Crisi: comunità cinese Prato, chiuse 30% delle attività

da: http://it.fashionmag.com/news-305440-Crisi-comunita-cinese-Prato-chiuse-30-delle-attivita



Se a Roma circa il 10% delle attività gestite da cinesi ha chiuso a causa della crisi, "a Prato la situazione è ben peggiore, qui siamo intorno al 30%, a Roma sono 'fortunati"'. A dirlo è Matteo Ye, portavoce della comunità cinese di Prato, la seconda più numerosa d'Italia dopo Milano, e seguita da quella della Capitale.


Foto Wonderful

Qui la stragrande maggioranza degli orientali sono occupati nel tessile, che dal Medioevo costituisce l'ossatura dell'economia pratese. "Il comparto più colpito è quello del pronto moda, e anche i ristoranti vengono colpiti, la gente ha meno soldi e rinuncia ad andare a mangiare fuori casa", spiega Ye.

Chi è costretto a chiudere la sua attività o resta senza lavoro "se ne torna in Cina, oppure emigra in Sudamerica, in Africa o in altri Paesi extraeuropei - illustra il portavoce della comunità cinese di Prato - Chi non sa come fare, resta qui in attesa di tempi migliori, come mio cognato che è senza lavoro da sei mesi. Anche la mia attività di traduzione e assistenza pratiche sta conoscendo la crisi".

Addio all'austerity di Federico Rampini


ADDIO ALL'AUSTERITY

http://ricerca.gelocal.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/01/11/addio-allausterity.html

IL DOPO austerity sta cominciando. Dai vertici dell'Unione europea arrivano segnali, ancora discreti ma inequivocabili, di un cambiamento di rotta.

Nessuno vuole prendere atto in modo brutale che le terapie fin qui applicate nell'eurozona erano proprio sbagliate.

UNA tesi che invece ha autorevoli sostenitori su questa sponda dell'Atlantico: da Barack Obama al Nobel Paul Krugman. 
Senza ripudiarla troppo esplicitamente, l'austerity viene liquidata con uno stillicidio di dichiarazioni. 

Messe insieme, anticipano la fine di un'èra. 

Il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, ora finge che i feroci salassi al Welfare non abbiano mai avuto un imprimatur da Bruxelles: «E' un mito che l'Unione europea imponga politiche dure, non è vero»

Più drastico e anche autocritico, il presidente uscente dell'Eurogruppo, il lussemburghese Claude Juncker: «L'Europa sta sottovalutando la tragedia della disoccupazione, supera l'11% e non ce lo possiamo permettere. Dobbiamo realizzare politiche più attive per il mercato del lavoro»

Alla Bce Mario Draghi ammette che ancora «non si vedono segnali di miglioramento dell'economia reale» (l'unica che conta per i cittadini: investimenti, lavoro, reddito).

 Draghi rifiuta di pronunciarsi sulla sconcertante previsione di Angela Merkel, che in un'intervista del 2012 parlò di altri cinque anni di crisi. Rischia di essere la classica profezia che si autoavvera: sia per l'influenza che ha la cancelliera tedesca sul clima di fiducia generale, sia perché da Berlino viene la ricetta che ha prolungato finora l'austerity.

«Gli Stati Uniti ci interpellano - aggiunge ancora Juncker che in passato era spesso allineato con la Germania-e noi abbiamo risposte di cortissimo respiro».

Gli Stati Uniti non solo l'Amministrazione Obama. C'è anche un'istituzione multinazionale con sede a Washington, il Fondo monetario, che ha fatto una clamorosa autocritica

In un importante studio che porta la firma del suo direttore generale, Olivier Blanchard, il Fmi ammette di avere sbagliato sistematicamente le sue previsioni durante questa crisi. 

E sempre in una direzione sola: ha sottovalutato la pesantezza della recessione

Come si spiega questo perseverare nell'errore, a senso unico?

 Secondo l'autodiagnosi del Fmi, sono stati «sotto-stimati gli effetti moltiplicatori dell'austerity come freno alla crescita». 

Questi effetti sono tanto più pesanti se «l'austerity non è uno shock una tantum», bensì una terapia protratta su più anni. 

E' esattamente la tesi keynesiana di Obama, Krugman, Joseph Stiglitz e tanti altri qui in America: «Non si esce dalla crisi a colpi di tagli». 

I salassi al Welfare e ai servizi sociali riducono il potere d'acquisto dei consumi; la mancanza di domanda deprime gli investimenti e le assunzioni; il saldo finale è il calo del Pil che "aritmeticamente" fa salire proprio quel peso relativo del deficit e del debito che si vorrebbe ridurre.

Un altro studio che circola qui a New York, sfornato dalla Goldman Sachs, individua un solo caso nella storia in cui l'austerity sia stata accompagnata alla crescita. E' il caso del Belgio, un paese così piccolo che l'andamento della sua economia è quasi interamente legato alla domanda dei paesi vicini come Germania, Francia, Olanda. 

Esclusa questa minuscola eccezione, austerity e crescita non coincidono mai nei fatti

La controprova la fornisce proprio l'economia degli Stati Uniti. L'Amministrazione Obama ha la fortuna di non sottostare a l l ' " o r d o - l i b e r i s m o " d e l l a Merkel, né ai parametri di Maastricht o altre versioni aggiornate di "fiscal compact".

Washington ha chiuso il 2012 con un deficit federale superiore all'8% del Pil, un livello che nella Ue vecchia maniera farebbe invocare commissariamenti esterni. 
E' anche grazie al motore keynesiano della spesa pubblica che l'America ha una crescita che sfiora il 3% annuo, genera costantemente oltre 150.000 nuove assunzioni al mese da due anni a questa parte, e ha ridotto la disoccupazione dal 10% al 7,8%. 

Tutte quelle economie mondiali che hanno scongiurato la crisi o ne sono uscite in fretta - vedi le potenze emergenti dei Brics - hanno fatto ricorso a qualche variante della ricetta keynesiana.

L'Europa ci sta arrivando in ritardo, sulla scorta di un ravvedimento. 

E' ancora Juncker il più colorito, che rispolvera addirittura l'autore del Manifesto comunista: «Occorre ritrovare la dimensione sociale dell'Unione economico-monetaria, con misure come il salario minimo in tutti i paesi della zona euro, altrimenti per dirla con Marx perderemmo credibilità verso la classe operaia».

Molto dipende ancora dalla Germania, e dall'esito delle sue elezioni. Il tedesco Martin Schulz, socialdemocratico che presiede l'Europarlamento, dà un'idea dell'orientamento nel suo partito quando ricorda di aver sostenuto l'azione di Mario Monti «sul principio di ricostruzione della fiducia», ma precisa che questo sostegno non si applica «ai dettagli delle misure». 

Le grandi manovre sono in atto, per prendere le distanze da una politica che non ha dato i risultati promessi.

E Stilinga pensa: ma ci voleva così tanto tempo e così tanta sofferenza inflitta a milioni di cittadini europei per rendersi conto che la medicina era sbagliata? 

Ma in Europa gli economisti dormono? o cosa? 
riformulando la domanda: ma in Europa che tipo di economisti lavorano? nazisti? 

E questi economisti una minima infarinatura anche grezza di storia l'hanno? 

