Ormai le ricerche di prodotto si fanno on line

E' da diverso tempo che Stilinga ha smesso di comprare riviste di moda, per alcunni motivi in fin dei conti, davvero molto semplici:

ancora nel suo studio, il pavimento è occupato da 2 o 3 colonne di riviste da selezionare, i ritagli delle riviste selezionate occupano almeno mezza libreria, spendere anche pochi euro per mammut di 500 pagine da dover poi per forza selezionare e soprattutto 500 pagine di pubblicità pura e cruda, pare piuttosto superfluo, oltre che impegnativo e soprattutto, e questo è il motivo principale, Stilinga da un bel pezzo le ricerche prodotto e marketing, le fa on line.

Non solo si occupa di tutto ciò con grande leggiadria ed efficacia, ma anche riesce ad avere delle dritte pazzesche in termini di idee nuove, per esempio nel mondo della calzatura se si volesse volare non alto ma altissimo, Stilinga consiglia caldamente il seguente sito omonimo di cotanta stilista:      
 http://www.anastasiaradevich.com/

mentre se si volesse approfondire il fetish, tradotto sulle scarpe che risulta molto più ardito di tanti altri casi, Stilinga direbbe:
 http://kobilevidesign.blogspot.com/
insomma si fanno delle scoperte davvero interessanti e soprattutto non si devono sfogliare a mano e poi smazzettare riviste che occupano spazio e pesano un bel po'!

La fine del Made in Italy 2

Il mercante nigeriano e le mie stoffe senza valore

di Edoardo Nesi


da la Repubblica — 08 ottobre 2010



Pochi mesi prima che vendessi l' azienda della mia famiglia, un pomeriggio si presentò in portineria il primo stocchista nigeriano della nostra storia. Gigantesco ed elegantissimo in una di quelle loro lunghe vesti colorate, sorrise e chiese in un perfetto italiano di vedere lo stock. Carmine, il nostro magazziniere letterario, gli mostrò subito il pianale delle pezze di Serengeti.
Quando il nigeriano disse che era molto interessato a comprarle tutte, Carmine venne di corsa a chiamarmi in sala campionario. Il Serengeti era un articolo finissimo di cotone per camiceria, che avevamo iniziato a produrre qualche anno prima per riempire i terrificanti, improvvisi vuoti di produzione lasciati in tessitura dal nostro tradizionale cardato di lana. Riuscimmo a venderlo a un grande stilista italiano, che ci dette dei suoi disegni esclusivi da riprodurre in fantasie elegantissime da realizzare in sfumature cipriate di azzurrie grigi che tingemmo in piccoli crogiuoli alchemici con un lavoro certosino.

Fu un bel momento quando vidi le camicie fatte col Serengeti in vendita a 400 dollari nelle vetrine della boutique di Madison Avenue di questo grande stilista, anche se dovetti impedirmi di ricordare che il tessuto glielo vendevamo a 14.000 lire al metro,e per fare una camicia ci vuole, suppergiù, un metro di tessuto.

Purtroppo, per accidenti vari, ogni anno qualche pezza di Serengeti ci rimaneva in magazzino e diventava assolutamente invendibile: il grande stilista non le voleva più perché ogni anno doveva cambiare disegno, gli altri clienti non le volevano perché era riconoscibile il disegno del grande stilista, e gli stocchisti italiani non si avvicinavano nemmeno alle pezze di cotone. Quando entrai in sala campionario e strinsi la mano al nigeriano, capii subito che era davvero interessato.

Gli raccontai che col Serengeti venivano cucite le camicie di uno degli stilisti più noti al mondo, e gli dissi anche il nome. Vantai la finezza del filato, la delicatezza dei colori, la rifinizione morbida eppure lucente, la ricchezza della mano del Serengeti. Poi, in un soffio, dal chimerico prezzo di listino di 14.000 lire calai a 3.000. Il nigeriano alzò lo sguardo dal tessuto e disse subito che per lui era troppo, però continuava a sembrarmi davvero interessato. Non è una sensazione facile da spiegare, ma dopo aver passato anni a fare trattative ogni giorno, te ne accorgi se uno vuole fare affari o solo farti perdere tempo. Gli chiesi quanto poteva pagare. Il nigeriano rispose 500 lire, il che era davvero pochissimo, nulla. Carmine sbuffò, irritato. Poi il nigeriano precisò. Naturalmente, 500 lire al chilo.

