La crisi fa le scarpe al settore calzaturiero: -33% di imprese in 20 anni

(Teleborsa) - La crisi ha fatto le scarpe al settore calzaturiero che ha subito una profonda crisi negli ultimi anni. Una crisi che si è attenuata da un paio di anni, ma che andrebbe arginata con provvedimenti legislativi adeguati. Dal 1996 ad oggi le imprese del settore moda (che comprende tessile-abbigliamento, pelli e calzature) sono diminuite del -33%; in circa 30 anni la produzione di calzature è diminuita ben del -75% e nel 2016 si è toccato il minimo storico di 188 milioni di paia di scarpe prodotte, dalle 531 milioni di paia del 1986. 

In Senato per la prima volta insieme tutte le parti sociali (Confindustria, Confartigianato, Cna, Cgil, Cisl, Uil) chiedono a gran voce un segnale forte dalla politica: accelerare la ripresa del comparto attraverso un'efficace politica industriale a sostegno del Made in Italy. Nel periodo 2010-2016 sono stati colpiti i principali distretti delle calzature che hanno perso centinaia di migliaia di calzaturifici localizzati in Italia: Campania -8%; Emilia Romagna -19%; Lombardia -11%; Marche -17%, Puglia -24%; Toscana -16%; Veneto -19%.Una crisi non circoscritta alle calzature, visto che l'intero sistema moda in tre anni ha lasciato sul campo 33 mila addetti.
https://finanza.repubblica.it/News/2017/11/24/la_crisi_fa_le_scarpe_al_settore_calzaturiero_33percento_di_imprese_in_20_anni-97/

Caserta, la clamorosa sceneggiata della cliente al centro commerciale: «Mi avete venduto il vestito cinese»

Caserta, la clamorosa sceneggiata della cliente al centro commerciale: «Mi avete venduto il vestito cinese»


E ora ci si accorge che siamo inondati solo da prodotti cinesi?

Svegliatevi, gente! Bisogna tornare al vero made in Italy, magari prodotto dai sarti italiani, in modo da arginare la marea dei prodotti asiatici che affamano gli italiani e non solo, in quanto veri monopolisti. Basta affamarli: non comprando i prodotti realizzati fuori dall'Italia.