A ben vedere la crisi economica iniziata nel 2007 e che perdura fino ad oggi è stata pessimamente governata e solo la stitica visione di politici di destra e di economisti cari alla Trirateral e al Bilderberg Club posso giustificare tale nefasta permanenza.

Inoltre, Stilinga si chiede: ma possibile che tali professoroni ed espertoni europei non ragionino con la propria capoccia? possibile che si bevano il verbo inconfutabile della Trirateral e dei ricconi idioti del Bilderberg?
Ma un paio di giri nella realtà costoro se li fanno qualche volta? 

Che vergogna!gente esperta di incompetenza e completamente avulsa al reale, si mortifichino! e chiedano scusa, oltre che restituire gli stipendi che, a questo punto, rubano ai contribuenti europei. 

Crisi, i dati dicono che dare più soldi agli ultimi conviene - Stefano Feltri - Il Fatto Quotidiano

Crisi, i dati dicono che dare più soldi agli ultimi conviene - Stefano Feltri - Il Fatto Quotidiano


 Semplice: si basa sugli studi più recenti dell’Unione europea, sui numeri. Juncker, presidente dell’Eurogruppo (il coordinamento dei ministri economici dell’Eurozona), indica due punti: l’euro avrebbe dovuto ridurre gli squilibri sociali, e non è successo; la disoccupazione in Europa è drammatica (11,7 per cento, picco del 26,2 in Spagna) e serve un salario minimo europeo.
Nella crisi la gabbia della moneta unica sta in effetti contribuendo ad aumentare la disuguaglianza. Lo ha stabilito un’analisi della Commissione europa del 18 dicembre: se si guardano i deficit e i surplus delle partite correnti – alcuni Paesi esportano più di quanto importano (Germania), altri il contrario (Grecia prima del crollo dei consumi – si scopre che gli squilibri sono dovuti soprattutto a flussi finanziari favoriti dalla convergenza dei tassi di interesse. 
Tradotto: alcuni Paesi come Grecia e Italia, grazia all’ombrello della moneta unica, hanno potuto indebitarsi pagando meno di quanto avrebbero dovuto. E da lì derivano i problemi da risolvere oggi. Quando il mercato si è svegliato dalla bolla della fiducia (che teneva bassi i tassi rendendo conveniente indebitarsi), i Paesi dell’Unione hanno invece cercato di correggere la bilancia dei pagamenti. E “la maggior parte dell’aggiustamento si è avuto dal lato dei Paesi in deficit attraverso la compressione degli investimenti e dei consumi”.
 Semplificando: gli squilibri di competitività tra Germania e Grecia (e Italia) si potevano risolvere in due modi: o alzando i salari tedeschi o riducendo quelli italiani e greci. Ha vinto la seconda ipotesi. Quindi Juncker ha ragione, la promessa di fondo dell’euro non è stata rispettata.
Come correggere il tiro? Per esempio intervenendo sul salario minimo
Secondo la teoria il salario minimo alza il prezzo del lavoro meno qualificato, facendone diminuire la domanda (quindi sale la disoccupazione) e rende relativamente più conveniente assumere lavoratori più qualificati. Inoltre sale il prezzo delle merci, si riduce la domanda e dunque la produzione, rendendo necessari meno lavoratori. E, ancora una volta, sale la disoccupazione dei lavoratori poco qualificati che si volevano tutelare. 
Questa è la teoria. Che in Europa si dimostra falsa, dice lo studio su “Sviluppo e sviluppi sociali in Europa” presentato lunedì dalla Commissione europea. 
Si scopre che in Europa, dati 2010, c’è una correlazione positiva tra salario minimo e percentuale di reddito da lavoro
Più è alto il salario, maggiore la quota di ricchezza che resta ai lavoratori. Si riduce anche la disuguaglianza nella società (misurata dall’indice di Gini). E, quel che più conta, nel 2010 sin Europa si è registrata una correlazione positiva tra salario minimo e occupazione dei lavoratori poco qualificati. La rigidità salariale ha addirittura aiutato i lavoratori più deboli a trovare un posto (o a non perderlo), al contrario di quanto previsto dalla teoria.
In Europa 20 Paesi hanno un salario minimo, ma non c’è uno standard comunitario che eviterebbe competizioni al ribasso tra i Paesi: in Francia vale il 47,4 del salario medio, in Spagna il 34,6. 
In Italia non c’è
Vigono in contratti nazionali di categoria che fissano gli standard. Ma con l’apprendistato si permette alle imprese di pagare meno di quanto fissato dal contratto per cinque anni, praticamente a parità di mansioni, visto che il lavoratore deve apprendere. E le parole di Juncker sono state accolte con una certa freddezza.
E Stilinga pensa che il reddito minimo esistente in Europa ma non Italia sia la base minima di civiltà di una istituzione come lo Stato.
Pare che dall'Europa si debbano accettare solo le botte da orbi, necessarie dicono per evitare il peggio, tipo fallimento economico, ma quando si tratta di innalzare l'asticella dei diritti anche economici minimi, visto che questo sistema italiano ed europeo si basa sul capitalismo e sul consumismo, allora le cose non valgono più: il peggio dell'Europa i governi lo fanno decreto legge, il meglio lo lasciano nel totale dimenticatoio a discapito non solo dei più bisognosi di cui questi arroganti politici se ne fregano, ma anche a discapito della stessa economia. Stilinga crede che i politici siano totalmente pazzi ed alieni.

Juncker: «Salario minimo per tutta l'area euro»

DA http://www.corriere.it/economia/13_gennaio_10/europa-disoccupazione-juncker_a80563e6-5b14-11e2-b99a-09ab2491ad91.shtml

Nell'area euro «stiamo sottovalutando l'enorme tragedia della disoccupazione, che ci sta schiacciando». 
L'allarme del presidente dell'Eurogruppo, Jean-Claude Juncker ha trovato una conferma indiretta nelle parole pronunciate a Francoforte da Mario Draghi, nella prima conferenza stampa dell'anno. «La crescita economica continua ad essere debole nel 2013» ha avvertito il presidente della Bce, anche se «nel corso dell'anno è attesa una graduale ripresa». Segnali positivi che difficilmente basteranno a contrastare la disoccupazione che nell'area dell'euro supera l'11 per cento. «Dobbiamo ricordarci - ha detto Juncker a Strasburgo in un' audizione all'Europarlamento - che quando è stato fatto l'euro avevamo promesso agli europei che tra i vantaggi della moneta unica ci sarebbe stato un miglioramento degli squilibri sociali».
JUNKER CHIEDE IL SALARIO MINIMO - Secondo Juncker, esponente del Partito Popolare europeo, «bisogna ritrovare la dimensione sociale dell'unione economica e monetaria, con misure come il salario minimo in tutti i Paesi della zona euro, altrimenti perderemmo credibilità e approvazione della classe operaia, per dirla con Marx». Quindi l'invito ai governi a non pensare che la crisi sia al capolinea. «I tempi che viviamo sono difficili -afferma- non dobbiamo dare all'opinione pubblica l'impressione che il peggio sia alle nostre spalle perchè ci sono ancora cose da fare molto difficili».
DRAGHI: GOVERNI VADANO AVANTI CON RIFORME«I governi dell'area euro devono proseguire con le riforme del mercato del lavoro e dei servizi, in modo da aumentare la competitività e stimolare la crescita del Pil e dell'occupazione», è stato l'invito di Draghi che poi osservato come il calo dei rendimenti dei titoli di Stato dei paesi più vulnerabili dell' Eurozona debba «essere consolidato da un ulteriore miglioramento dei conti pubblici».
DRAGHI: AFFRONTARE DUALISMO MERCATO LAVORO - L'elevata disoccupazione giovanile nell'Eurozona, ha ricordato il presidente della Bce «è legata a un mercato del lavoro duale dove i giovani hanno scarse tutele mentre i vecchi, gli altri, ne hanno molte, quindi la disoccupazione si concentra sulla parte giovane della popolazione». «La grande flessibilizzazione del mercato del lavoro avviata agli inizi degli anni duemila è stata concentrata sulla parte giovane della popolazione, quindi quando è arrivata la crisi i giovani sono stati i primi a perdere il loro posto».