Poiché il Serengeti pesava poco più di 100 grammi al metro, il nigeriano mi stava offrendo circa 50 lire al metro. Rimasi in silenzio, pensando al Made in Italy, mentre lui mi spiegava che aveva fermo al porto di La Spezia un container da 40 piedi già quasi completamente riempito di pezze di lana che doveva partire il giorno dopo per Lagos, e lo spedizioniere gli aveva detto che il viaggio era molto lungo e durante la navigazione c' era il rischio che le pezze di lana si muovessero dentro al container, e che il tessuto si potesse rovinare.

Lo sguardo di Carmine si fece vitreo, aveva capito prima di me. Il nigeriano aggiunse che non aveva mai sentito nominare questo signor stilista di cui gli avevo parlato. Mai, nemmeno una volta. Disse che le mie pezze di cotone avevano un diametro minore delle pezze di lana che aveva già comprato, e lui voleva comprarle perché sarebbero state perfette per fare da zeppa tra le pezze di lana, che così non si sarebbero mosse dentro il container durante il viaggio verso Lagos. Le voleva in tutti i modi, le mie pezze di Serengeti. Mi avrebbe offerto anche 550 lire al chilo, se gliele vendevo tutte. Anche 600.

L' autore ha recentemente pubblicato "Storia della mia gente", un viaggio nella crisi dell' industria tessile toscana - EDOARDO NESI



Fine del Made in Italy e deindustrializzazione in Italia

Stilinga è stata molto colpita dal seguente articolo che fotografa la situazione di deindustrializzazione dell'Italia e la fine del Made in Italy:

Chi ha fermato l' Italia dei telai
Maurizio Crosetti


da la Repubblica — 08 ottobre 2010


Tutto questo ferro immobile, morto. Quintali, tonnellate di cadaveri arrugginiti. Tutto questo ferro inutile, da glorioso che era: il ferro dei filatoi migliori al mondo, il meraviglioso fuso dell' alta moda italiana, il ciclopico ago con il quale i più grandi stilisti tessevano bellezza, reddito, eleganza, sogni.

Ma Biella s' è ferita, come la Bella Addormentata. E nessun principe passa più di qui, sulla statale che da Cossato punta verso "la città della lana". Solo gli autocarri sfiorano i capannoni deserti, le fabbriche sprangate.

Scatole vuote, telai da buttare. Fino a qualche anno fa, li compravano i turchi e i cinesi, ma adesso sono più ricchi di noi e vogliono l' ultimo grido tecnologico: il filatoio usato possiamo pure tenercelo. Dunque, non resta che rottamare. Non resta che svendere un tanto al chilo (quindici centesimi, una miseria) l' antica ricchezza. «Conviene di più spaccare il vecchio filatoio, l' ho fatto anch' io».

Il signor Vincenzo Monteleone è un giovanotto di ottantacinque anni. La sua azienda, la "Monteleone Group" di Valle Mosso, revisiona, smonta e rivende macchinari tessili. Ma qualche volta li rottama, sempre più spesso. «C' è chi non vuole cederli alla concorrenza, per non rinforzarla. Bisogna accettarlo: il tessile italiano scomparirà. Io l' ho capito in trattoria, dove non trovo più una sola tovaglia di cotone, ormai è tutta carta, il "tessuto non tessuto". Ci salva un po' la qualità, con gli abiti, ma sempre meno».

Alle aziende in crisi (nel Biellese, nel 2009 ne sono scomparse 142) non resta che prendere a martellate le macchine inservibili, e metterle sulla bilancia del ferrovecchio. «Si ricavano 150 euroa tonnellata, una scemenza, ma almeno ci si libera dall' ingombro. Le nostre macchine sono del tutto superate, neanche nel terzo mondo le vogliono più. Quando si rottama un telaio, bisogna stare attenti alle parti in rame e ottone, che possono valere mille euro a tonnellata, e poi si dà tutto al raccoglitore di rottami».

Il signor Vincenzo non la fa tanto romantica, gliel' ha insegnato la vita. «Un giorno i tedeschi vennero a prendermi a scuola e mi deportarono in Polonia, poi sono tornato ma non mi faccia ricordare». Dentro quel ferro morto ci sono le storie delle persone, generazioni di fatiche e sacrifici. C' è l' eco di un rumore lontano, il baccano che fa il lavoro quando si muove e mantiene famiglie, e strizza sudore dai panni. Poi cala questo silenzio di morte. «Chi prova a smontare un vecchio filatoio per rimontarlo altrove, spesso non si paga neanche le spese».