I conti veri si faranno dopo le elezioni

http://contropiano.org/news/news-economia/2017/11/13/state-tranquilli-potete-conti-veri-si-le-elezioni-097630
Tutto va bene, madama la marchesa… A patto di stare a sentire soltanto i Tg o leggere gli editoriali di Repubblica. Se invece si prova a guardare ai dati e agli accordi internazionali, il quadro per l’Italietta renziana e post-elezioni si rovescia completamente.
Partiamo dalle sirene ufficiali. Stamattina il Fmi, nel suo Regional Economic Outlook per l’Europa, conferma la ripresa dell’Italia: quest’anno chiuderà a +1,5%. Del resto l’accelerazione italiana avviene in un contesto positivo, di crescita rafforzata in Europa e nell’Eurozona (che però è molto sueriore: 2,4% nel 2017, in rialzo rispetto al +1,7% del 2016, per poi rallentare al +2,1%)
Ma il rallentamento nella crescita arriverà subito dopo: il pil italiano è previsto in crescitadell’1,1% nel 2018 e appena dello 0,9% nel 2019. Non ne vengono naturalmente spiegate le ragioni, ma sono intuibilmente connesse alla scarsa produttività dei settori in cui questa crescita avviene (tramite lavoro semi-gratuito, precario, poco qualificato, part time, ecc), con scarsissimi investimenti e alta intensità di lavoro.
Almeno un effetto temporaneamente positivo ci sarebbe: le stime del Fmi per la disoccupazione dicono che calerà all’11,4% nel 2017, ma naturalmente l’istituto di Washington non vede differenza tra lavori stabili ben retribuiti e lavoretti precari pagati un tozzo di pane. E sappiamo dall’Istat che l’occupazione che cresce è fatti di contratti a termine, quando va bene...
Le raccomandazioni del Fmi concernono come sempre il debito pubblico da ridurre, specie ora che c’è una congiuntura moderatamente positiva. Quest’anno è atteso al 133%, ma dovrebbe scendere al 131,4% nel 2018 e al 128,8% nel 2019. Vero è che non siamo gli unici in condizioni pessime (l’elenco del Fmi comprende anche Belgio, Francia, Portogallo, Spagna e Regno Unito), ma diversi analisti ricordano che – senza la recente modifica dei criteri di calcolo, che hanno introdotto anche “l’economia sommersa”, insomma droga, prostituzione, ecc – oggi staremmo al 155%
E naturalmente la Grecia ha sperimentato la “cura” della Troika quando è arrivata a toccare il 140%. Insomma, siamo in una zona comunque pericolosa che dovrebbe escludere ottimismi…
Ma siamo in vista delle elezioni. I partiti di governo e quelli del centrodestra sono accomunati dallo stesso interesse tattico: nessun allarmismo sul prossimo futuro, al massimo un po’ di polemichetta sul “abbiamo fatto miracoli” contrapposto al “non avete fatto le cose giuste”.
Da questo interesse comune discende una legge di stabilità – in discussione in Parlamento – considerata “leggera”, ovvero concentrata su poche tasse subito e molte rinviate a “dopo”, un numero non esagerato (ma egualmente doloroso) di tagli alla spesa pubblica, numeri flessibili e non traumetici.
Su questo c’è il consenso pieno dell’Unione Europea, certificato da numerose dichiarazioni ufficiali da parte degli stessi “controllori”. Nessuno a Bruxelles sente infatti bisogno di un altro paese sotto incertezza politica in vista delle elezioni. Tanto quel che ci sarà da fare “dopo” è già stato stabilito e tutti i “concorrenti” alla poltrona di Palazzo Chigi lo sanno bene. Anzi, sanno tutti che per la Ue si deve andare a votare il prima possibile dopo l’approvazione della legge di stabilità (che ha come scadenza Natale, al massimo Capodanno), proprio perché le “misure vere” – a partire da una “manovra correttiva” durissima dovranno essere varate il prima possibile.
Il punto su cui la Germania – più ancora della Ue – non è disposta a transigere è infatti il taglio drastico del debito pubblico, altrimenti non è pensabile che l’Italia possa stare nella prima fascia della “Ue a due velocità”. Formalmente, per una “ragione nobile”: portarsi dietro un problema di queste dimensioni sarebbe una zavorra che rischia di far naufragare subito una zattera d’emergenza.
Ai fini pratici, per una ragione assai meno ammissibile, articolata – spiega Scenari Economici – in almeno tre obiettivi: appropriarsi degli attivi italici fatti di aziende e risparmio privato, rendere di fatto l’Italia una colonia che acquista i prodotti eurotedeschi e soprattutto abbattere il principale alleato USA non anglosassone in Europa, ricordando che ormai Berlino ha sfidato apertamente Washington volendosi sostituire agli americani al comando del Vecchio Continente”.
In effetti l’Italia ha parecchi asset ancora interessanti, un sacco di risparmio affidato a banche pericolanti e una stolida servilità agli Usa (tollerabile fino alla caduta del Muro, ma progressivamente sempre meno compatibile con la costruzione di un soggetto imperialista “europeo”). Dunque la correzione sistemica che questo paese deve subire è di grandi dimensioni, dolorosa ovviamente per il mondo del lavoro – che ha già subito un rovesciamento totale delle condizioni di vita, perdendo tutte le conquiste ottenute tra la fine degli anni ‘60 e la fine dei ‘70 – ma anche per la classe media propriamente detta.
Del resto, racimolare 400 miliardi – questa la cifra che circola tra gli analisti – richiede un allargamento sostanziale della platea dei “tosabili”. Non a caso, entro questa prospettiva, la famosa tassa patrimoniale – sempre considerata, non del tutto a torto, come una “tassa di sinistra” se orientata a riequilibrare il prelievo fiscale tra le diverse classi sociali – diventa una possibilità concreta. Ma pensata e agita da Bruxelles, o meglio da Berlino, e dunque non certo a fini di redistribuzione della ricchezza all’interno del paese.
Diamo ancora la parola a Scenari Economici:
l’EU è stata chiara, o le leggi lacrime e sangue l’Italia se le fa da sola o arriva la troika. E per “aiutare” il prossimo governo a prendere le decisioni “giuste” post elezione – o magari anche appena prima, per indirizzare il voto – è già pronta una crisi del debito italiano per il 2018, tipo crisi dello spread versione 2011, crisi comunque sempre utile per far svalutare l’euro contro il dollaro ossia per aiutare gli esportatori tedeschi.
Ok, ma tale imposta sarà almeno risolutiva?
Assolutamente no, sarà la prima di una discreta serie, diciamo che gli italiani devono mettere in conto imposte patrimoniali dichiarate o sotto mentite spoglie volute dall’Europa per circa 1000 miliardi nei prossimi 5-10 anni restando nell’euro. Si perché tale provvedimento “patrimoniale” – se attuato – bloccherà i consumi ossia peggiorerà la crisi imponendo ulteriori e continui correttivi fiscali, ossia comporterà altri provvedimenti straordinari a maggior ragione vista la contingenza globale assai critica fatta di borse ai massimi con multipli insostenibili e nel bel mezzo di una guerra commerciale con gli USA, oltre a tassi inevitabilmente destinati a salire a termine. Per tale ragione la versione Capaldo è la più gettonata, perché sposterebbe negli anni l’incasso mettendo per altro a garanzia asset reali, ossia le ipoteche sulle case degli italiani. A tale scopo il governo ha già previsto la cartolarizzazione delle imposte future per il tramite di un pool di banche internazionali che anticiperanno i flussi di cassa ed a cui resteranno in pancia le ipoteche dei cittadini. L’incredibile miglioramento del rating italiano da parte di S&P ottobre scorso, promozione assolutamente ingiustificata, deriva appunto dalla richiesta di Roma di scontare il meno possibile i flussi di tassazione futuri da parte delle banche in tale scenario. E per fare questo bisognava abbassare lo spread, cosa puntualmente avvenuta. Faccio presente che nell’ipotesi sopra citata, a termine, gli italiani di fatto saranno a forte rischio di perdita della proprie abitazioni, che verranno messe a garanzia a favore delle banche internazionali per le imposte future che i cittadini dovranno pagare a termine, a maggior ragione se NON ci sarà crescita economica in Italia, scontato con una patrimoniale che toglierà qualsiasi residuo di ottimismo dal mercato interno. Abbiamo già visto le “prove tecniche di cartolarizzazione” delle cartelle esattoriali dei cittadini alcune settimane fa con il provvedimento ritirato in extremis del governo: tutto fatto ad arte per introdurlo col botto al prossimo giro, oggi si voleva solo preparare la platea”.
Non è menzionato, ma si sa benissimo quale sia il trattato che ha incardinato questo meccanismo: il Fiscal Compact. Venti anni di riduzione del debito pubblico, nella misura del 5% annuo, per arrivare vivi – o preferibilmente morti – all’”appuntamento con la storia”. Quale storia non si sa, in fondo è solo una promessa…

Scuola, la rivolta dei docenti: "Stipendi uguali per tutti e in linea con quelli europei"

Una doppia petizione, che in pochi giorni ha raccolto oltre cinquemila firme, rilancia il tema caldo delle buste paga degli insegnanti. Due le richieste: guadagnare quanto i colleghi della Ue e avere retribuzioni e ore di lavoro equiparate in ogni ordine di istituto. Compresa l'università.