MARIO MONTI E LA MASSONERIA: UNA RELAZIONE PERICOLOSA PER L’ITALIA.

DA http://ilcorsivoquotidiano.net/2011/11/14/massoni-italiani-mario-monti-massoneria/



Nell’elenco dei 43 massoni italiani che abbiamo pubblicato qualche mese fa (elenco consultabile qui)  il nome di Mario Montic’era.
Il nostro futuro premier, così ben voluto da tutti, é un massone. Ha preso parte alle riunioni segrete del gruppo Bilderbergnumerose volte, fa parte della Commissione Trilaterale (la più potente loggia massonica del mondo) ed é membro della Golden Sachs, la più potente banca d’affari dell’intero pianeta, la grande burattinaia dell’intero mercato finanziario internazionale.
 La massoneria gestisce l’ intera speculazione finanziaria mondiale. La stessa speculazione che hapreso di mira l’Italia e che ci sta facendo sprofondare sempre di più nella recessione.
Mario Monti: Salvatore della Patria o massone doppiogiochista? Avrà più a cuore il suo Paese o la sua loggia massonica? Due interessi pericolosamente contrastanti che confluiscono inquietantemente nella figura del nostro nuovo Capo del Governo.
Il Capo del Governo uscente, l’unico imputato per la crisi economica, in realtà non é il principale artefice della recessione italiana. Lui e le sue fastidiose leggi ad personam, le sue crociate contro quei comunisti dei magistrati e la sua eccessiva fiducia nell’incompetenza reiterata di Tremonti hanno sicuramente contribuito al disastro economico italiano, ma non possono essere le uniche ragioni.
La vera ragione della crisi é la massoneria mondiale. Una cricca di potenti, tanto ricchi da poter creare a piacimento crisi e risanamenti nei conti di una intera nazione. Sono loro che smuovono immense quantità di capitali, che mettono in moto ogni singolo meccanismo speculativo sul mercato finanziario. La morsa che hanno stretto su Gecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, ora sta soggiogando l’Italia.
Il fatto che uno di questi massoni si trovi ora alla guida dell’Italia é una situazione davvero molto pericolosa, perchè a loro interessa il crack finanziario del nostro Paese e ora vedremo il perchè.
ANALIZZIAMO IL PROBLEMA:
In questi giorni, ogni volta che il governo prendeva una spallata e iniziava a vacillare pericolosamente, il mercato dava fiducia all’Italia e lo Spread si assestava. Di contro, ad ogni indizio che portava alla stabilità del governo, specie in concomitanza con le dichiarazioni pubbliche di resistenza del Cavaliere, lo Spread volava. É come se il mercato credesse nell’Italia ma non nel suo governo.
É proprio questa la situazione: la massoneria mondiale non gradiva più Silvio Berlusconi. L’ex premier, che ha goduto per tutti gli anni dei suoi mandati dell’appoggio delle logge, era diventato scomodo. Ero uno ostacolo per la “conquista” dell’Italia.
Ecco le tre motivazioni per le quali la massoneria voleva silurare Berlusconi e vuole il tracollo totale della finanza italiana:
PUNTO PRIMO: La politica energetica italiana da’ molto fastidio ai confratelli anglo-ebraici-americani. Il cavaliere, per quanto criticabile sul tutti i fronti, è però riuscito a instaurare rapporti commerciali energetici con Libia e Russia. Ucciso Gheddafi è rimasta soltanto la Russia di Putin, l’E.N.I. é in difficoltà, nessun accordo con il nuovo governo libico é stato ancora intavolato. Attualmente, il 30% dell’E.N.I. è in mano pubblica. Un altro 20% lo possiedono gli investitori anglo-ebraici-statunitensi che tirano le fila del mercato globale e che vogliono mettere le loro avide mani, grazie alla crisi economica creata ad arte, sulle decine di miliardi che una maggiore proprietà dell’E.N.I significhebbe. Se l’Italia affonda, deve svendere le sue azioni. Se le svende, i grandi burattinai ci guadagnano.
PUNTO SECONDO: Con quasi 2500 tonnellate di oro, l’Italia possiede la terza maggior riserva di oro al mondo, dopo Stati Uniti e Germania. Il Fort Knox (precisamente 2.451,80 tonnellate) fa gola a molti. Mettere in ginocchio un paese con le tasche così piene d’oro é il sogno di ogni potente speculatore.
PUNTO TERZO: L’Italia é un paese con un importante patrimonio pubblico. Se l’Italia va male lo deve per forza svendere. I capitali stranieri sono voraci in termine di patrimoni pubblici. Ogni volta che un Paese va male, o é scosso da un accadimento che lo ha fortemente indebolito, gli avvoltoi sono lì, sempre pronti per nutrirsi di dsigrazie (fonte:disinformazione.it)
FOCUS SUL PUNTO TERZO: In Italia una cosa simile é già accaduta nel 1992 e allora vinsero i massoni: a poche settimane dalla strage di Capaci (il 23 maggio 1992), esattamente il 2 giugno 1992 sul Britannia, il panfilo della Regina Elisabetta II, si organizzò un vero e proprio complotto ai danni dell’Italia.
George Soros, Giulio Tremonti, il Direttore generale del Tesoro Mario Draghi, Il Presidente dell’IRI Romano Prodi, il Presidente dell’ENEL Franco Bernabé, il Governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi e il Ministro Beniamino Andreatta, svendettero il patrimonio pubblico ai capitali stranieri come Goldman Sachs, Barings, Warburg e Morgan Stanley.
I nostri B.O.T. Vennero immediatamente declassati dalle agenzie di rating mondiali (indovinate un pò, tra l’altro, nelle mani di chi sono) e lo speculatore ungaro-ebraico George Soros, cercò di impossessarsi di 10.000 miliardi di lire della Banca d’Italia, speculando sterlina contro lira.
Carlo Azeglio Ciampi, per “impedire”, diciamo così, tale speculazione, bruciò le riserve in valuta straniera: 48 miliardi di dollari. Ciampi, per questi suoi servigi sarà premiato con la Presidenza della Repubblica.
Su George Soros indagarono le procure di Roma e Napoli, ma lo strapotere dei suoi amici massoni vinsero ancora una volta e tutte le accuse caddero nel vuoto.
A seguito di questo attacco mirato alla lira, e della sua immediata svalutazione del 30% partì la più grande privatizzazione di Stato a prezzi stracciati (ENEL, ENI, Telecom, ecc.), per opera dei governi Amato (1992-1993) e Prodi (1996-1998). In quel caso la Massoneria si accontentò di una speculazione “mirata”, un colpo all’Italia che sarebbe stato molto lucroso ma non letale per il Bel Paese. Ciò che mi preoccupa é che i loro ingordi stomaci rumina soldi questa volta vogliano mangiare il più possibile, fino a spolpare tutta la carne, facendo affiorare dal sangue le ossa del povero scheletro italico.
SCOMDISSIME CONSIDERAZIONI FINALI:
Il buon Mario Monti é completamente invischiato con questa gente, ne fa parte, é uno di loro. La sua presenza su panfili reali e negli hotel di super lusso – in cui avvengono le riunioni del Gruppo Bildenberg (nel 2004 anche in Italia, a Stresa, sul Lago Maggiore) – sono documentate e comprovate. Questi avidi porci bramosi di denaro che perseguono biecamente il loro benessere, il loro arricchirsi, il loro lucrare sulla povera gente.
Proprio quei porci che definiscono P.I.I.G.S.(anagramma della parola “porci” in inglese) i cinque paesi più in crisi dell’Unione Europea (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) anche  se in realtà i veri artefici di questa situazione sono loro: Le loro macchinazioni, il loro prender di mira a turno un nuovo Paese dell’Unione, serve solo alle loro squallide speculazioni. I cosiddetti “Pigs”, i maiali, sono semplice carne da macello, da triturare per generare dei guadagni.
Tutto ciò é possibile grazie alla moneta unica d’Europa. La nascita dell’Euro é stata la più grande speculazione massonica della storia. I maiali sono così stati messi in un grande recinto, dal quale é meglio individuabile il più vulnerabile, colui che offrirà meno resistenza alla propria macellazione (guarda caso, gli inglesi, gli europei più potenti nelle logge massoniche, non fanno parte della moneta unica. Il porcello inglese ingrassa fuori dal recinto).
Conosciuti tutti questi retroscena, sei ancora convinto che Mario Monti farà soltanto il bene dell’Italia? io ora ho tanta paura che voglia compiacere quei maiali dei suoi amici.

