ci sono anche molti sani in circolazione. Secondo lei che fanno?
“Piangono, si lamentano. Ma non sono sani, sono malati anche loro. Sono vicini a una depressione che noi psichiatri chiamiamo anaclitica. Penso agli uomini di cultura, quelli veri. Che ormai leggono solo Ungaretti e magari quel verso stupendo che andrebbe benissimo per il paziente Italia che abbiamo visitato adesso e dice più o meno: l’uomo… attaccato nel vuoto al suo filo di ragno”.
E lei, perché non se ne va?
“Perché faccio lo psichiatra, e vedo persone molto più disperate di me”.
Grazie della seduta, professore.
“Prego”.

Partite Iva, Acta: “Si pensi davvero ai futuri pensionati”

Partite Iva, Acta: “Si pensi davvero ai futuri pensionati” da:
http://nuvola.corriere.it/2013/07/26/partite-iva-acta-si-pensi-davvero-ai-futuri-pensionati/

di Anna Soru*
Continuo il dibattito con Costanzo Ranci, che mi sembra abbia travisato la nostra proposta. Mi rendo conto che la materia è complessa e probabilmente non siamo capaci di spiegarla adeguatamente. Ringrazio Costanzo perché spero che questo scambio possa aiutare a chiarire.
• Non abbiamo elaborato una proposta per chi ha più di 90.000 euro. Non è mai stato nelle nostre intenzioni e non avrebbe avuto alcun senso. Forse non tutti lo sanno, ma mentre sino a 90.000 euro la contribuzione previdenziale è una quota fissa del reddito, sopra tale cifra i contributi vanno a zero.
Chi ha reddito molto elevato è relativamente indifferente agli aumenti della contribuzione pensionistica. Lo ripeto: abbiamo escluso chi ha più di 90.000 dalla proposta “garantita” perché è una proposta fiscalmente vantaggiosa.
• Sulla solidarietà c’è un’ambiguità di fondo. L’attuale sistema contributivo prevede che chi versa i contributi riceva in proporzione a quanto versato, senza alcuna solidarietà intragenerazionale (tra “ricchi” e “poveri” che vanno in pensione in contemporanea). La solidarietà è intergenerazionale, a vantaggio delle generazioni precedenti, alle quali, in nome di diritti acquisiti, vengono assicurati dei privilegi concessi nel passato da politiche dissennate.
I futuri pensionati contributivi non solo non potranno contare su un trattamento analogo, ma, per garantire i privilegi dei pensionati attuali, non hanno diritto neppure a un’adeguata remunerazione di quanto versato (in questi anni di recessione il rendimento è negativo!). Le soluzioni potrebbero essere diverse, ad esempio pagare i diritti acquisiti (entro limiti di decenza) con la fiscalità generale, non con la contribuzione previdenziale che, per la modalità con cui è strutturata, è regressiva (chi ha meno di 90.000 euro versa in proporzione più di chi supera tale cifra) .
• Noi siamo favorevoli ad una previdenza che sia realmente solidale, infatti avevamo appoggiato la proposta Cazzola sulle pensioni che andava in questa direzione, che reintroduceva dei meccanismi solidaristici persi con il sistema contributivo. La proposta, purtroppo, non è mai stata neppure discussa. E non mi risulta che altre organizzazioni di rappresentanza l’abbiano sponsorizzata.