BOLOGNA - "Per insegnare occorre la laurea, abbiamo specializzazioni e master, al concorso ci chiedono competenze di informatica e di inglese. Eppure valiamo di meno in busta paga dei colleghi che insegnano alle medie, alle superiori e in università: non è giusto". E' la rivolta estiva dei maestri dell'infanzia e della primaria partita con due petizioni lanciate alla vigilia di Ferragosto e che in pochi giorni hanno già raccolto rispettivamente 4.300 e quasi 6.000 firme. Due le richieste. Una petizione, sostenuta da insegnanti di ogni ordine e grado, reclama stipendi uguali ai colleghi europei; l'altra vuole l'equiparazione delle buste paga e delle ore di lavoro tra chi sale in cattedra in Italia, dalla materna all'università. Una provocazione, quest'ultima - maestri pagati come gli accademici - destinata a fare discutere. Si tratta comunque di un tema caldo, quello delle basse retribuzioni degli insegnanti italiani, che ora riemerge via social, raccoglie consensi e chiede attenzione al ministero all'istruzione, a cui sono rivolte le due raccolte di firme.

"Vogliamo rivendicare il principio secondo cui è inaccettabile l'ingiusta distribuzione economica e di ore di servizio.
Non è possibile che chi più lavora (docenti dell'infanzia e della primaria) percepisce meno rispetto ai colleghi dei gradi d'istruzione superiore", si legge nella prima petizione. "Nell'epoca in cui per accedere all'insegnamento di qualsiasi ordine e grado d'istruzione è prevista la laurea, in cui tutti i docenti sono laureati o addirittura in possesso di titoli post laurea non è pensabile né tollerabile questa diversità di trattamento, legata a vecchi schemi". A lanciare l'iniziativa è Ilenia Barca, 40 anni, originaria di Nuoro, docente alla primaria, con nove anni e mezzo di precariato alle spalle, e pedagogista. "Siamo un gruppo di insegnanti sparsi in tutta Italia - spiega - queste nostre richieste sono partite da una riflessione comune sul ruolo dei docenti in Italia e all'estero".

·Gli stipendi, il punto debole. A inizio carriera un insegnante di scuola primaria guadagna 22.394 euro lordi, a fine carriera arriva a 32.924, secondo dati che si riferiscono al 2013-14. I docenti di scuola media partono come i colleghi delle superiori: 24.141 euro a inizio carriera; ma i primi arrivano a 36.157 euro mentre i secondi raggiungono i 37.799 euro con 35 anni di contribuzione. Qui sta il gap da colmare, secondo i promotori della petizione, che ricordano le 24 ore settimanali di insegnamento previste per i maestri di scuola primaria contro le 18 per medie e superiori.


Scuola, la rivolta dei docenti: "Stipendi uguali per tutti e in linea con quelli europei"
Ilenia Barca difende la scelta anche per un altro motivo: "Più piccoli sono gli alunni maggiori sono le responsabilità di formazione in capo ai docenti. Non si può disconoscere il valore educativo e didattico in generale in nessun ordine e grado dell'istruzione. Ma certo è che, come dimostrano recenti studi, la fascia di età più importante per lo sviluppo dei piccoli studenti di oggi e cittadini di domani è quella compresa tra i 3 e i 10 anni". Salvo Altadonna, portavoce del comitato Asi (area sostegno e inclusione), parla di "macroscopica lesione del diritto al salario di funzione che subiscono i docenti". Se la laurea è il titolo unico di accesso all’insegnamento per tutte le scuole di ogni ordine e grado, osserva in un approfondimento su Orizzonte Scuola, "non si comprende la sperequazione in atto tra docenti del primo e docenti del secondo ciclo di istruzione: una revisione del contratto sarebbe inevitabile".

·La comparazione tra insegnanti italiani ed europei. La seconda petizione riguarda un tema più volte sollevato: gli stipendi bassi dei professori italiani nella comparazione con quanto avviene in Europa. Nella tabella allegata sono evidenti le differenze: si va da un minimo per chi insegna alle superiori in Italia di 24.846 euro ai 33.887 che percepiscono i colleghi spagnoli, ai 34.286 in Svezia sino ai 40.142 euro in Germania.

"E' impensabile stare in Europa e assistere ad una sperequazione di trattamento economico tra docenti di nazionalità differenti - si legge nel testo - I nostri colleghi europei lavorano in media meno di noi italiani, ma percepiscono stipendi più alti, non vivono l'incubo del precariato come accade in Italia, non hanno l'accesso all'insegnamento veicolato dalle classi di concorso, godono di migliori possibilità di crescita professionale e di maggiori condizioni di tutela e promozione della salute"

Tante le reazioni. "È arrivato il momento di dare il giusto valore a noi docenti Italiani", scrive Pietro Lepore da Bari. "Il trattamento economico dei docenti italiani mortifica e non riconosce la loro professionalità, la loro passione e il loro quotidiano impegno", il parere di Viria Capoluongo. "Nel mio cv ho dottorato, post-doc, assegni di ricerca all'università e presso fondazioni bancarie. Da antropologa culturale e museale ho svolto ricerche in Africa occidentale, ho stretto accordi universitari internazionali e coordinato progetti nazionali e locali. Pur apprezzando la libertà di insegnamento che in Italia è ancora salvaguardata, il salario non risulta adeguato al curriculum dei docenti", la testimonianza di Roberta Cafuri.