Dal buco dell'era Storace al crac Vaticano. Drammi e disastri della sanità romana di MARIA NOVELLA DE LUCA



Dal buco dell'era Storace al crac Vaticano.Drammi e disastri della sanità romanadi MARIA NOVELLA DE LUCA


Dieci miliardi di debiti pregressi e 1 miliardo  e 140 milioni di deficit oggi. Per far fronte, adesso, bisogna chiudere quattro ospedali, tagliare duemila letti e mille e cinquecento posti di lavoro. Pagano i cittadini e il personale. Il simbolo sono i grappoli di lenzuola bianche che da mesi coprono per protesta i tetti e le facciate dei più grandi ospedali romani. Umberto I, San Filippo Neri, Forlanini, Gemelli, Spallanzani... Migliaia di lenzuola diventate drappi neri di smog e di pioggia, bandiere luttuose di un crac annunciato che sta travolgendo tutta la Sanità del Lazio, 10 miliardi di debiti alle spalle e un miliardo e 140 milioni di euro di deficit oggi, una voragine che sta divorando reparti di eccellenza e posti di lavoro, ma che affonda le sue radici in una lunga storia di inefficienze e ruberie. I numeri sono quelli di una dismissione, quasi un addio alle armi: duemila letti da tagliare, quattro ospedali da chiudere, almeno 1500 licenziamenti annunciati, medici e tecnici che fanno lo sciopero della fame, e per la prima volta è anche la potente e ricca Sanità del Vaticano a piegarsi in due, i grandi nosocomi cattolici cresciuti e prosperati con i rimborsi della regione Lazio. Cadono simboli e stemmi di congregazioni religiose: dal Gemelli al Fatebenefratelli travolti dai tagli del piano “lacrime e sangue” del commissario alla Sanità Enrico Bondi, all’Idi, il più importante ospedale dermatologico d’Italia, messo in ginocchio da un buco finanziario di 800milioni di euro. L’intero vertice laico e religioso dell’Idi è sotto inchiesta e i dipendenti senza stipendio da più di quattro mesi. Soltanto due sere fa, infreddoliti e affamati, sono scesi dal tetto che i 6 tecnici che facevano lo sciopero della fame. "Piccoli, grandi eroi", li hanno chiamati i loro compagni di lavoro.


Gli ospedali romani sono a terra, i laboratori vuoti, i pazienti abbandonati sulle barelle perché i reparti scoppiano: ma forse la Capitale, dicono i sindacati, altro non è che quel “laboratorio dello smantellamento della sanità pubblica”, minacciato, seppure velatamente, dal presidente del Consiglio Monti, paradigma dunque di ciò che potrebbe accadere altrove, in altre regioni. Ma da dove nasce lo sfascio della Sanità romana? E chi sono i responsabili? E quanto la tragedia di oggi è da imputare alla spending review che deve portare il numero di posti letto a 3 per mille abitanti, e quanto invece a precedenti (spericolate) amministrazioni regionali? 


Storia di un crac. "E’ il 2006 quando il buco nella Sanità del Lazio lasciato dalla giunta Storace viene per la prima volta alla luce in tutta la sua enormità: 10 miliardi di euro, una cifra spaventosa", racconta Marcello Degni, economista, docente di Contabilità Pubblica alla Sapienza di Roma. Quarantanove ospedali pubblici venduti e poi riaffittati a caro prezzo dalla Regione, la malefatte di lady Asl, fatture gonfiate, appalti, tangenti. Un fiume di denaro che scompare senza traccia. Un debito tossico che eredita in pieno Piero Marrazzo, succeduto alla Regione alla fine del 2005, che chiede l’intervento dell’allora ministro per l’Economia Tommaso Padoa Schioppa. 


"Venne deciso un piano di rientro, almeno parziale, attraverso un prestito dello Stato di cinque miliardi di euro, da restituire in 30 anni attraverso rate di 300 milioni ogni dodici mesi. Ed è da qui, per impedire la formazione di nuovo debito che iniziano i tagli alla Sanità del Lazio". Dal 2006 al 2012 scompaiono anche attraverso la chiusura di molti piccoli ospedali, circa 4mila posti letto.


La Sanità laziale subisce un tracollo: al Pronto Soccorso del San Camillo, tra i più affollati della Capitale, i malati vengono visitati per terra, come negli ospedali di guerra. La fotografia, scattata a febbraio del 2012, fa il giro del mondo: è l’Italia? Sì, è l’Italia, anzi Roma, anni luce lontana dall’Europa. Ma non basta: il disavanzo della spese sanitarie della Regione Lazio resta alto, altissimo. Un miliardo e 140 milioni nel 2011. E i tagli spesso avvengono senza criterio, come denuncia Ignazio Marino, presidente della Commissione d’Inchiesta sulla Sanità del Senato. Che definisce il Lazio un esempio di “sperpero nazionale”.


