MA IL VOTO POPOLARE NON CANCELLA I REATI

MA IL VOTO POPOLARE NON CANCELLA I REATI

(Giovanni Valentini)

La Repubblica,  


I giudici non bastano mai a fermare la corruzione, se non se ne rimuovono le cause prime; e per farlo, la ragione morale non è mai sufficiente, soprattutto se indotta per via giudiziaria; ci vuole sempre e comunque la buona politica.
(da “Non ti delego” di Aldo Schiavone–Rizzoli,2013–pag.10)
Nell’increscioso happening mediatico sulla cosiddetta “agibilità politica” di Silvio Berlusconi, quasi si trattasse di un immobile pericolante da restaurare, riqualificare e sottoporre magari a collaudo, c’è un punto focale su cui converrà soffermarsi per fugare equivoci o strumentalizzazioni. Ed è quello che riguarda la presunta ordalia elettorale che, secondo molti suoi sostenitori, dovrebbe annullare – come un giudizio divino, appunto – la sentenza della magistratura in forza dei voti raccolti nelle urne.
Ma tutta questa indecorosa vicenda, non c’è niente di più falso e ingannevole. Ammesso e non concesso che il responso degli elettori possa prevalere su un verdetto emesso dai giudici “in nome del popolo italiano”, nel caso specifico non vale evidentemente il “principio di maggioranza”. L’elettorato del Pdl corrisponde a un terzo dei votanti e a circa un quinto di tutti gli aventi diritto al voto: si tratta, quindi, pur sempre di una minoranza. E comunque, la storia è prodiga di esempi che dimostrano ampiamente come il popolo a volte “elegge” perfino dittatori o tiranni, colpevoli di misfatti e reati.
Un secondo motivo è che, prima della sentenza definitiva, gli elettori di Berlusconi potevano legittimamente ritenerlo innocente. Mentre oggi, di fronte al terzo verdetto della magistratura, molti hanno dovuto o dovranno cambiare idea. Il responso dell’ordalia, dunque, va quantomeno verificato attraverso un ulteriore passaggio elettorale.
Un altro motivo per respingere l’ordalia è l’influenza della televisione e in particolare delle reti Mediaset che hanno già prestato e continuano a prestare a Berlusconi un “sostegno privilegiato”: ancora alle ultime elezioni, secondo una ricerca del Censis, oltre il 55% degli elettori ha deciso come votare in base alle informazioni e ai commenti trasmessi dalla tv, in larga parte controllata dall’ex premier-tycoon. E un tale condizionamento, per prevenire le obiezioni di tante “anime belle”, non funziona solo in termini politici ed elettorali. Ma anche in termini di “cultura di massa”.
È proprio questa mentalità collettiva – o “senso comune”, indotto dall’imbonimento della televisione commerciale – che può contribuire a spiegare il deficit di indignazione, la carenza di una larga disapprovazione pubblica nei confronti degli atti illeciti di Berlusconi. Il processo di identificazione reciproca tra il leader e il suo popolo è arrivato al punto da ipnotizzare o narcotizzare il pubblico dei teledipendenti. Lui stesso ha incarnato così un “modello di comportamento” in negativo, trasferendolo dalla sfera degli affari a quella della politica.
Se manca l’indignazione pubblica, manca di conseguenza l’indegnità personale. Quella consapevolezza, cioè, che avrebbe già dovuto indurre Berlusconi a dimettersi da senatore, dopo la condanna a quattro anni di reclusione e cinque di interdizione dai pubblici uffici. Non si scopre oggi, del resto, che l’opinione pubblica italiana, per una serie di ragioni storiche e culturali, difetta di quell’etica civile che in altri Paesi è stata ispirata soprattutto dalla riforma protestante.
Altro che contenzioso giuridico, dunque, sulla retroattività o irretroattività della legge Severino. La decadenza è, in pratica, una conseguenza automatica della sentenza emessa dalla Corte di Cassazione. Al pari dell’incandidabilità, non può che scattare ex nunc,come dicono i giuristi, nel momento stesso in cui il parlamentare diventa un pregiudicato. E infatti, è una pena accessoria che si aggiunge a quella principale della reclusione, come una sanzione amministrativa, in analogia con gli effetti civili di una sentenza penale. Se un reo non può entrare in Parlamento, evidentemente deve uscirne appena si accerta in via definitiva la sua colpevolezza.