Barcelona, Berlin, Rome and Venice: The cities that are sick of tourists

http://www.traveller.com.au/barcelona-berline-rome-and-venice-the-cities-that-are-sick-of-tourists-gwumm8

by Ben Groundwater

"Gaudi hates you."
That's one of the more amusing pieces of graffiti that has appeared in Barcelona recently, one of a few pointed references to the fact the city's residents aren't exactly happy these days about living in one of the world's most popular tourist destinations. You might be visiting Barcelona because you love Gaudi, but would Gaudi love you?


The famous Catalan architect might well be horrified to see what his elegant city has become thanks to the modern influx of tourists: the tacky T-shirt stores that crowd every corner; the hundreds of peddlers of those stupid glow-in-the-dark things you flick into the air; the food markets that are now filled not with discerning shoppers, but with gawking tourists fighting for selfie-stick room.


Maybe Gaudi would have hated that. What's more certain, however, is that some of Barcelona's current residents do.


You can see it in the graffiti. You can see it in the harsh laws attempting to halt the spread of services like Airbnb, a vain attempt to keep the stag-do crowd out of the suburbs, to keep the photo-taking foodies out of the locals-only bars. You can see it in the faces of the market sellers who have to contend with huge crowds of onlookers who don't want to buy anything.


No wonder there's a backlash. Surely people in Barcelona don't want to live in a tourist attraction, don't want to exist purely as a backdrop for Instagram photos. They want to live in a normal city, a place where they'll have the same neighbours next week and the week after, where they can go to the market and buy some jamon and not have to push past a group of hungover tour passengers taking photos of the tomatoes to get there.


And the Catalans aren't the only Europeans beginning to push back against the weight of the tourist hordes. There are signs that the Romans, too, have had enough. There's now a "picnic ban" in the Eternal City, forbidding tourists from stopping to eat on top of well-known sights such as the Spanish Steps. Visitors will also be fined if they sit on the edge of historic fountains, including the Trevi, or, worse, attempt to dive into one for a hilarious novelty bath. 





Spanish Steps, Rome. Photo: iStock


In Berlin there's a similar feeling of frustration. Rent is skyrocketing and suburbs are rapidly gentrifying, particularly neighbourhoods like Kreuzberg and Neukolln, thanks to the arrival of tourists and their money. Venice, too, has long felt more like a theme park that an actual living city.





Kreuzberg, Berlin. Photo: iStock


It was inevitable that there would be an adverse reaction to this mass tourism, to the sheer weight of numbers crowding streets and famous monuments, to the changes tourists bring to the social fabric of these cities. It's also understandable.


As a traveller, this presents you with a dilemma. You want to see the world, of course; you want to visit these amazing places that everyone else is going to. But you also have to respect the fact that you're adding to a problem here. You can tell yourself as much as you like that you're a "traveller, not a tourist", but no one knows the difference when you're just another body adding to the crush in the Boqueria market, when you're just another face in the crowd around the Trevi Fountain.


In fact, "travellers" are a major part of the issue. They want to get off the beaten track, they want to see the "real" city – but in doing so they're breaking down the traditional tourist/local barriers, they're popping up in quiet neighbourhoods, invading locals-only havens in the name of seeing something authentic. At least the tourist crowd just congregates in one spot and can easily be avoided.


So what do you do? What's the solution? I love Barcelona. I don't want to stop going there. Same with Rome. I've got carbonara to eat. I love Berlin with a passion. And I'm also the sort of person who seeks out those locals-only neighbourhoods, who wants to feel that they're seeing a side of the city that others are missing out on.


It's a difficult one to balance. The only thing you as a traveller can do, really, if you still want to visit, is attempt to limit your impact when you're in these cities: learn some of the local language so you're not making a nuisance of yourself in bars and restaurants; treat Airbnb apartments (and your temporary neighbours) like they're your own from back home; buy food when you go to gawk at a local market; talk to people instead of just pointing your camera at them; in fact, put your camera away for a while and just live.


It's not a perfect solution. But at least it's a thoughtful way to lessen your impact while still being able to see the world. Surely Gaudi would appreciate that?


Do you think tourists are a problem in places like Barcelona and Rome? Is it understandable that locals are tired of it? What do you do to lessen your impact?

Pomodoro industriale antiumano! Hybrid Tomato against mankind!

http://www.raiplay.it/video/2017/05/Indovina-chi-viene-a-cena-9e031764-9831-468b-8982-a931110a9703.html

Pomo d'oro è un racconto di Sabrina Giannini e Marcello Brecciaroli.

Passata, pezzettoni, pelati: che pomodoro si nasconde nei barattoli che compriamo al supermercato? Il pomodoro da trasformazione non ha neanche più un nome, solo una sigla, quella del seme industriale da cui è prodotto.

Un seme ibrido, almeno il 90% dei pomodori in commercio oggi, sia quelli da insalata che quelli per le salse, vengono realizzati con semi ibridi, nati da incroci a tavolino al servizio di maggiore produttività e resistenza.
Un dato è certo: a forza di incroci in nome di maggiore produttività e resistenza il pomodoro europeo ha perso il sapore, è andato perduto il gene del gusto.

 E oggi si corre ai ripari, servendosi dei semi antichi. Ma di nuovo in laboratorio, per creare un nuovo ibrido 'gustoso'

Volete followers su Instagram? comprateli...