Giancarlo Lorenzi, sindacalista, segretario della Femca Cisl, ormai racconta vicende che sembrano fatte solo di epiloghi. «Dieci anni di crisi durissima, migliaia di posti di lavoro perduti, altri per fortuna mantenuti o spostati, e almeno tremila persone a spasso. In Cina non comprano più il nostro usato, neanche danno più lavoro ai nostri tecnici, gente con una manualità e un' esperienza spaventose. Una sapienza delle mani che andrà perduta ed è un' altra tragedia, come sempre quando finisce un mestiere. La possibile salvezza, per le piccole aziende, è mettersi insieme, però spesso le famiglie degli imprenditori non vogliono, saltano fuori vecchie rivalità e un assurdo orgoglio, preferiscono affondare una dopo l' altra».

Tra le province italiane a più alto reddito, la discreta e periferica Biella è anche in testa alle classifiche dei suicidi. Quando la luce del lavoro si spegne di colpo, c' è chi affonda in quel buio. Ottomila posti perduti in sei anni sono una ferita enorme, intanto la gente invecchia, in fabbrica non va più nessuno e molti vengono cacciati. Eppure, l' alta moda continua a filare, e sfilare. Una pubblicità informa che Loro Piana di Borgosesia, la Ferrari dei vestiti, ora tesse anche il fiore di loto. «Bisogna inventare, farsi venire le idee», racconta Luciano Donatelli, presidente dell' Unione Industrale biellese. «Ma per salvare il nostro tessile, servono almeno 250 milioni di euro». Lui, con la sua azienda si è messo a produrre tessuti per l' industria navale, interni di barche e indumenti. Oppure Piergiacomo Beretta, imprenditore di Crevacuore: per non annegare ha fatto arrampicare sui vetri la sua Yanga, micro azienda con nove dipendenti; ha iniziato a creare bende mediche sempre più sofisticate, fino a ideare il tessuto che la Nasa ha scelto per le tute degli astronauti: «Prima - racconta - eravamo in tre al mondo a fare bende tubolari, poi sono arrivati i cinesi. Sono i nostri nemici? Lo è anche il governo: senza balzelli e burocrazia, non dovremmo temere la concorrenza». E c' è chi, come Gianfranco De Martini, presidente della Camera di Commercio, ha fatto fortuna con il tessuto dei pennarelli, rivoluzionando i macchinari e facendo una spietata concorrenza ai giapponesi: «Ma pensare di smontare e rivendere un nostro vecchio telaio chissà dove, a volte, è come pretendere di far vivere una tigre al Polo Nord». Forse Biella ha ancora stoffa. Diversificare, innovare. Parole magiche, ma come ci si arriva? «Qui non sarà mai più come prima», risponde Paolo Zegna, altro grande nome del settore. «Biella non potrà essere solo comparto tessile, bisogna puntare sul turismo». Compreso quello commerciale, verso gli outlet dove comprare giacche e maglioni di qualità, senza svenarsi. Ne sorgono già molti, dentro una campagna piatta come la linea del mancato sviluppo. Ed è il paesaggio che racconta la storia di un declino.I capannoni abbandonati della Val Sessera, da Valle Mosso verso Trivero e Borgosesia. Qui la terra s' increspa nelle antiche colline, dove un' acqua particolarmente dolce permetteva di lavare i velli delle pecore usando poco detersivo, e spingeva le macchine ora rottamate con la sua forza trasparente. «Anche a me è successo di vendere qualche macchinario un tanto al chilo».

Rodolfo Botto, titolare della "Giuseppe Botto & figli" di Valle Mosso, racconta che un mondo cambia e il resto procede per trascinamento. «Si vive di corsa e ci si veste di corsa, indossando capi che non si stropicciano in viaggio, si lavano al volo e magari non si stirano. Così i telai devono essere flessibili per produrre tessuti diversi, mentre una volta contavano solo la quantità e la velocità. La tecnologia invecchia in fretta, come tutto, e tutto dura un attimo». I suoi tessuti oggi si chiamano "liquid wool", oppure "ice cold",o anche "multicontrol weather", le parole cambiano prima e insieme alla cose. Per andare dove? Forse per arrivare qui, sulla strada da Quaregna a Biella. Il triste itinerario parte dall' ipermercato Esselunga, costruito sulle macerie dell' ex Filatura Safil, chiusa nel 2003.