Quell’esercito di primari. Sì, perché non si può mettere in ginocchio una città, chiudendo poli d’eccellenza facendo così pagare ai cittadini il prezzo di colpe altrui... Oltre alla “finanza facile” dell’era Storace, che cosa è successo infatti negli ultimi 15 anni nella città eterna, all’ombra anche e a volte con la “partecipazione” del Vaticano? Spiega Ignazio Marino: "La soluzione non possono essere tagli selvaggi che ricadono sulla pelle dei cittadini, dopo che per decenni in questa regione si sono moltiplicate cattedre, posti, reparti. Nel Lazio ci sono 1600 Unità Operative, a capo di ognuna della quali c’è un primario. Quante di queste sono davvero necessarie?". E quante create per offrire un posto di prestigio a qualcuno? Come non ricordare, allora, soltanto uno degli scandali più recenti, cioè quella Unità Operativa Complessa di “Tecnologie cellularimolecolari applicati alle malattie cardiovascolari” creata ad hoc al policlinico Umberto I di Roma per Giacomo Frati, figlio del rettore della Sapienza Luigi Frati? 

Ma i casi citati da Ignazio Marino sono molti di più. Le 35 strutture di emodinamica (reparti ad alta specializzazione cardiologica) di cui però soltanto 6 lavorano giorno e notte, come se, ironizza Marino, "l’infarto arrivasse soltanto nelle ore d’ufficio". E poi i 5 centri per il trapianto di fegato, costi altissimi e 98 interventi nel 2011, contro i ben 137 effettuati a Torino dove di centro trapianti ce n’è uno solo. "Il risanamento passa attraverso gli accorpamenti e una gestione più equa delle risorse. Ci sono spese gonfiate e reparti depressi: penso al pronto soccorso pediatrico del policlinico Umberto I, visita 27 mila bambini l’anno e l’80% del personale è precario. Una follia".


Lo scandalo dell’Idi. E’ forse la prima volta nella storia italiana, e soprattutto in quella capitolina, che le casse degli ospedali vaticani sono vuote. Il crac ha travolto anche loro. Lenzuola appese ai balconi del policlinico Agostino Gemelli, polo d’eccellenza della sanità vaticana, dove è sempre pronto un reparto per accogliere il Papa. L’università cattolica subirà un taglio retroattivo di 29 milioni di euro per il 2012, mentre attende ancora 800 milioni di rimborsi. E altri ospedali religiosi, come il Fatebenefratelli, hanno già iniziato a non erogare più prestazioni in convenzione.

Ma è lo scandalo dell’Idi a turbare (forse) i sonni delle gerarchie ecclesiastiche. Chi ha rubato infatti i soldi dell’Istituto Dermopatico dell’Immacolata, all’avanguardia per le malattie della pelle e nella cura del melanoma? Una storia torbida, che ha fatto parlare di un caso “San Raffaele” della Capitale, ha portato sotto inchiesta tutti i vertici dell’istituto di proprietà dei padri Concezionisti per un buco nella casse dell’ospedale di 800 milioni di euro. E in particolare frate Franco Decaminada, da anni a capo dell’Idi, accusato di appropriazione indebita, e autore, sembra, di opache speculazioni finanziarie che hanno messo in ginocchio l’istituto, attraverso l’acquisto di immobili, e addirittura di investimenti in Congo. "Fatturavamo 70mila euro al giorno - racconta desolata Stefania Zaia, tecnico di laboratorio - oggi siamo senza stipendi da quattro mesi".


Emergenza Italia. Se il Lazio è il paradigma negativo di quello che può succedere in una regione amministrata male, nel resto d’Italia la situazione è quasi altrettanto grave. Dai migliaia di esuberi in Lombardia al taglio dei interventi non urgenti in Toscana, dai debiti della Campania alla minaccia di chiusura dell’ ospedale Valdese in Piemonte, la sanità pubblica italiana sembra destinata ad una progressiva e amara dismissione.

GENEALOGIA DI GIORGIO NAPOLITANO DI SAVOIA

GENEALOGIA DI GIORGIO NAPOLITANO DI SAVOIA

Cardinale Scola: la chiesa cattolica mette a rischio la libertà dei cittadini italiani


Stilinga risponde al cardinale Scola asserendo che la chiesa cattolica ha messo e tuttora mette a rischio la libertà dei cittadini italiani.


Lo Stato laico è idoneo a costruire un ambito favorevole a tutti i cittadini e nessuna religione lo può o lo deve limitare in alcun senso.

Inoltre, ogni cittadino ha diritto a decidere se o meno aderire a qualsivoglia religione che lo interessi e lo aiuti a livello spirituale.

La chiesa cattolica ed il suo stato extra territoriale in seno alla città di Roma, devono rassegnarsi al declino economico e spirituale in cui si trovano.

Nonostante ripetutamente, la chiesa cattolica abbia messo le mani sullo Stato Italiano, i cittadini italiani sono forti e ben temprati contro tali assalti e sanno che il potere di cui la chiesa cattolica gode in casa loro va ben oltre la tollerabilità sopportabile, ed il pensiero di questi cittadini va anche verso i recenti scandali non solo economici e quindi del tutto secolari, ma anche pedofili in cui proprio la  chiesa è coinvolta.
E' vero cardinale Scola che la visione del mondo è profondamente mutata nei secoli e pare che l'unica istituzione religiosa che non ha capito dove la società stava andando sia proprio la chiesa cattolica, che infatti ormai è distaccata dalla realtà dei cittadini italiani, ottusa e persa nei sui dogmi e nei suoi secolarissimi privilegi.

Quindi cardinale Scola, Stilinga le suggerisce di evitare di esternare attacchi aggressivi verso lo Stato Italiano e le suggerisce anche di farsene una santa ragione.

Siamo tanti noi cittadini italiani e siamo pronti a difenderci, credo che questo lo sappia.
 

Agnese Borsellino:"Il mio sdegno per Mancino"

Agnese Borsellino parla del marito

Perché Monti vuol far morire la sanità pubblica di Ivan Cavicchi

Perché Monti vuol far morire la sanità pubblica
 di Ivan Cavicchi* da il Fatto quotidiano

 Le maldestre dichiarazioni del presidente Monti sulla sanità ci dicono che il governo sta lavorando a un cambio di sistema.

Con l’inganno dell’assistenza integrativa, potrebbero arrivarci addosso mutue e fondi assicurativi a sostituire, non a integrare, lo Stato in parti rilevanti della tutela pubblica. 

E siccome sono cose costose, che “l’anatra zoppa” si arrangi e addio all’universalismo e alla solidarietà.

Sono convinto che un’operazione del genere è più ideologica che dettata dai problemi oggettivi della sanità, per cui c’è da chiedersi che diritto abbia un governo tecnico di mettere in croce milioni di persone con un anacronistico neoliberismo. 

La situazione oggi per i cittadini è molto più pesante di quando, 50 anni fa, avevamo il sistema mutualistico: 9 milioni di persone sono fuori dall’area del diritto, 2 milioni e mezzo di nuclei familiari abbandonano le cure perché non hanno i soldi per pagarsele e solo 8 regioni riescono a fatica a garantire le cure dovute per legge.

La spesa che il cittadino sborsa per avere ciò di cui avrebbe gratuitamente diritto è altissima: siamo a 2 punti di pil. Ma questo è ancora niente.

Con la spending review, i tagli lineari e la legge di Stabilità (sono le regioni a dirlo), la situazione diventerà una “tragedia greca”. Il doppio senso non è casuale. Non mi stupisce quindi che si voglia mettere mano a un cambio di sistema con l’intenzione di frammentare e delimitare il più possibile il bacino del dissenso sociale.