Molti non sanno che i followers su Instagram sono comprabili on line pure a prezzi economici, ecco qualche esempio:

https://www.socialshop.co/instagram/buy-instagram-followers/

http://buzzoid.com/

http://www.idigic.net/buy-instagram-followers/

http://profollower.com/

E non dimentichiamo che pure i like si possono comprare, insomma un tanto al kg!

https://www.getmassfollowers.co.uk/product-category/instagram/

Si potrebbe andare avanti ad elencare links per giorni, basti pensare che digitando su google:
buy followers instagram

ci sono 16.100.000 risultati circa 

Facile no?

Si, facile e moralmente schifoso, infatti  Stilinga non compra manco 100 followers ma scommette contro questa illusione virtuale, sperando forse ingenuamente che i social potranno pure essere un po' meritocratici, o no? (tutto sempre finto? tutto sempre pagabile?) e aspetta che ci siano seguaci in carne e ossa che decidano volontariamente di seguire l'account, seguaci sì ma solo quelli veri.

In fondo solo i Real Followers contano. Il resto è fuffa fatturata.

E questa consapevolezza fa cambiare totalmente idea rispetto alle regine di Instagram tipo Kim Kardashian West con i suoi 99 e rotti milioni (di robot?) di followers, o Selena Gomez con 117 milioni, etc, etc.
Ecco un link dove controllare chi, tra le celebrities è più seguito su instagram:
http://www.marieclaire.com/celebrity/a23863/most-followed-celebrities-on-instagram-in-2016/

ROMA E’ IL TEATRO DEGLI IMPUNITI


Solo i vigili non hanno visto l’impiccagione dei manichini, i bagni nella fontana di Trevi, i graffiti sui momumenti, i troppi delitti esibiti
By Francesco Merlo 6 maggio 2017 la Repubblica

È ormai un teatro degli impuniti, la grande Roma, una sorta di parco- giochi plebeo dove solo i vigili, che sono addestrati appunto per vigilare, non si sono accorti dell’esecuzione in effigie al Colosseo dei quattro calciatori giallorossi, manichini impiccati alle 23,30 di giovedì con il coro del vaffanculo ritmato populo flagitante, a richiesta del pubblico, che infatti filmava, rideva, strabuzzava gli occhi, insomma si godeva la messa in scena.
Né si erano accorti dei natatores a Fontana di Trevi — quattro in venti giorni — questi famosi pizzardoni che, “facce di ciechi e occhi senza sguardo”, non hanno visto i carnifices dei quattro giallorossi. Del resto neppure avevano beccato i foedatores di monumenti alla Barcaccia, al Pantheon e — di nuovo e soprattutto — al Colosseo che, come dice il mitico Gracco nel Gladiatore di Ridley Scott “è il cuore pulsante” di questo giardino delle meraviglie che è il centro di Roma, sempre pieno di polizia comunale e tuttavia sempre incustodito, forse per omertà stracciona o forse per assenteismo da fannulloni con l’aria indaffarata.
E va bene che gli Irriducibili della Lazio hanno intanto assolto anche l’impiccagione in effigie, come fosse goliardia, roba da Rugantino: erano “boiaccia” sì, ma anche bonari. E però la polizia di Stato non è ancora certa che i tifosi giustizieri non abbiano appeso quattro della loro stessa squadra per regolare conti interni. Comunque sia, l’Inquisizione, che a Roma ebbe la sua seconda capitale dopo Palermo, riservava la morte in effigie a chi scappava a nascondersi che in latino si dice lateo, e quindi latitanti, e qualche volta anche ai morti: “cane morto” gridano nella curve al brocco senza onore, al miles ingloriosus. E infatti nella Roma dell’Inquisizione il corpo del traditore veniva addirittura dissepolto per essere impiccato.
E tuttavia si capisce, anche se non è giustificabile, l’accanimento dei tifosi sull’effigie, a simboleggiare l’indefettibilità della giustizia fanatica, perché questo sono gli ultrà: fanatici. Quello che invece non si capisce è il senso di impunità, che di questa Roma è ormai la mala aria, la complicità ambientale con la suburra calcistica e con i turisti che si immergono nella Fontana — almeno quattro bagni in venti giorni e nessun conta gli spettacolari pediluvi e i tantissimi tentativi di arrampicarsi sulle statue per toccare la barba di Oceano.
C’è stato anche l’artista che si è immerso nudo perché, come Achille nello Stige, voleva rubare l’eternità all’acqua “immortale di martiri e di santi” recita l’inno Pontificio. E ci sono le signore che si sono bagnate perché in tutte le guide del mondo c’è scritto che lì Fellini fece immergere la sua Anitona e la fontana non è solo un monumento, ma è anche un simbolo occidentale: è l´acqua della dolce vita, il logo della vacanza italiana, l’arrivederci Roma con la moneta del ritorno. In qualsiasi altra città, nei luoghi così belli e identitari — la Torre Eiffel a Parigi, il Big Ben a Londra — basterebbe, per dirla alla Camilleri, “ un fil di fumo” ad allarmare il mondo.
Del degrado di Roma è diventato persino noioso parlare, sembra l’accanimento di un disco rotto, la stanchezza dell’eterno ritorno: i roghi dei bus, i cassonetti di nuovi stracolmi, la puzza esaltata dal caldo precoce, le buche — piccola novità — che ogni tanto squadre di volontari affrontano con pala e catrame, organismi vivi della decomposizione come quegli immigrati che avevano cominciato a pulire le strade in cambio di piccoli aiuti dai commercianti e dai residenti ma ora, anche loro, hanno preso l’aria svogliata degli impiegati romani.
E ogni giorno le radici degli alberi divelgono l’asfalto sulla Cristoforo Colombo, sulla Salaria … e il Comune, forse per difendersi da eventuali cause legali, ha imposto il limite di velocità di trenta all’ora. E intanto i rami si abbattono sulle teste dei passanti e dei motociclisti: incidenti, feriti, persino un morto.
Ebbene, il solo controllo occhiuto in questa Roma, dove i graffiti imbrattano anche i monumenti, non è quello dei poliziotti urbani che pure deambulano come flâneur in divisa, ma è quello dei gabbiani che ai romani un giorno parvero bellissimi perché volavano lontano e in alto, e adesso che mangiano i piccioni, mostrano il loro vero aspetto di soddisfatti topi con le ali. Sono loro che governano il territorio: i gabbiani che si sono impadroniti della saporita spazzatura urbana in una città dove l’accattonaggio umano è forse più selvaggio, e dove il Comune ha deciso di tenere aperte le ville storiche anche la notte.
Sono tornati, reintegrati al loro “posto di lavoro” dal proverbiale Tar del Lazio, i finti gladiatori con la scopa sulla testa, e la gens abusiva si è divisa tra abusivi legalizzati, semilegalizzati e quelli ai quali è stato promessa una legalizzazione. E sono ovviamente comparsi altri questuanti, variazioni dello stesso genere: i più strambi sono quelli che propongono ai turisti foto ricordo con pappagallini con le ali tagliate, come fosse una fauna romanesca.
Come stupirsi alla fine che nel centro ridotto peggio della periferia la polizia non veda mai di nulla e non faccia le multe neppure a quelli che, trovato l’angolino giusto al Colosseo, mingunt ad murum? Né stupisce che ora rivendichino l’esecuzione politicamente corretta i selvaggi del calcio che nelle tante trasmissioni radio — “e che sarà mai?” — stanno dando vita alla figura ossimorica dell’ultrà per bene. Ma sì, è stata solo un’impiccagione giocosa di manichini, un allegro vaffanculo tra amici.