In due chilometri di rettilineo si incontrano le cancellate mangiate dalla ruggine, le serrande mezze spaccate e sempre abbassate, le catene e i portoni mortalmente chiusi di quelle che furono le aziende Smeraldo (l' addio nel 2003, 90 dipendenti), Bocchietto (2002, 100 dipendenti), Fratelli Suppa (2006, 50 dipendenti), Tintoria Leone (2009, 60 dipendenti in piccola parte trasferiti a Sandigliano), Botto Luigi (2005, 150 dipendenti), Eurofili (2006, 110 dipendenti). Ogni nome una lapide, ogni storia un verso di questa Spoon River sulla via delle lane perdute. Eppure, non tutto è cimitero. Anche se assomiglia a una tomba il muro perimetrale della ex Fraver di Quaregna (2005, 207 dipendenti), la fabbrica che abbraccia il paese e in parte lo ingloba, dentro c' è persino la scuola elementare Avogadro e lì accanto un minuscolo parco giochi, senza l' ombra di un bambino. Ma sul portone, un foglio di carta spiega dove spedire le domande di lavoro e i curricula per la nuova Manuex Srl. Cioè l' azienda che lavorerà per l' Ikea e che apriranno proprio qui dentro, nei capannoni vuoti, con duecento operai, e altre 600 persone dell' indotto potranno salire su quello che è il primo carro a ripartire dopo il terribile decennio dei mestieri perduti. La Manuex produrrà cerniere, viti, bulloni, e cinque milioni di cassetti: da riempire, finalmente. Tra meno di un anno si comincia. Non tutti i pezzi delle storie si rottamano.

MAURIZIO CROSETTI

SE QUESTO E' AMORE...COS'E' L'ODIO?

Troppo spesso ci si sente ripetere, dopo che i cari amici, gli amanti, i fidanzati e i congiunti ci hanno tirato una badilata di schifezze metaforiche addosso (ma il dolore e lo sconcerto è tangibile e dentro qualcosa si rompe di brutto) che essi si sono sentiti di tirarci addosso la di sopra badilata per puro amore!

"Perchè ti voglio bene...solo per questa ragione!"

Cioè? che concetto d'amore è questo? prima ti schiaccio come un mozzicone finito di sigaretta, in modo che pure il fumo finisca e poi ti dico che è solo per amore che ti sto spegnendo! e concetti come RISPETTO? DIGNITA'? significano qualcosa?

Costoro sono sadici e noi che subiamo (siamo in tanti) rimaniamo lì, con lo sguardo assente, ci proiettiamo fuori dal nostro corpo e non ci pare vero di aver udito quello che ci stanno ancora dicendo!

Roba da pazzi! eppure quanti odiandoci (perchè è ODIO, se fosse amore ci sentiremmo amati, appunto, non distrutti) indossano la maschera ipocrita dell'amore, ma andassero a fare le scene il più lontano possibile!

La soluzione unica ed evidente è SCAPPARE da questi mostruosi personaggi che tale concezione di amore/odio hanno nel cuore, per sopravvivere e per resettare il cervello, il carattere e per rafforzare l'intuito e la sensibilità e  infine per evitare per sempre che tali TSUMANI disumani si abbattino su di noi.

Mai e poi mai accadrà di nuovo! se li incontri una volta ti vaccini per sempre e non ci cadi più! anzi dopo aver attraversato deserti e aver patito la fame e l'arsura, ad un certo punto diventi forte e la tua forza ti porterà molto lontano, addirittura supererai sorprendentemente ogni futura diatriba, ribbattendo lucidamente in tempo, ed eviterai di rimanere lì sconcertato e fuori dal tuo corpo, ma rientrerai in forza nel tuo IO PIU' PURO  e VERO e romperai le catene e  coloro che sono pronti a riversarti la solita badilata di schifezze addosso, li fermerai in tempo, li lascerai come salami, pietrificati ed essi stessi inizieranno, barcollanti e stonati, ad attraversare il deserto, che gli avrai indicato tu, fornendogli pure la cartina sbagliata perchè si perdano e lo faranno vedendosi allo specchio, che gli avrai sempre dato tu affinchè si rimirino per farsi schifo durante un viaggio che speri duri più del tuo e che forse (non è valido però per tutti, alcuni sono degli zoticoni indomiti) li trasformerà in esseri umani.

Per approfondire: "Come Eliminare i Rompiballe e Vivere Felici. Manuale di sopravvivenza" di Lilian Glass

Nuova tendenza moda: MADE IN ITALY

Questo post è intitolato: "Nuova tendenza moda: MADE IN ITALY" e sembra un'ovvietà, ma purtroppo oggigiorno non lo è davvero.

Oramai, in seguito alla massiccia produzione cinese di abiti, calze, scarpe, pelletteria, etc. la vera novità che dovrebbe avere vita lunga, anzi lunghissima è il MADE IN ITALY.

E si badi bene, non il DESIGNED IN ITALY, ma il vero MADE: realizzato interamente in Italia.