• Nel frattempo è stato deciso l’aumento della nostra contribuzione al 33%, come sempre per fare cassa. A questo proposito ricordo la definizione della Cassazione , secondo cui il versamento alla gestione separata non è un contributo, ma “una tassa aggiuntiva su determinati tipi di reddito[…] per fare cassa e costituire un deterrente economico all’abuso di tali forme di lavoro “ (Cass. Civ. SSUU, 3240/10).
• L’aumento al 33% porterebbe la nostra contribuzione previdenziale ad un livello largamente superiore a quella di tutti gli altri lavoratori, inclusi i dipendenti (su questo rimando ai calcoli fatti dal CERM, che dimostrano come già oggi la nostra contribuzione supera quella dei dipendenti.
Mi dispiace ma se non si fanno i conti non si può avere una reale cognizione della situazione). Non a caso nella nostra proposta per il sistema garantito diciamo che la contribuzione va calcolata come per i dipendenti, perché sappiamo che è un calcolo che ne ridimensiona significativamente la reale incidenza.
• Nelle nostre proposte non c’è mai stata alcuna ipotesi di uscita dal welfare.
• Siamo d’accordo su un sistema di welfare universale che prescinda dalla modalità di lavoro. In tanti ne parlano, ma non ci sono le coperture e quindi si rinvia alle calende greche. Nel frattempo noi siamo quelli che pagano di più, perché, lo ripeto, abbiamo un carico contributivo-fiscale analogo a quello dei dipendenti ma senza le stesse prestazioni di welfare. Chiedere di poter essere riportati o verso una situazione di maggiori garanzie (come i dipendenti) o verso una situazione di minori costi (come gli altri autonomi), non significa chiedere privilegi, ma cercare una strada per sopravvivere.
• In un contesto che mantiene costi e regole molto differenziate non si può negare che ci sia anche un uso opportunistico e imposto della partita iva, che esistano finte partite iva. Siamo convinti che siano una minoranza e che non si debbano distruggere le vere nella battaglia alle finte. La nostra proposta mira a contemperare esigenze diverse con un approccio non punitivo, a creare delle condizioni di vantaggio e tutela per il lavoratore costretto ad aprire una partita iva.
• Chi lavora per imprese e pubblica amministrazione ha possibilità di evasione limitate, analoghe a quelle di dipendenti (ricordiamo che anche questi non sono esenti, ad esempio possono essere pagati in nero per straordinari o per lavori svolti mentre sono in cig). Diverso è il caso di chi lavora per i consumatori finali, per i quali l’evasione è un’opzione facilmente percorribile.
La nostra proposta “garantita” e fiscalmente vantaggiosa è diretta esclusivamente a chi lavora per imprese e PA. Ci siamo sempre espressi con favore rispetto ad ogni forma di controllo fiscale (tracciabilità del contante, incroci tra banche dati etc), chiediamo solo che studi di settore e redditometro siano utilizzati come strumenti indicativi, senza scaricare l’onere della prova sul contribuente, perché questa spesso è difficile da fornire.
• Pieno accordo sulla necessità di un serio patto fiscale. Uno dei punti della nostra piattaforma è : pagare tutti, pagare il giusto. Non siamo certo noi a tirarci indietro! Rinnovo l’invito a Costanzo Ranci a parlarne di persona in uno degli incontri che organizzeremo dopo agosto, ma naturalmente sono disponibile a proseguire il confronto su questo blog, sul nostro sito o altrove.
*presidente Acta, associazione consulenti terziario avanzato