Roma: la grande monnezza!





I delusi del lavoro: la flessibilità non ha vinto, torna la richiesta del posto fisso

Il sondaggio. Più di due italiani su tre pensano che abbia ancora senso celebrare il Primo maggio. E nell'indagine Demos-Coop oltre il 70 per cento è a favore del ripristino dell'articolo 18

da: http://www.repubblica.it/economia/2017/04/29/news/i_delusi_del_lavoro_la_flessibilita_non_ha_vinto_torna_la_richiesta_del_posto_fisso-164159199/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1

Il "lavoro" rimane un riferimento importante per la nostra società. Così la "Festa del lavoro" del Primo maggio suscita sempre grande consenso. Lo conferma il sondaggio condotto, nei giorni scorsi, dall'Osservatorio sul Capitale sociale di Demos-Coop per Repubblica. Più di due italiani su tre ritengono, infatti, che "celebrare" il Primo Maggio abbia ancora senso. È un sentimento diffuso in tutta la popolazione. Senza chiare "esclusioni" ideologiche. E quindi anche fra gli elettori di centro-destra e di destra. Celebrare il lavoro, a questi italiani, appare tanto più significativo perché si tratta di una risorsa sempre più scarsa e dequalificata. Una larga parte degli intervistati, oltre 7 su 10, afferma di non aver percepito la ripresa. Secondo loro, l'occupazione non è mai ripartita. E se le statistiche dicono cose diverse, loro non se ne sono accorti. Semmai, pensano che si sia allargato il lavoro "nero". E, ancor più, il lavoro "precario". Ne sono convinti 3 italiani su 4. D'altra parte non c'è fiducia nella politica e nelle politiche. Nei risultati delle leggi approvate negli ultimi anni. Meno di 1 italiano su 10 pensa che il Jobs Act abbia prodotto effetti. Mentre l'abolizione dei voucher ha convinto quasi tutti gli intervistati. Ma del contrario: allargherà ancor più il lavoro nero e precario. Il "reddito di inclusione sociale", invece, per ora, lo conoscono in pochi.

Così, il lavoro resta un riferimento importante, per gli italiani. Almeno, per gran parte di essi. Che celebreranno il Primo Maggio con un sentimento di "attesa". L'attesa che il lavoro ritorni. D'altronde, si assiste a un mutamento sensibile dei progetti, professionali e di vita, tra gli italiani, rispetto agli ultimi anni. In particolare, ritorna, con forza, la richiesta del "posto fisso", soprattutto nel settore pubblico. Checco Zalone lo aveva colto - e narrato - con efficacia, nel suo film "Quo vado?", un anno e mezzo fa. Oggi quell'intuizione appare confermata dai dati di questo sondaggio. Che, a differenza del film di Zalone, non sono divertenti. L'indagine di Demos-Coop, infatti, ci racconta come, nell'ultimo anno, il clima d'opinione intorno alle professioni libere e liberali si sia sensibilmente raffreddato. La quota di persone che, per sé e i propri figli, vorrebbero un'attività in proprio o da libero professionista, infatti, è in calo. Di qualche punto. Mentre l'unica vera "ripresa" convinta, nell'ambito del lavoro e dei "lavori", riguarda, appunto, il "posto fisso". Sottolineato dalla crescente importanza attribuita agli Enti Pubblici. Tanto delegittimati (per non dire disprezzati), come soggetti e come istituzioni, quanto apprezzati, come sbocchi professionali. Si ripropone, dunque, uno scenario noto, in un passato recente. Quando il grado di attrazione di "un" lavoro, coincideva con il suo livello di "sicurezza". Intesa come "stabilità" e "continuità". Mentre la "flessibilità" piaceva agli imprenditori - e ai politici "liberisti". Ma non ai lavoratori. Per questa ragione è significativo il sostegno espresso, nel sondaggio Demos-coop, all'ipotesi di ripristinare l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, abrogando le modifiche apportate dal Jobs Act del governo Renzi. Questa proposta, avanzata dalla Cgil, come quesito da sottoporre a referendum, era stata bocciata dalla Corte costituzionale, lo scorso gennaio. Ma oggi, nel sondaggio, ottiene il consenso di 7 italiani su 10. È un indice ulteriore del livello di sfiducia e di incertezza che pervade la società nei confronti del lavoro. Soprattutto e tanto più, negli ultimi anni.