QUAL È IL PREZZO DELLA GOVERNABILITÀ


La Repubblica 07.09.13

“QUAL È IL PREZZO DELLA GOVERNABILITÀ”, di VITTORIO SERMONTI

Caro Presidente Napolitano,
ma che cosa sta succedendo in Italia? Possibile mai che a un cittadino della Repubblica sia permesso (come è stato permesso ai primi di agosto) di additare con le lacrime agli occhi allo scherno di un migliaio o due di cittadini adoranti che brandiscono bandieroni stampati in serie e cartelli girati all’indietro per essere ripresi dalle telecamere, i giudici della Corte di Cassazione, colpevoli di averlo condannato per frode fiscale? Possibile che gli sia consentito (come gli è stato consentito) di ridicolizzare magistrati del più alto ordine giudiziario come «impiegati che hanno fatto un compitino vincendo un concorso», lui unto dal popolo, cioè presidente-padrone di un partito che ha riscosso parecchi consensi, comunque meno di un quarto del corpo elettorale, e che personalmente è disprezzato da quasi tutti gli altri elettori, e irriso nel resto d’Europa e del mondo? Possibile che quella bella manifestazione di strada, diffusa in diretta tv, e introdotta dall’inno nazionale, si sia insediata protervamente al centro dell’informazione televisiva e della vita politica e civile della nazione da settimane e settimane? E che le parole del cittadino con le lacrime agli occhi siano poi state citate impunemente dal suo staff a esempio di responsabilità istituzionale e di moderazione politica? E che Lei, signor Presidente, davanti alla nazione che la Sua persona ha onorato nel mondo con tanta fermezza e tanto equilibrio sia scandalosamente convocato ogni giorno che passa a tamponare una ininterrotta serie di ricatti per evitare il collasso dell’esecutivo, mentre il Paese intero arranca per sopravvivere e il Mediterraneo è spazzato da venti di guerra?
Presidente, mio Presidente, Lei sa molto meglio di me come una comunità tessuta di parole che non hanno più peso né senso perché ogni affermazione vale la sua smentita, e in cui l’iniquità si perfeziona nel cavillo, non è un Paese decente, certo non è un Paese per giovani. 
Una accettabile stabilità di governo in una fase di estrema labilità economica e di grande turbamento sociale entro un quadro internazionale minacciosissimo va accanitamente difesa (chi non se ne rende conto?): ma forse non a qualsiasi prezzo. E se il prezzo è l’ossatura morale del Paese, l’onore della sua lingua, cioè della sua identità profonda, la povera faccia di ciascuno di noi, io penso disperatamente che quel prezzo non vada pagato.
La politica svolga il suo compito; le istituzioni, il loro. Ma è arrivato il momento che ogni singolo cittadino – in democrazia il solo soggetto che dia corpo e legittimità alla maggioranza e, in casi estremi, l’unico contrappeso alla maggioranza – si metta in piazza per dire chiaro che non sopporta più di vivere ostaggio dell’egolatria eversiva di un frodatore del fisco, e tanto meno (è un problema di noi vecchi), di morirci.

La strategia del ricatto per blindare il porcellum

“La strategia del ricatto per blindare il porcellum”, di Gianluigi Pellegrino


Senza il Porcellum, il caimano non avrebbe il pantano dove minacciare il suo ultimo disperato colpo di coda. 
L’estorsione istituzionale di Berlusconi (salvacondotto personale o niente governo) una quintessenza della concussione, già sin troppo tollerata, sarebbe un’arma del tutto spuntata. Un’arma inefficace se non ci fosse la legge porcata da lui del resto a suo tempo voluta e approvata. 