Il padrone kazako di M. Giannini


Il padrone kazako


UNA democrazia non può e non deve avere paura della verità. Per questo lo scandalo kazako segna una pagina nera della democrazia. E per questo la scelta della «strana maggioranza », che chiude gli occhi di fronte alla colossale operazione di manomissione della realtà e blinda l’esecutivo solo in nome della realpolitik, non aiuta la causa della buona democrazia.

 Angelino Alfano ha mentito al Parlamento e al popolo sovrano. 

«È un fatto gravissimo: non ero stato informato io, né i miei colleghi, né il presidente del Consiglio». Questo dice al Senato, il ministro dell’Interno, dando lettura puntigliosa e testuale delle sei cartelle che compongono, da pagina 8 a pagina 13, la parte della relazione del prefetto Pansa intitolata “Il flusso informativo”. Nulla sapeva, dunque, di ciò che è avvenuto tra il 28 e il 31 maggio, quando l’ambasciatore kazako Adrian Yelemessov chiede e ottiene dal Viminale che la moglie e la figlia di un noto dissidente siano «sequestrate» e rispedite, con procedure contrarie al diritto interno e internazionale, in un Paese il cui regime pratica abitualmente la tortura.

Quello che invece non dice ai senatori, il ministro dell’Interno, è ciò che è scritto nelle sette cartelle precedenti di quel rapporto, intitolate “Cronologia dei fatti”, dove alla pagina 2 si può leggere ciò che accadde davvero «il 28 maggio», «nella serata»: «Il ministro dell’Interno, a seguito di ulteriori telefonate dell’Ambasciatore, cui non ha risposto, fa incontrare lo stesso con il suo Capo di gabinetto». Quello che non dice ai senatori, il ministro dell’Interno, e ciò che invece riconosce il suo stesso Capo di Gabinetto, ora costretto alle dimissioni e finora unico capro espiatorio dell’intera vicenda, nell’intervista non smentita rilasciata ieri a “Repubblica”. Alla domanda di Carlo Bonini: «Era stato il ministro Alfano a chiederle di ricevere l’ambasciatore kazako?», Giuseppe Procaccini testualmente risponde: «Sì. Ero stato informato che l’ambasciatore doveva riferirmi una questione molto delicata ». E poco più avanti, alla domanda: «Dunque il 29 maggio il ministro dell’Interno sapeva che la diplomazia kazaka aveva chiesto l’arresto di un latitante? », il funzionario ammette: «Sì. Di un pericoloso latitante».

Eccole, se ancora ce ne fosse bisogno, le prove dell’omertà che rendono indifendibile Alfano, e non più sostenibile la sua posizione dentro il governo. Per un mese e mezzo il ministro dell’Interno, e con lui quello degli Esteri, hanno vissuto o hanno fatto finta di vivere in un vuoto politico e pneumatico, dove la sovranità statuale è stata sospesa, e dove la potestà ministeriale è stata disattesa. Alfano e Bonino non hanno visto, sentito o parlato. E hanno lasciato che, a ordinare, a gestire e a decidere della sorte di due cittadine straniere, sul territorio italiano, fosse il «padrone kazako», cioè il satrapo dispotico Nursultan Nazarbaeyev, attraverso i suoi messi diplomatici. Lo dicono i fatti, e lo confermano i documenti ufficiali.

È Yelemessov, la sera del 28 maggio, a irrompere al Viminale, ad esigere il blitz nella villetta di Casal Palocco, a prendere parte insieme ai funzionari della Ps alla «riunione operativa» nell’ufficio di Procaccini, che lo stesso (ex) Capo di Gabinetto, nell’intervista a “Repubblica” di ieri, racconta sia «finita molto tardi».

È Yelemessov, attraverso il suo consigliere Khassen, a forzare la Questura di Roma per avviare l’operazione, spiegando che il dissidente Ablyazov «è un criminale pericoloso in contatto con gruppi armati terroristici ». È Yelemessov, attraverso Khassen, a concordare il 30 maggio (dopo il blitz che non ha portato alla cattura di Ablyazov, ma al sequestro di sua moglie e sua figlia) le procedure di espulsione di Alma e di Alua, a «rappresentare alla Questura il timore che un transito a Mosca possa diventare l’occasione per un attacco organizzato dal ricercato», e a comunicare alla stessa Questura che la Shalabayeva «potrebbe usare un passaporto falso della Repubblica del Centro Africa» (comunicazione poi rivelatasi a sua volta falsa). È Yelemessov, attraverso Khassen, a fornire il 31 maggio alla Questura i documenti di viaggio di Alma e Alua e a proporre «la possibilità di un volo diretto verso la capitale del Kazakhstan, in partenza dall’aeroporto di Ciampino alle ore 17». E infine è ancora Yelemessov, attraverso Khassen, a prendere direttamente in carico madre e figlia poco prima delle 17 del 31 maggio, e ad imbarcarle «sul volo della compagnia austriaca Avcon Jet, proveniente da Lipsia e diretto ad Astana».

Com’è evidente, per ragioni che vanno al di là della pura e semplice inefficienza delle burocrazie amministrative, un bel pezzo di sicurezza nazionale è stata nelle mani delle autorità kazake, mentre quelle italiane si bagnavano nell’acqua di Ponzio Pilato. Il “padrone kazako” è stato il vero gestore di questa «rendition all’amatriciana », che ha ridicolizzato l’Italia di fronte al mondo e l’ha esposta a una più grave violazione dei diritti umani nei confronti di una donna e della sua figlioletta di sei anni. Può ritenersi soddisfatto, l’ambasciatore kazako, che ora un’indignata Bonino convoca inutilmente alla Farnesina. Yelemessov se n’è già andato in ferie: un meritato «viaggio premio», perché lui la sua «missione» può dire di averla a tutti gli effetti compiuta.