LE TABELLE

Tuttavia, alcuni segnali muovono in direzione diversa. Espressi, però da chi ha un lavoro. Ne indichiamo due, fra gli altri.

Il primo: le aspettative nel futuro. Cresce, infatti, la quota di lavoratori che scommettono su una situazione personale migliore, "nei prossimi 2-3 anni". Oggi è circa il 30%. Tuttavia, quasi un lavoratore su due ritiene che la propria condizione non cambierà. E per il 18% potrebbe, perfino, peggiorare. L'altro segnale in controtendenza riguarda la soddisfazione del lavoro svolto. Molto elevata, per il 55% del campione intervistato da Demos-Coop. Ma, comunque, più che sufficiente, per un altro 27%. Solo il 18% degli italiani, in definitiva, si ritiene insoddisfatto del lavoro svolto. Tuttavia, il problema riguarda "gli altri". La componente "esclusa" dal mercato del lavoro. A questo proposito è interessante il tratto generazionale che impronta l'insoddisfazione. Particolarmente marcata fra i "giovani-adulti". Coloro che hanno fra 25 e 34 anni. Nati fra i primi anni 80 e 90. Le fasce "anziane" dei Millennials. Ancora "giovani" e non ancora "adulti". In una società nella quale la giovinezza si prolunga sempre più, ma riflette dipendenza, rinvio dell'autonomia. I "giovani-adulti": non riescono ad affrancarsi dalla famiglia (non conviene), né a mettersi davvero in proprio. Oggi, si sentono più precari di alcuni anni fa. Sicuri che, se mai riuscissero a raggiungere la pensione, questa non basterebbe per vivere.

A loro, il lavoro appare un'esperienza meno soddisfacente rispetto agli altri. Anche perché, più degli altri, ne sono esclusi. Per questo, come gran parte della popolazione, ritengono che i giovani, per fare carriera, se ne debbano andare dall'Italia. E molti di essi se ne vanno davvero. Spesso non ritornano. La loro "insoddisfazione", peraltro, si è espressa anche politicamente, quando hanno bocciato, in massa, il referendum costituzionale.

I giovani-adulti: sono lo specchio di una società che invecchia senza accettarlo. Una società di finti-giovani.

Iphone? si, made by slaves




Com’è davvero lavorare in una fabbrica cinese dove si fanno gli iPhone: il racconto di un ex operaio


da: http://www.corriere.it/tecnologia/17_aprile_12/lavorare-una-fabbrica-iphone-incubo-0a9b1a22-1fa2-11e7-a630-951647108247.shtml




Uno studente svela su “Business Insider” le sue 6 settimane alla catena di montaggio di Pegatron, fornitore cinese di Apple: «12 ore al giorno ad avvitare le stesse viti»


di Antonella De Gregorio


Com’è lavorare in una fabbrica cinese che produce iPhone? Un inferno. Dodici ore al giorno di noia, turni massacranti, cibo scadente, poco riposo, controlli di sicurezza asfissianti. E, neanche a dirlo, nessuno spazio per lamentarsi. Lo ha raccontato Dejian Zeng, studente dottorando alla New York University, che ha svolto un tirocinio estivo di sei settimane alla Pegatron, una vera e propria città-fabbrica nella periferia di Shanghai. Pegatron è uno dei fornitori cinesi di Apple, tra le aziende che assemblano i prodotti della Mela. Business Insider ha raccolto la sua testimonianza: «Immaginate di andare a lavorare alle 7.30 ogni mattina, e di trascorrere dodici ore, pasti e pause compresi, all’interno di una fabbrica il cui vostro unico compito è quello di inserire una singola vite nella parte posteriore di uno smartphone, ripetendo l’operazione tutto il giorno, senza sosta, 1.800 volte al giorno». E alla fine del periodo di addestramento, viene consegnato un foglio di valutazione sul grado di istruzione ricevuta, ma «si è obbligati a dare punteggi superiori a 4 su una scala di 5».

La catena


Zeng ha raccontato nel dettaglio in cosa consisteva il suo lavoro: «Sono stato assegnato a una catena di montaggio nel reparto chiamato Fatp (Final Assembly, Test & Pack ovvero assemblaggio finale, test e confezionamento, ndr) . Una catena può avere anche cento stazioni e ognuna ha una funzione precisa. Io ho iniziato lavorando sugli iPhone 6, poi sono passato agli iPhone 7. Mi dovevo occupare di fissare lo speaker alla scocca del telefono». All’inizio doveva mettere grande concentrazione nel suo lavoro, racconta, per raggiungere la velocità della linea di montaggio. Ma una volta presa la mano, il lavoro è diventato terribilmente ripetitivo e noioso: «Non c’è tempo di pensare a niente. Devi essere solo veloce. Preciso e veloce. Arrivi a farlo anche ad occhi chiusi, non è difficile, ma alienante». Vietato ascoltare musica, distrarsi, parlare con i colleghi. Ogni due ore, una pausa di dieci minuti. «Durante la pausa molti dormono - racconta lo studente - . Se si vuol bere o andare in bagno, bisogna decidere a cosa dare priorità perché non si può sgarrare sui tempi». Per il pranzo, pausa di 50 minuti: nel piatto panini o noodles. A volte un frutto in aggiunta. «Il cibo non è di qualità ed è a pagamento», dice il ragazzo. «Tutti mangiano in un’unica grande mensa. E c’è chi si affretta a mangiare per poter strappare qualche minuto per un pisolino. Ma non puoi farti trovare a dormire: puoi essere ripreso, per questo».