Credo che la spending review sia stata sottovalutata per le sue dirompenti implicazioni non tecniche, ma politiche. È stata vista dalla maggior parte dei commentatori, regioni in testa, come una prova di rigore esagerato. MA IN REALTÀ crea di fatto le condizioni per una devastante privatizzazione del sistema.

 I tagli non sono solo esagerati, ma pensati per ridefinire di fatto i confini del servizio pubblico e per definanziare il sistema. I tagli lineari stanno al definanziamento come le mutue stanno alla privatizzazione. Quindi perché meravigliarsi se oggi Monti ci viene a parlare di mutue e di assicurazioni private? Sappiamo che sulle mutue sta lavorando il ministro Balduzzi (area Pd), a conferma del fatto che la “sinistra”, pur con qualche incertezza, ci sta pensando da tempo.
Del resto, chi non sa come andare avanti ritiene saggio tornare in dietro. È inutile dire quali enormi interessi si celino dietro la ricostruzione delle mutue. Fu Rosy Bindi, oggi presidente del Pd e nel ‘99 ministro della Salute, a sdoganare con la sua riforma le mutue integrative (dopo che le mutue erano state proibite dalla riforma del 1978).

 OGGI il governo Monti ci pone di fronte a una premessa fallace e a una falsa alternativa: siccome abbiamo problemi di bilancio, o aumentiamo le tasse o diminuiamo i servizi cioè cambiamo il sistema.

Tocca al riformismo vero, al pensiero forte rispondere: mi riferisco a quel riformismo che non alberga, purtroppo, né negli assessorati né nei ministeri, ma nel mondo della sanità e dei servizi, nelle esperienze dei cittadini organizzati, nei progetti e nelle strategie di medici e infermieri, nella cocciutaggine di chi in questi anni ha cercato le strade per conciliare i diritti con i limiti economici.

 Occorre una “riforma pubblica” che organizzi questo immenso patrimonio. Al ricatto “più tasse o meno servizi” dobbiamo rispondere con il cambiamento intelligente che alleggerisca il sistema, che lo ripensi profondamente, che lo moralizzi dalle tante forme di corruzione e di speculazione, che riduca il numero delle malattie e dei malati, insomma che lo faccia costare strutturalmente di meno e funzionare meglio.

Far morire la sanità pubblica è un crimine contro gli italiani, perché non conviene a nessuno, neanche ai più ricchi.

Niente ci obbliga a farlo: tutti, ma proprio tutti i problemi oggettivi della sanità sono risolvibili.

 Si tratta solo di svecchiare, rinnovare, reinventare, riformare… ri - formare… e ancora riformare. *Docente all'Università Tor Vergata di Roma, esperto di politiche sanitarie

Mario Monti ne spara una al giorno

Dopo 12 mesi di governo Monti, il signor Mario si rivela per quello che è: imbecille.

E su tutta la linea. Ne avesse azzeccata una a livello politico.
Ne avesse azzeccata mezza a livello sociale.
Ne avesse azzeccata un terzo a livello umano.

Già, è proprio l'umanità di cui codesto sobrio bocconiano (ormai essere bocconiani equivale ad un insulto) difetta.

La sua arroganza e protervia lo caratterizza. La sua personalià è imbevuta di superfluo e dannoso narcisismo. La sua incapacità sociale è pari solo alla voglia di ricorrere sempre e comunque a Napolitano, come alle gonne della mamma (ammesso che le donne ancora ne indossino di gonne).

Non riesce il Mario a confrontarsi pari a pari con i suoi simili, non riesce a capire la realtà, non riesce a vedere oltre il suo naso.

Il Mario è messo così male che ormai se volesse partecipare alle prossime elezioni politiche associandosi a qualche nefasta e fessa lista di centro, avrebbe sicuramente solo un voto: il suo. Manco la moglie lo voterebbe.

E siccome il Mario sa che il suo tempo è scaduto (peggio di un latticino andato a male) allora ogni giorno ha deciso di ammorbare i poveri italiani con sconcezze intellettuali di ogni genere: dalla scuola alla sanità.

Inoltre, il Mario dovrebbe capire che gli ordini del Bilderberg club sono indigeribili e dovrebbe annussare l'aria di fine del capitalismo turbo liberale. Ma nulla, è imbecille il Mario!

Passerà alla storia come colui a cui gli italiani hanno dovuto pagare la pigione (IMU) nonostante avessero comprato casa e avessero acceso i mutui, e passerà alla storia come colui che figlio del Vaticano, manco per nulla fa pagare alla madre Chiesa (stato straniero in suolo italiano) il giusto e il dovuto.
Ma che bella reputazione signor Mario!

Il welfare ferito al cuore di Chiara Saraceno


IL WELFARE FERITO AL CUORE di Chiara Saraceno.

NON si sentiva proprio il bisogno di questa ultima esternazione di Monti che adombra la possibilità che il sistema sanitario nazionale possa venir smantellato, o ridotto, a favore di un allargamento dello spazio per le assicurazioni private. 
Maliziosamente, qualcuno potrebbe pensare che, dopo aver colpito la sanità (come la scuola) in modo indiscriminato e a colpi d’accetta, rendendone sempre più difficile il funzionamento, ritenga che essa sia ormai così squalificata agli occhi dei cittadini da potersi permettere di prevederne la messa in liquidazione. 
Che la sanità italiana sia in affanno è sotto gli occhi di tutti, ma le cause di questo affanno sono molto meno chiare e univoche di quanto vogliano far credere le parole di Monti. E tra queste cause c’è anche il modo un po’ sconsiderato con cui si sta procedendo a contenerne i costi. 
Che siano state parole da tecnico così super partes e così preso dalla propria tecnicità da non curarsi dell’effetto delle proprie parole, o da politico che sta mettendo a punto la propria prossima agenda, le parole di Monti sembrano voler forzare ulteriormente il senso di allarme sociale in un momento in cui le tensioni sono già forti. 
Rivelano anche una singolare cecità, o insensibilità, rispetto alla situazione economica delle famiglie italiane. 
Queste per una buona parte non possono certamente permettersi la spesa aggiuntiva di una assicurazione sanitaria. Lo ha certificato oggi, quasi nelle stesse ore dell’esternazione di Monti, la Banca d’Italia, segnalando come il reddito disponibile delle famiglie sia diminuito di nuovo, per la quinta volta. 
Minacciare di togliere la sanità pubblica in questi frangenti significa colpire proprio chi sta già facendo fatica a tirare avanti. 
Chi può permetterselo ha già una assicurazione, anche se per le cose importanti usa il servizio pubblico, perché più affidabile e di migliore qualità media. L’istituzione del servizio sanitario nazionale nel 1977 è stata una importante conquista di civiltà nel nostro Paese. Come ha fatto la scuola pubblica per l’istruzione, ha garantito a tutti coloro che vivono in questo paese il diritto alle cure quando ammalati. Venivamo da un sistema mutualistico che non solo offriva prestazioni differenziate a seconda della mutua di appartenenza, ma non copriva neppure tutti i cittadini. Se il nostro sistema di welfare, così inadeguato già prima della crisi, non si esaurisce nelle pensioni, è perché c’è anche una sanità pubblica di tipo universalistico.
 Nonostante i periodici episodi di malasanità ed anche di corruzione, è un sistema che ha fatto bene il proprio dovere, come riconosciuto anche dall’organizzazione mondiale della salute che anni fa aveva collocato il sistema sanitario italiano tra i primi al mondo per efficienza ed efficacia. 
Non è perfetto, come testimoniano gli episodi, appunto, di malasanità e corruzione, le disuguaglianze territoriali nei livelli di prestazione, gli scarti spesso intollerabili tra qualità dell’intervento medico e qualità del contesto ambientale. È stato il primo settore in cui si sono verificate con mano tutte le potenzialità, ma anche i rischi e gli effetti perversi, della regionalizzazione. Ci sono certamente molte cose da riformare, per aumentare l’efficienza, eliminare gli sprechi, impedire che la sanità diventi l’ambito dell’arricchimento privato ai danni del pubblico.
 C’è un enorme spazio di efficienza da recuperare ed anche di rigidità inutili e dannose da rompere.
 Il settore della non autosufficienza è un caso esemplare, ove sanità e assistenza non si parlano e piuttosto scaricano l’una sull’altra le responsabilità, per contenere i costi.
 Con il risultato che sono le famiglie a dover compensare le inefficienze quando non le totali mancanze. Nelle proposte di riforma della sanità che circolano ci sono cose interessanti anche dal punto di vista del contenimento dei costi. 
Varrebbe la pena di discuterne in modo più allargato. Si può anche discutere che cosa (non chi) può rimanere nella sanità pubblica e che cosa no. Ma se intanto si procede per tagli lineari senza criterio e con un’opera di sistematica delegittimazione, analogamente a quanto si è fatto e si fa per la scuola, poi restano solo le macerie, su cui fioriscono i rancori e si allargano le disuguaglianze.
Da La Repubblica del 28/11/2012.