Sono le autorità politiche e amministrative italiane che, invece, la loro missione l’hanno miseramente fallita, o volutamente sfuggita. Bisognava ammetterlo subito, senza rifugiarsi dietro l’ormai solita scusa tartufesca del misfatto «a mia insaputa». Bisognava che Alfano lo riconoscesse subito, assumendosi fino in fondo e a viso aperto le sue responsabilità, senza scaricarle sulla tecnostruttura che comunque dipende da lui, e senza la penosa e pelosa «chiamata di correo» nei confronti di Enrico Letta. «Né io né il premier sapevamo nulla», ribadisce il ministro. A sproposito, perché nessuno ha mai insinuato che il presidente del Consiglio sapeva o avrebbe dovuto sapere fin dall’inizio cosa successe in quei frenetici giorni di fine maggio, nel quadrilatero oscuro Viminale- Casal Palocco-Ponte Galeria-Ciampino. 

Questa colpa «in vigilando», o questo dolo «in agendo», pesa tutto intero sulle spalle del ministro dell’Interno. Che se non sapeva è stato negligente, e se sapeva è stato reticente. Forse ha agito in base a ordini superiori, vista la spregiudicata disinvoltura con la quale la «falange kazaka» ha orchestrato e diretto le operazioni italiane, certa di poter pretendere un «sequestro di persona» in cambio dei buoni affari conclusi a suo tempo dall’ex premier Berlusconi con gli zar del petrolio ex sovietico. Forse è stato addirittura scavalcato dal suo leader, che di Nazarbayev è molto più amico di quanto non riconosca lui stesso nell’intervista al “Corriere della Sera” di ieri, in cui il Cavaliere blinda Alfano e il governo definendo «assurde queste mozioni di sfiducia presentate dalle opposizioni, che impegnano il Parlamento e fanno perdere tempo in un momento così difficile e preoccupante». Non male, detto dal capo-popolo di un partito che solo una settimana fa, dopo la semplice fissazione di un’udienza della Cassazione, ha minacciato l’Aventino chiedendo la «serrata » delle Camere per tre giorni consecutivi.

Comunque siano andate le cose, Alfano aveva il dovere di dimettersi da ministro dell’Interno. 
E quel dovere lo ha ancora. Non è troppo tardi, per un gesto di serietà istituzionale e di onestà intellettuale di fronte al Paese. E il Pd non dovrebbe dividersi né provare imbarazzi inutili, nell’invocare ed esigere quel gesto. Non dovrebbe rassegnarsi alla logica che lega inestricabilmente la sorte personale di Alfano a quella del governo. E invece è esattamente quello che fa: scivolando sempre di più, in nome di una governabilità a qualsiasi costo, sul piano inclinato del compromesso al ribasso. Si dice che la richiesta delle dimissioni di Alfano indebolisce il governo, o addirittura lo espone al rischio di una crisi.

Ma proviamo a rovesciare la visuale. È quello che è accaduto, cioè lo scandalo kazako, ad aver indebolito irrimediabilmente il governo e ad averlo esposto al pericolo di una caduta. Non è quello che dovrebbe accadere, cioè la doverosa uscita di scena di chi ha sbagliato, a minacciare la sopravvivenza della Grande Coalizione. Se non si erigono le barricate dell’ideologia, è possibile separare il destino del ministro dell’Interno dal futuro delle Larghe Intese. Il governo Letta potrebbe persino rafforzarsi, se riuscisse ad uscire da questo pasticcio kazako con una soluzione decorosa. L’autoassoluzione della politica, che per durare insegue di volta in volta l’impunità formale e sostanziale, non lo è affatto. Se la «pacificazione» produce assuefazione, non ci rimette solo la sinistra. Ci rimette l’Italia.

da: http://www.repubblica.it/politica/2013/07/18/news/il_padrone_kazako-63210562/