Grande fratello


C’è un’app che Pegatron, secondo Zeng, ha sviluppato con Apple. Tutti i lavoratori sono obbligati a scaricarla ed è stata introdotta per «migliorare la qualità del lavoro». Registra tutto: pause, velocità di esecuzione, assenze, ritardi. Dati che vengono poi esposti alla catena di montaggio. I superiori controllano e possono rimproverare il lavoratore poco efficiente o togliergli denaro dallo stipendio. E ancora: ogni giorno tutti i dipendenti passano attraverso un metal detector, per impedire che attrezzature e materiali escano dalla fabbrica e stroncare così i tentativi di spionaggio industriale. Gli operai si dispongono in fila, all’ingresso, per il controllo dei badge e per evitare intrusioni sono previsti anche controlli facciali. Gli stipendi, se non ci si piega a fare gli straordinari, sono molto bassi.

Come in caserma


Le condizioni di vita ricordano quelle delle caserme: docce in comune (e spesso manca l’acqua calda), stanze sovraffollate, pulizie sommarie. Zeng dormiva con altre sette persone in un dormitorio che raggiungeva con una navetta, alla fine del turno di lavoro. Arrivati in stanza, l’unico svago era guardare un film sul telefonino («anche se il wi-fi non funziona bene»). Per il suo lavoro, nel primo mese è stato pagato 3100 yuan, circa 425 euro, straordinari compresi.

Controlli


La fabbrica cinese Pegatron entrò nelle cronache di tutto il mondo nel 2013, quando il China Labor Watch, che monitora le condizioni di lavoro nelle fabbriche cinesi, ha pubblicato un rapporto spiegando come l’azienda forzasse i suoi operai a condizioni di lavoro estenuanti, contrarie alla legge cinese e al codice di comportamento che Apple fa sottoscrivere ai suoi fornitori esterni. L’organizzazione aveva anche chiesto l’apertura di un’indagine su alcune morti sospette all’interno della fabbrica, legate, secondo gli attivisti, alle difficile condizioni di lavoro. Da allora, Apple ha effettuato controlli e ottenuto aumenti salariali, negli ultimi cinque anni, di oltre il 50%, tetti alle ore di straordinario e miglioramento delle condizioni di lavoro. Ogni anno Apple pubblica un dettagliato «Report annuale sulla responsabilità dei fornitori»: da poco sul sito ufficiale è comparsa l’ultima edizione.

Produzione


Come molti big della tecnologia, il colosso di Cupertino appalta la produzione di quasi tutti i suoi computer e telefoni a fornitori cinesi, come Pegatron. Un tema che è diventato anche politico, da quando Trump ha chiesto di riportare la produzione - e i posti di lavoro - negli Stati Uniti. Quanto a Zeng, che nel periodo trascorso alla Pegatron si aspettava da un momento all’altro di assistere a una protesta o uno sciopero (che non si sono mai verificati), dopo l’esperienza in Cina ha deciso di dedicarsi alla difesa dei diritti umani: «Non mi pentirò mai di aver scelto questa carriera», ha dichiarato.

Retribuzioni, i lavoratori italiani tra i più poveri d’Europa

http://www.repubblica.it/economia/miojob/lavoro/2017/03/28/news/retribuzioni_i_lavoratori_italiani_tra_i_piu_poveri_d_europa-161539180/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P5-S1.8-T1

Le retribuzioni dei lavoratori italiani, a tutti i livelli, sono in linea con la media europea ma a differenza della maggior parte della popolazione dei Paesi del continente, i nostri connazionali soffrono per un basso potere di acquisto dovuto al costo della vita. La conferma di quanto molti vedono alla fine del mese emerge dall'ultima indagine Global 50 Remuneration Planning della società di consulenza Willis Towers Watson.

Analizzando la media della retribuzione annuale lorda delle prime 20 economie europee, i manager di medio livello e i nuovi entrati nel mondo professionale italiani si posizionano al 14° posto del ranking, posizione che cambia però se ad essere presa in considerazione è la media relativa al potere d'acquisto: i primi scendono alla 17esima posizione, i secondi alla 15esima. L'alto livello di tassazione del Paese e l'alto costo della vita fanno sì che il "potere d'acquisto" di uno stipendio italiano sia notevolmente inferiore a quello della maggior parte dei Paesi europei compresi Paesi Bassi, Irlanda, Francia, l'Austria, e tutti i paesi scandinavi. Il report indica inoltre che in Italia, un middle manager tipicamente ha una retribuzione base annua di circa 69.000 euro, che scendono a 25.500 per un entry level. Considerando il potere di acquisto, i primi passano a una retribuzione di poco inferiore a 43.000 euro, gli entry level soffrono un po' di meno per ricchezza relativa posizionandosi con un salario vicino a 23.500 euro.

Gli stipendi italiani restano tra i peggiori d'Europa






Secondo gli ultimi dati dell’agenzia europea di statistica in quasi tutti i settori i nostri salari medi non reggono il passo con quelli francesi, tanto meno con tedeschi o inglesi. E il divario tra uomini e donne cresce con l'età.

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