IL BLUFF SULL’IMU ALLA CHIESA (Gianluigi Pellegrino).

MENTRE Mario Monti ribadisce la religione del rigore, il suo esecutivo cerca di confezionare un regalo miliardario per gli enti ecclesiastici.
  Un buco finanziario, ma soprattutto una voragine di ingiustizia e disuguaglianza. 
E il rischio di una figuraccia in Europa.
E prima ancora in Italia visto che gli atti dicono l’esatto opposto del comunicato di Palazzo Chigi.
Ma andiamo con ordine.
Era stato il governo Berlusconi a scatenare la reazione della Commissione Europea, concependo una circolare del gennaio 2009. In questa si determinavano mille escamotage per garantire le gerarchie ecclesiastiche che poco o nulla sarebbe stato pagato. Arrivò Monti e solenne fu l’impegno: niente sconti, né privilegi.
E così per evitare la sanzione europea il Parlamento approvò una disciplina chiara quanto banale. 
La Chiesa avrebbe pagato per tutti gli immobili in cui svolge attività commerciale, come definita nel nostro ordinamento in conformità alle direttive europee. 
Ma il diavolo è nei dettagli.
Il governo si riserva di emettere un regolamento, apparentemente relativo alla disciplina di ipotesi marginali e residuali. E però con questa scusa ritorna sulla decisione del Parlamento per introdurre criteri grazie ai quali l’esenzione Imu per la Chiesa anche dove svolge attività commerciali diventerebbe amplissima: un rosario di eccezioni idonee quasi ad azzerare quello che il Parlamento aveva dovuto approvare per evitare la sanzione europea.
Fortunatamente i primi di ottobre il Consiglio di Stato investito dall’obbligatoria richiesta di parere ha bocciato in tronco il colpo di mano governativo, ammonendo l’esecutivo sulla procedura di infrazione europea e sui limiti delle delega che aveva ricevuto.

Per tutta risposta l’esecutivo anziché fare ammenda dello scivolone, si costruisce una legge ad hoc con un codicillo inserito nel Decreto Legge sugli enti locali. E torna a confezionare un regolamento che se venisse definitivamente approvato consentirebbe alla Chiesa rilevantissime esenzioni per la gran parte della sua attività commerciale: alberghi, sanità e scuole.

Il tentativo è sempre il medesimo di Tremonti; introdurre criteri di definizione dell’attività non commerciale diversi e ben più ampi di quelli dettati dall’ordinamento comunitario e nazionale; per farli valere soltanto per la Chiesa e per gli altri enti non profit, che invece ai fini della tassa immobiliare quando svolgono attività commerciale devono essere ovviamente trattati come chiunque altro; in difetto si avrebbe un clamoroso aiuto di stato a danno delle pubbliche casse e della corretta concorrenza.

Basti pensare che per le attività sanitarie il regolamento predisposto dall’attuale Governo proprio con le stesse parole utilizzate nella circolare Tremonti afferma che l’esenzione scatterebbe per il solo fatto della presenza di un accreditatamento con il servizio sanitario; il che però è semplicemente un modo per essere pagati dal pubblico anziché dal privato e certo non esclude ma anzi conferma la natura commerciale dell’attività. O ancora per le scuole si prevede l’esenzione se solo i costi di gestione non risultino “interamente” coperti dalle rette. Basta quindi che non lo siano per lo 0,1 per cento per far passare in cavalleria l’intera imposta; anche qui con sostanziale ripetizione di quel che aveva scritto Berlusconi.

Misure e balletti che la commissione europea ha già contestato come abusivo aiuto di stato in danno di conti pubblici, aziende e cittadini e che ora invece proprio il governo del rigore vuole riproporre in spregio agli impegni solenni di Monti e alla stessa legge approvata dal Parlamento.

Per fortuna la questione è di nuovo tornata in Consiglio di Stato che almeno su questi aspetti eclatanti non potrà non rilevare il contrasto con principi elementari che lo stesso atto del governo declama nelle sue premesse, salvo tradirli nello specifico dei criteri relativi ai campi principali dove si gioca la partita Chiesa-Imu (sanità, scuole, attività ricettiva).

I giudici pur nei limiti della loro funzione che in questo caso è solo consultiva non potranno che evidenziare la necessità che quei criteri per essere ammissibili dovranno necessariamente essere ricondotti ai parametri comunitari di definizione dell’attività commerciale da chiunque effettuata.

Solo attività veramente gratuita può essere esclusa. Altrimenti la sanzione europea sarebbe alle porte e sicuramente spietata come la relativa figuraccia internazionale e l’inaccettabile ingiustizia verso il resto del Paese, cittadini cattolici compresi.

Per non dire che le Camere con un rigurgito di dignità (ma c’è poco da sperarci) dovrebbero negare la conversione in legge di quel colpo di mano con cui il governo con un codicillo al Decreto Legge sugli enti locali si è arrogato il potere di rimettere in discussione ciò che era stato finalmente deciso.

Nel comunicato di ieri di Palazzo Chigi c’è insomma, spiace dirlo, tanto bluff nel metodo e nel merito. 

Nel metodo perché è stato proprio un blitz quello con cui l’esecutivo si è auto ampliato la delega per poter rimettere in discussione ciò che il Parlamento aveva finalmente deciso.

Nel merito perché basta leggere lo schema di regolamento che l’esecutivo ha confezionato per verificare che nei tre settori fondamentali la volontà del governo è proprio quella di ampliare a dismisura l’ambito di esenzione Imu in favore della Chiesa. 
Il documento è lì, basta leggerlo.
É un fatto e contro i fatti è inutile polemizzare. 

 Da La Repubblica del 13/11/2012

La strada da seguire per creare più lavoro di Luciano Gallino


LA STRADA DA SEGUIRE PER CREARE PIÙ LAVORO (Luciano Gallino).