Bankitalia: "La crisi ha distrutto tutti i settori dell'industria italiana"

Bankitalia: "La crisi ha distrutto
tutti i settori dell'industria italiana"

Da uno studio di via Nazionale emerge come "in tutti i comparti industriali i livelli produttivi sono inferiori a quelli precedenti la crisi". A pesare è soprattutto l'imposizione fiscale e i costi dell'energia. Tuttavia, c'è spazio per la ripresa se le imprese "sapranno trasformarsi"



MILANO
 - La crisi ha distrutto l'industria italiana: "La perdita di produzione ha assunto dimensioni preoccupanti" e "in tutti i comparti industriali i livelli produttivi sono inferiori a quelli precedenti la crisi". E' l'estrema sintesi di un ampio studio di Bankitalia sul sistema industriale italiano: "Dall'analisi - si legge - emerge un quadro di diffusa debolezza".

Lo studio di via Nazionale sottolinea come il costo del lavoro, "se valutato al netto della tassazione, non risulta un fattore di freno primario per la competitività delle imprese italiane" mentre "i costi dell'energia e una pressione fiscale molto elevata sull'economia regolare rendono più difficile alle imprese competere". Come se non bastasse la crisi ha appesantito le difficoltà
del made in Italy innestandosi su una tendenza di più lungo periodo.

Il tessile e le calzature hanno mostrato dall'aprile 2008 un calo del 30,7 e del 39,3% ma se si sale alla seconda metà degli anni novanta è il calo è del 50-70%. 

Tuttavia, secondo gli esperti di Bankitalia, "vi sono buone ragioni per dubitare che il destino dell'industria italiana sia segnato. Il suo declino non è irreversibile, purché le imprese sappiano trasformarsi. Un gran numero di imprese riesce ad essere competitivo in un contesto meno favorevole di altri".


Da http://www.repubblica.it/economia/2013/07/14/news/bankitalia_industria_crisi-62967972/?ref=HREC1-11
 

Il Made in Italy sotto i tacchi


Dal Corriere:
http://www.corriere.it/inchieste/reportime/economia/made-italy-sotto-tacchi/38d22b3c-e4c9-11e2-8ffb-29023a5ee012.shtml