I consumatori, soprattutto italiani, sono stanchi di comprare prodotti moda/abbigliamento che sono realizzati altrove, e non si è orgogliosi di comprare capi esteri, ma perchè noi italiani non siamo capaci a produrli? Non eravamo noi degnissimi produttori maestri nella moda?

E tutti i soggetti italiani che partecipavano alla nascita dei capi erano i primi ad essere orgogliosi e ad acquistarli!

E quindi nasce un vero bisogno: sapere con certezza che il capo di abbigliamento che compriamo è prodotto interamente in Italia e cioè prodotto in fabbriche italiane e che hanno dipendenti italiani, messi in regola e tutelati dalla legge (vero lavoro EQUO e SOLIDALE), e che ogni singolo dettaglio del prodotto è realizzato sulla penisola, includendo bottoni, zip, filo di cotone 100%, fodera, rinforzi interni, tessuto, etichetta, e pure il packaging.

Insomma, vera autarchia di moda per fare l'unica cosa che molti imprenditori non hanno fatto:

tutelare con orgoglio il nostro saper fare e questo significa anche produrre più lentamente e con materiali di sicura qualità, affinchè il capo di abbigliamento trasudi italianità e qualità italiana che non è solo nel progetto, ma nella scelta dei materiali, nella realizzazione e anche nell'aria che respirano coloro che lo hanno confezionato.

E' come se mangiassimo spaghetti al pomodoro con il parmigiano, ma gli spaghetti sono made in Usa (con quale grano? duro? tenero?), il pomodoro è olandese (!) ed il parmiggiano è parmesan, l'olio è messicano e l'aglio egiziano,  il cuoco è cinese e però gli spaghetti li mangiamo in una città italiana, e li paghiamo pure cari! Saremmo soddisfatti a fine pasto? il gusto sarà stato identico al piatto interamente made in Italy? torneremo  in quel ristorante a mangiare? Sarà stata vera dieta mediterranea?

Inoltre, in passato,  l'asso nella manica di molti brand italiani erano proprio la forza lavoro, altamente specializzata e che insegnava davvero il mestiere anche agli stilisti, categoria che necessita notevole assistenza, soprattutto in fase realizzatrice, da parte di chi sa tramutare l'idea in prodotto e non solo, ma sa anche vedere oltre il capo finito e sa indirizzare l'ideatore verso il vero successo.

Da questo sodalizio è nata la moda italiana e invece siccome tale sodalizio si è via via sfilacciato, fino a scomparire, dando importanza solo al progetto - e però i nostri tecnici e le nostre macchine produttirici sono state inviate in Asia, per esempio, dove sono maestri nel copiare- e quindi  si è perso, per primo il saper fare, poi i vari distretti regionali sono stati svuotati e il mercato interno si è impallato, in parte perchè disoccupazione significa commercio interno fermo e in parte perchè gli italiani sono inibiti dal compare brand realizzati altrove, in quanto c'è il sentore di non aver dato fiducia ai nostri lavoratori e di aver preferito la via furba: costo basso del lavoro, prezzo del prodotto alto come se fosse fatto in Italia.

Personalmente non ho piacere di favorire i cinesi e tanto meno qualsiasi altra produzione estera, perchè non è tutelata come la nostra, non lo sono gli operai e fa malissimo alla mia dignità di italiana.

Io ero orgogliosa di vestire bene ed italiano, era il mio vanto all'estero, mi distingueva dagli altri, inolte i miei abiti Made in Italy erano il frutto della nostra storia, cultura e arte e invece ora non sono orgogliosa di indossare capi delocalizzati, mi tolgono dignità, salute e benessere e non c'è marchio di moda che possa ridarmi la dignità, la salute e il benessere, soprattutto se la filiera non è certificata e se non è vero MADE IN ITALY.

Inoltre, quando viaggio all'estero non ho piacere a sapere e constatare che i capi di moda sono made in China, il 70% del gusto di viaggiare per scoprire moda nuova è perso, non voglio andare a Londra, a New York o ad Oslo e trovare prodotti made in China, non li compro, me ne sto alla larga, cerco autenticità del luogo e dei suoi manufatti, che dovrebbero esprimere la cultura particolare di quel luogo e questa espressione dovrebbe continuare ad affascianrmi una volta tornata a casa.

Il made in China è tutto tranne che autentico e non mi parla del posto che sto visitando, ma mi parla di fabbrica del mondo, di omogeneità, di costo basso del lavoro, di sfruttamento furbo, di container, di navi, di fretta produttiva, di roba usa e getta, di capitalismo sfrenato e senza limiti, di vecchio modo di fare, di una visione del mondo che non interpreta più la contemporaneità ma ancora non lo sa e fa finta che tutto sia come sempre...