Con un qualsiasi decente sistema di voto, il Paese avrebbe poco da temere dalla restituzione della parola ai cittadini, e già solo per questo il Cavaliere e la sua corte avrebbero altrettanto poco da minacciare.
Invece tornando al voto con il Porcellum non solo tutto il peggio è possibile ma bene che vada il caos è garantito e il risultato incostituzionale pure. Per non dire che tra gli obbrobri di quella legge c’è anche che un condannato, interdetto dai pubblici uffici e da ogni incarico di governo, parlamentare decaduto e incandidabile, possa ugualmente figurare al centro della scheda nel ruolo a quel punto sovversivo di capo e padrone della sua squadriglia.
Berlusconi tutto questo lo sa e quindi brandeggia la sua ultima disperata minaccia di provocare immediate elezioni ancora deturpate dal Porcellum se Pd e capo dello Stato non gli abbuonano sentenze e reati.
Da qui due immediate e stringenti conclusioni. La prima è quanto miopi siano state le titubanze e le ipocrisie con cui anche il governo e i democratici hanno fatto melina sulla riforma elettorale che pure avevano promesso come primo improcrastinabile impegno. Lo hanno fatto nella malcelata paura, quasi il terrore, che cambiare il sistema di voto avrebbe accelerato la fine di esecutivo e legislatura che evidentemente si volevano tenere in piedi a prescindere dalla loro utilità per il Paese, secondo l’immarcescibile comandamento del “tirare a campare che è sempre meglio che tirare le cuoia”. E così fingendo confronti e approfondimenti si rinviava tutto nel tempo, giungendo persino ad inserire in un disegno di legge costituzionale la blindatura del Porcellum sino alle calende greche di riforme che non hanno le condizioni minime per essere varate. Questo giornale aveva più volte evidenziato quanto la scelta di rinvio fosse sleale nei confronti del Paese ed ingiusta sul versante istituzionale. 
Le direttive europee ammoniscono come il tempo migliore per approvare nuove regole elettorali sia l’immediato inizio della legislatura, perché più avanti si va, più il merito della riforma viene inquinato dalle necessità di posizionamento delle forze politiche in vista del ritorno alle urne.
E comunque la presenza di una praticabile legge elettorale costituisce ogni giorno il polmone essenziale per l’agibilità democratica di una repubblica costituzionale.
Oggi quelle ipocrisie che imploravamo di abbandonare, si ritorcono contro chi l’ha praticate perché è proprio il Porcellum l’ultima arma disperata che consente a Berlusconi il suo estremo ricatto contro governo e Paese, per le incognite che aprirebbe un ritorno alle urne inquinato dalla legge porcata. E così la nemesi si con l’esecutivo e le larghe intese che speravano di blindarsi dietro alla sopravvivenza del Porcellum e invece rischiano di finirne fagocitati. Come apprendisti stregoni di una scellerata politica del rinvio.
Allora, ed è qui la seconda conclusione, oggi sono proprio Pd e governo che devono rompere gli indugi e varare una legge di urgenza di riforma elettorale. Adottando nel merito una soluzione che nessuno può contestare: primo turno di collegio come vogliono Pd e cittadini, ma ballottaggio nazionale di coalizione come preferisce il centrodestra. Con un quota proporzionale per le piccole formazioni e il diritto di tribuna. Si garantirebbe così in un colpo solo governabilità, rappresentanza e restituzione della scelta ai cittadini. Chi potrebbe credibilmente protestare?
I democratici quando su questo tema (rigettando la mozione Giacchetti) hanno affermato un sorprendente principio di “solidarietà” con il Pdl, hanno rischiato di cambiare natura alla cosiddette larghe intese: da convergenza su un esecutivo di necessità, a un patto di complicità tra i gruppi dirigenti che è quanto di più paludoso e nefasto per il Paese. Complicità che non a caso oggi Berlusconi richiama nel pretendere i voti per un eversivo salvacondotto.
Si spezzi quindi il circuito vizioso non solo votando la decadenza come impone la legge e la Costituzione, ma anche paralizzando il ricatto ritorsivo del Cavaliere, proponendo subito la riforma elettorale con procedura di urgenza e sulla sua approvazione se del caso mettendo anche la fiducia. A quel punto sì il re sarà nudo e chiare le responsabilità di ciascuno; Cinquestelle compresi.
La Repubblica 07.09.13