"(...) ecco la seconda tappa del Made in Italy: la Riviera del Brenta, tra Venezia e Padova, capitale della scarpe griffate.
Capitale ancora per poco se i nostri marchi continuano a cullarsi sulla convinzione che il mondo non si accorgerà mai del trucco sotto il tacco marchiato Made in Italy. Oggi l’export del prodotto di lusso regge bene alla crisi soprattutto grazie ai mercati emergenti. Basterebbe un po’ di lungimiranza per prevedere che i russi e i cinesi con i portafogli griffati non acquisteranno più il Made in Italy quando scopriranno che stanno pagando per una scritta esclusiva che mente sull’origine della produzione artigianale.
La norma sull’etichettatura europea infatti consente di realizzare all’estero le parti più importanti di qualunque prodotto manifatturiero e le nostre marche prediligono l’Europa dell’est e l’Asia grazie ai bassi costi della manodopera. Anche molte delle griffes francesi si spingono in Serbia, Romania, Cina e Indonesia per poi assemblare nella Riviera del Brenta le parti realizzate all’estero. La legge truffa lo consente. Alle griffes francesi conviene. I loro marchi del lusso, dopo avere comprato gli italiani Gucci, Bottega Veneta, Sergio Rossi e via dicendo, producono soprattutto in quei distretti italiani dell’artigianato che ancora godono di prestigio.
Il discredito che potrebbe colpire quei distretti può penalizzare soltanto il brand più prezioso: il nostroMade in Italy. I politici di casa nostra non hanno difeso l’esclusività della nostra manifattura artigianale quando hanno approvato regolamenti europei sull’etichettatura che consentono di marchiare Made in Italy prodotti realizzati in gran parte all’estero. Sono i responsabili della perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro della piccola e media impresa in favore di quella grande che ha ridotto i costi.
«I dati parlano chiaro», sostiene Matteo Ribon della Cna Federmoda Veneto «il fatturato del settore è lo stesso da dieci anni e la produzione si aggira sempre intorno ai 20 milioni di scarpe l'anno quindi è evidente che a perderci sono gli Italiani, in particolare gli artigiani annientati dalla doppia concorrenza: quella straniera causata dalla delocalizzazione e quella dei Cinesi che lavorano qui nel distretto».
Nel settore pelli calzature dal 2001 al 2012 le imprese individuali cinesi sono aumentate da 30 a 205 mentre hanno chiuso bottega 90 imprese artigiane italiane. I Cinesi hanno sostituito gli Italiani a colpi di concorrenza sleale. Illegalità, sfruttamento della manodopera (spesso in nero) sono alla base di un’inesorabile avanzata dei laboratori cinesi in tutti i distretti del Made in Italy.
La statistica smentisce impietosamente l’ipocrisia dei committenti italiani che fingono di non sapere perché i terzisti cinesi ai quali affidano la propria merce sono così rapidi, flessibili e concorrenziali. Tutte (proprio tutte) le volte che le forze dell’ordine si ricordano di effettuare un controllo nelle aziende “artigianali” cinesi, riscontrano almeno una delle seguenti irregolarità: impiego della manodopera in nero, riduzione in schiavitù di clandestini, violazione delle norme sulla sicurezza dei lavoratori, evasione contributiva e ovviamente fiscale. Avere sempre una mazzetta di soldi in nero sotto il bancone è particolarmente utile.
Le griffes delle scarpe sono state le prime in Italia ad arruolare direttamente terzisti cinesi. Ma non vedono, non sentono e non parlano. Però pagano a prezzo scontato le tomaie, che è poi la parte più artigianale della scarpa. Mentre i prezzi delle loro pregiate scarpe Made in Italy non sono affatto diminuiti. Sono invece drasticamente crollati i posti di lavoro per gli artigiani italiani.
L’Associazione tomaifici terzisti veneti presieduta dall’artigiano Federico Barison riunisce una quarantina di terzisti stanchi di aspettare che i politici regionali, la magistratura e le forze dell’ordine si accorgano della nuova “mala” del Brenta. Un esposto arrivato un anno fa alla Procura della Repubblica di Venezia non ha modificato lo scenario. Un paio di controlli e tutto è rientrato. Stranamente i controlli sono invece aumentati nei confronti degli associati.
Matteo Ribon della Cna denuncia: «Quest'anno ci sono 250 dipendenti di tomaifici e terzisti in cassa integrazione e venti aziende sono a rischio chiusura. Ovviamente solo italiane. Non mi risulta che quelle cinesi facciano richiesta di cassa integrazione».
Nel video registrato con camera nascosta si vedono numerosi operai cinesi intenti a cucire tomaie in un laboratorio della Riviera. Da una verifica è poi risultato che il titolare cinese aveva registrato presso l’ufficio preposto soltanto due dipendenti. Gli altri lavoravano in nero e non è dato sapere se fossero anche clandestini. L’imprenditore cinese cuciva tomaie a metà prezzo per una nota marca italiana che qualche mese prima l’aveva preferito all’artigiano italiano, che in mancanza di lavoro è stato costretto a mettere in cassa integrazione le sue operaie. Un altro costo per la collettività.
Finché non si applicheranno severe sanzioni anche contro i committenti e finché non si farà una norma che disponga la distruzione della merce pregiata trovata nei laboratori irregolari non cambierà niente. Il prestigio del Made in Italy resiste finché i panni sporchi continuano a essere lavati in famiglia. Denunciare è l’unica arma rimasta in mano agli artigiani.
Alle griffes per ora sta andando di lusso perché i cinesi (ricchi) non si sono accorti che potrebbero fare già tutto in casa, arruolando quelli (poveri), soprattutto gli emigrati in Italia per lo più illegalmente. Hanno goduto di dieci anni di impunità per trasformarsi in abili esecutori dell’eccellenza artigianale. Le stesse griffes hanno delocalizzato parte della produzione in Cina esportando le nostre preziose competenze su materiali, macchinari e tecniche di manifattura. Proprio dei maestri."