MENTRE le cifre della disoccupazione sono sempre più drammatiche, il governo non pare avere alcuna idea per creare d’urgenza un congruo numero di posti di lavoro. I rimedi proposti alla spicciolata, dalla riduzione del cuneo fiscale alle facilitazioni per creare nuove imprese, dagli sgravi di imposta per chi assume giovani alla semplificazione delle procedure per l’avvio di cantieri e grandi opere, non sfiorano nemmeno il problema. Per di più il governo sembra sottovalutare la gravità della situazione.
 La disoccupazione di massa rappresenta tutt’insieme un’enorme perdita economica, uno scandalo intollerabile dal punto di vista umano, e un minaccioso rischio politico. 
Sotto il profilo economico, quasi tre milioni di disoccupati comportano una riduzione del Pil potenziale dell’ordine di 70-80 miliardi l’anno.
 Anche se ricevono un modesto reddito dal sussidio di disoccupazione o dai piani di mobilità, i disoccupati sono lavoratori costretti loro malgrado alla passività. Non producono ricchezza sia perché non lavorano, sia perché i mezzi di produzione, cioè gli impianti e le macchine che potrebbero usare, giacciono inutilizzati. 
Un’altra perdita economica deriva dal fatto che lunghi periodi di disoccupazione comportano che le capacità professionali si logorano e sono difficili da recuperare.
 Dal punto di vista umano la disoccupazione di massa, insieme con la povertà che diffonde, è uno scandalo perché i loro effetti, come ha scritto Amartya Sen, scardinano e sovvertono la vita personale e sociale.
 Elementi fondamentali di questa, dall’indipendenza personale alla possibilità di accedere per sé e i figli a una vita migliore, dalla realizzazione di sé alla sicurezza socio-economica della famiglia, sono strettamente legati alla disponibilità di un lavoro stabile, dignitosamente retribuito. 
Quando esso viene a mancare, anche tali elementi crollano, e la persona, la famiglia, la comunità sono ferite nel profondo delle loro strutture portanti. 
Quanto al rischio politico, qualcuno dovrebbe ricordarsi che uno dei fattori alla base dell’ascesa del fascismo e ancor più del nazismo è stata la disoccupazione di massa. 
E la capacità di ridurla mostrata da tali regimi dopo la crisi del ’29 è una delle ragioni del sostegno popolare di cui hanno goduto fino alla guerra che li ha abbattuti.
 Di certo oggi né l’uno né l’altro dei due regimi avrebbero la stessa faccia. Ma i sintomi di autoritarismo che affiorano in Europa, e i movimenti di estrema destra dagli alti tassi elettorali in almeno dieci Paesi, non sono da sottovalutare. 
Sperando che qualche movimento non cominci a promettere “ridurrò la disoccupazione a zero”. La promessa che fece e poi mantenne Hitler, fra il 1933 e il ’38.
 Poiché le austere ricette dei tecnici finora hanno aggravato il tasso di disoccupazione anziché ridurlo, sarebbe ora di pensare a qualcosa di più efficace, e magari sperimentarlo
Ho fatto riferimento altre volte all’idea che sia lo Stato a creare direttamente occupazione, in merito alla quale esistono solidi studi. Tempo fa si chiamavano schemi per un “datore di lavoro di ultima istanza”, ma oggi si preferisce chiamarli schemi di “garanzia di un posto di lavoro” (job guarantee, JG); il che non significa affatto una garanzia per quel posto di lavoro, ma per un posto di lavoro dignitoso e ragionevolmente retribuito. Coloro che elaborano simili schemi sono economisti e giuristi americani, australiani, canadesi, argentini, indiani; i quali, diversamente dai nostri governanti di oggi e di ieri, sembrano tutti aver meditato sull’articolo 4 della nostra Costituzione, quello per cui “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”: non del lavoro, si noti, di cui tratta invece l’articolo 35. Il primo mai attuato, il secondo in via di estinzione nella legislazione e nelle relazioni industriali. Uno schema di JG prevede che in via di principio esso sia accessibile a chiunque, essendo disoccupato, vuole lavorare ed è in grado di farlo. 
Di fatto sarebbe inevitabile, visti i numeri in gioco, dare la preferenza a qualche strato di persone in peggiori condizioni di altre, quali, per dire, i disoccupati di lunga durata. 
L’attuazione di uno schema di JG richiede un’agenzia centrale che stabilisce le regole di assunzione e i livelli di retribuzione, e gran numero di imprese (o centri di servizio o cooperative) a livello locale che assumono, al caso addestrano e impiegano direttamente i lavoratori, oppure li assegnano a imprese locali in progetti di immediata e rilevante utilità collettiva. 
Dando la preferenza a settori ad alta intensità di lavoro e bassa intensità di capitale, dai beni culturali ai servizi alla persona, dal recupero di edifici e centri storici alla ristrutturazione di scuole e ospedali.
 I centri locali trattano con le imprese le condizioni a cui esse possono impiegare i lavoratori del programma, dalla partecipazione ai costi del lavoro fino all’eventuale passaggio del dipendente dal pubblico al privato. 
Trovare le risorse per finanziare simili schemi è una questione complicata, nondimeno vari studi attestano che non è impossibile risolverla. Prima però di trattare tale tema c’è una premessa inderogabile: deve manifestarsi la volontà politica di affrontare con nuovi mezzi la catastrofe disoccupazione. Chiedere a un governo neoliberale di esprimere una simile volontà è forse troppo, ma le crisi sono sia uno stimolo, sia una buona giustificazione per cambiare idee e politiche. 
C’è una novità a livello europeo che dovrebbe indurre a discutere di simili schemi, e magari a sperimentarne qualcuno in singole regioni. Ai primi di settembre 2012 si è svolta a Bruxelles una conferenza internazionale sulle politiche del lavoro, organizzata dalla Commissione europea. Una sessione era dedicata a “La garanzia di un posto di lavoro – Concetto e realizzazione”. Hanno perfino invitato a parlare uno degli studiosi più noti e polemici in tema di JG, l’australiano Bill Mitchell. Posto che nei programmi di JG rivivono le teorie di Keynes in tema di politiche dell’occupazione, nonché la memoria del successo che gli interventi statali ebbero durante il New Deal rooseveltiano, aprire alla discussione di tali programmi uno dei templi della teologia neo-liberale, qual è la Commissione europea, è un segno che qualcosa sta cominciando a cambia-re sul fronte ideologico delle politiche del lavoro. 
Il documento base della sessione in parola formula varie domande: “Quali sono i maggiori ostacoli in Europa alla realizzazione di schemi di garanzia d’un posto di lavoro… volti ad affrontare la crisi della disoccupazione? Possono tali ostacoli venire superati? In quali aree potrebbero o dovrebbero essere sviluppati degli impieghi pubblici per disoccupati? Quanto tempo ci vorrebbe prima che a un disoccupato sia dato un lavoro nel settore pubblico?”. Sono domande a cui anche il nostro governo dovrebbe cercare di dare risposta, meglio se non soltanto in forma cartacea. Dopotutto, ce lo chiede l’Europa.
Da La Repubblica del 03/11/2012.
E Stilinga chiede a Mario Monti e al suo Governo:" Che c***o state facendo? e che c***o aspettate a rilanciare l'occupazione italiana?"