La fine del Made in Italy 2

Il mercante nigeriano e le mie stoffe senza valore

di Edoardo Nesi


da la Repubblica — 08 ottobre 2010



Pochi mesi prima che vendessi l' azienda della mia famiglia, un pomeriggio si presentò in portineria il primo stocchista nigeriano della nostra storia. Gigantesco ed elegantissimo in una di quelle loro lunghe vesti colorate, sorrise e chiese in un perfetto italiano di vedere lo stock. Carmine, il nostro magazziniere letterario, gli mostrò subito il pianale delle pezze di Serengeti.
Quando il nigeriano disse che era molto interessato a comprarle tutte, Carmine venne di corsa a chiamarmi in sala campionario. Il Serengeti era un articolo finissimo di cotone per camiceria, che avevamo iniziato a produrre qualche anno prima per riempire i terrificanti, improvvisi vuoti di produzione lasciati in tessitura dal nostro tradizionale cardato di lana. Riuscimmo a venderlo a un grande stilista italiano, che ci dette dei suoi disegni esclusivi da riprodurre in fantasie elegantissime da realizzare in sfumature cipriate di azzurrie grigi che tingemmo in piccoli crogiuoli alchemici con un lavoro certosino.

Fu un bel momento quando vidi le camicie fatte col Serengeti in vendita a 400 dollari nelle vetrine della boutique di Madison Avenue di questo grande stilista, anche se dovetti impedirmi di ricordare che il tessuto glielo vendevamo a 14.000 lire al metro,e per fare una camicia ci vuole, suppergiù, un metro di tessuto.

Purtroppo, per accidenti vari, ogni anno qualche pezza di Serengeti ci rimaneva in magazzino e diventava assolutamente invendibile: il grande stilista non le voleva più perché ogni anno doveva cambiare disegno, gli altri clienti non le volevano perché era riconoscibile il disegno del grande stilista, e gli stocchisti italiani non si avvicinavano nemmeno alle pezze di cotone. Quando entrai in sala campionario e strinsi la mano al nigeriano, capii subito che era davvero interessato.

Gli raccontai che col Serengeti venivano cucite le camicie di uno degli stilisti più noti al mondo, e gli dissi anche il nome. Vantai la finezza del filato, la delicatezza dei colori, la rifinizione morbida eppure lucente, la ricchezza della mano del Serengeti. Poi, in un soffio, dal chimerico prezzo di listino di 14.000 lire calai a 3.000. Il nigeriano alzò lo sguardo dal tessuto e disse subito che per lui era troppo, però continuava a sembrarmi davvero interessato. Non è una sensazione facile da spiegare, ma dopo aver passato anni a fare trattative ogni giorno, te ne accorgi se uno vuole fare affari o solo farti perdere tempo. Gli chiesi quanto poteva pagare. Il nigeriano rispose 500 lire, il che era davvero pochissimo, nulla. Carmine sbuffò, irritato. Poi il nigeriano precisò. Naturalmente, 500 lire al chilo.

Poiché il Serengeti pesava poco più di 100 grammi al metro, il nigeriano mi stava offrendo circa 50 lire al metro. Rimasi in silenzio, pensando al Made in Italy, mentre lui mi spiegava che aveva fermo al porto di La Spezia un container da 40 piedi già quasi completamente riempito di pezze di lana che doveva partire il giorno dopo per Lagos, e lo spedizioniere gli aveva detto che il viaggio era molto lungo e durante la navigazione c' era il rischio che le pezze di lana si muovessero dentro al container, e che il tessuto si potesse rovinare.

Lo sguardo di Carmine si fece vitreo, aveva capito prima di me. Il nigeriano aggiunse che non aveva mai sentito nominare questo signor stilista di cui gli avevo parlato. Mai, nemmeno una volta. Disse che le mie pezze di cotone avevano un diametro minore delle pezze di lana che aveva già comprato, e lui voleva comprarle perché sarebbero state perfette per fare da zeppa tra le pezze di lana, che così non si sarebbero mosse dentro il container durante il viaggio verso Lagos. Le voleva in tutti i modi, le mie pezze di Serengeti. Mi avrebbe offerto anche 550 lire al chilo, se gliele vendevo tutte. Anche 600.

L' autore ha recentemente pubblicato "Storia della mia gente", un viaggio nella crisi dell' industria tessile toscana - EDOARDO NESI