I debiti della Germania e l'austerità della Merkel di Luciano Gallino

Da La Repubblica del 22/08/2013

L’intervista concessa giorni fa dalla Cancelliera Merkel alla Frankfurter Allgemeine, apparsa
anche su Repubblica, si presenta con due facce. La prima è quella di un manifesto elettorale, in
vista della tornata di settembre. Angela Merkel è nota per saper interpretare come pochi altri
politici le idee e gli umori del cittadino medio del suo paese.
Che si possono così compendiare: noi lavoriamo sodo, sappiamo fare il nostro mestiere e
amministriamo con cura il denaro pubblico e privato; quasi tutti gli altri, nella Ue, lavorano poco,
sono degli incapaci e vivono al di sopra dei loro mezzi. La seconda faccia dell’intervista è una
calorosa difesa delle politiche di austerità e delle riforme che la Cancelliera ha imposto ai Paesi
Ue affinché risanino i bilanci pubblici e riducano i debiti.
Ogni personaggio politico sceglie le strategie comunicative che crede ed è probabile che quelle
di Angela Merkel le assicurino il terzo mandato consecutivo. Su di esse non c’è quindi nulla da
dire. Ma la difesa strenua dell’austerità e il messaggio implicito nell’intervista “i Paesi Ue sono
pieni di debiti e noi no, per cui ci tocca insegnargli come si fa ad uscirne” meritano qualche
osservazione.
La prima è che la Germania, se si guarda alla sua storia, non ha nessun titolo per
impartire lezioni in tema di debiti. Un paio di anni fa un docente tedesco di storia economica,
Albrecht Ritschl, ebbe a definire la Germania, in un’intervista a “Spiegel Online”, il debitore più
inadempiente del XX secolo. La Germania di Weimar aveva contratto tra il 1924 e il 1929 grossi
debiti con gli Stati Uniti per pagare le riparazioni della I Guerra mondiale.
 La crisi economica del 1931 consentì al paese debitore di azzerarli, con un danno enorme per gli Usa. La Germania di Hitler smise semplicemente di pagare le riparazioni, sebbene esse fossero state drasticamente ridotte a confronto dell’entità punitiva indicata dal trattato di Versailles del 1919. Per parte sua il nuovo stato federale ha pagato somme minime per i danni provocati dalla Germania nella II Guerra mondiale, grazie anche al benvolere degli americani che gradivano si rafforzasse per fare da argine all’Urss. Ma soprattutto non ha pagato quasi nulla per restituire ai Paesi europei
occupati tra il 1940 e il 1944 le ingenti risorse economiche che la Germania nazista aveva
prelevato a forza da essi. Lo stesso professor Ritschl ha stimato, in un articolo presentato nel
2012 alla 40a Conferenza di Scienze Economiche, che in moneta attuale codesto debito verso
l’estero ammonterebbe a 2,2-2,3 trilioni di euro, equivalente all’incirca a un anno intero di Pil
della Germania attuale.
 Avesse dovuto restituire anche soltanto un trilione ai Paesi spogliati dai nazisti, la nuova Germania avrebbe dovuto sborsare decine di miliardi l’anno per parecchi
decenni.
A parte l’oblio del pessimo record della Germania come debitore, la orgogliosa difesa delle virtù
dell’austerità che Angela Merkel fa nella sua intervista male si accorda con le cifre. Secondo
dati Eurostat nei Paesi Ue si contano oggi oltre 25 milioni di disoccupati e 120 milioni di persone
a rischio povertà per varie cause: reddito basso anche quando lavorano, gravi deprivazioni
materiali, appartenenza a famiglie i cui membri riescono a lavorare soltanto poche ore la
settimana.
La scarsità di impieghi, i tagli alla spesa sociale e all’occupazione nel settore pubblico hanno ridotto male anche le classi medie dei Paesi Ue. Neanche i lavoratori tedeschi se la passano bene. I “minijobbers”, coloro che debbono accontentarsi dei contratti da 450 euro al mese sgravati da tasse e contributi sociali, sono in forte aumento e si aggirano oramai su 8 milioni, circa un quinto delle forze di lavoro. Tra le cause di tutto ciò va annoverata la crisi, certo. Ma la crisi è iniziata sei anni fa.
La recessione che ha provocato avrebbe dovuto essere combattuta in modo rapido e deciso con un aumento mirato della spesa pubblica, e i governi europei avevano il sacrosanto dovere di farlo dopo che avevano salvato le banche private a
colpi di trilioni di denaro pubblico.
Tuttavia sotto la sferza del governo tedesco essi adottarono la più dissennata delle politiche concepibili dinanzi a una recessione: la contrazione della spesa.
Perfino gli economisti del Fmi, per decenni fautori dei più duri aggiustamenti strutturali, sono arrivati a scrivere che l’austerità nella Ue ha prodotto risultati negativi.
È rimasta la signora Merkel a vantarne i benefici.
La stessa Cancelliera e il governo tedesco dovrebbero inoltre ricordarsi più spesso che la prosperità della Germania deve molto alla sottovalutazione del “suo” euro, senza la quale i 200 miliardi di eccedenza delle esportazioni sulle importazioni – 80 dei quali sono generati entro la Ue – si ridurrebbero a poca cosa.
A fine 2011 un team di economisti della Ubs aveva stimato che l’euro tedesco fosse sottovalutato del 40 per cento. Altre fonti recenti indicano che esso vale 2 dollari e non 1,40 come dice il cambio ufficiale – uno scarto appunto del 40 per cento. E pochi mesi fa Wofgang Münchau del “Financial Times”, senza fare cifre, parlava di “enormi squilibri” tra il valore dei diversi euro dell’eurozona.

Tali squilibri, tra cui primeggia quello tedesco, sono dovuti al fatto che essendo l’euro una moneta unica, il suo valore nominale non può variare in modo da compensare le differenti capacità di produrre ed esportare delle economie europee. Se così fosse, le esportazioni tedesche sarebbero diventate da tempo assai
più care. Ora non ci permetteremo qui di definire i tedeschi “portoghesi d’Europa”, come ha fatto
qualche commentatore, ma un miglior apprezzamento dei vantaggi differenziali che l’euro reca
alla Germania da parte del suo governo sarebbe gradito.

Ad onta dei suoi difetti di nascita, di un trattato istitutivo che assomiglia più allo statuto di una
camera di commercio che a un documento politico, dei suoi squilibri interni, l’Unione europea rimane la più grande invenzione politica, civile ed economica degli ultimi due secoli. Per continuare a rafforzare tale invenzione gli stati membri hanno bisogno della Germania, così come questa ha bisogno di loro.

Gioverebbe a tale processo poter discutere con governanti tedeschi che tengano più presente la storia economica e sociale del loro Paese, siano meno altezzosi nei confronti dei Paesi che giudicano colpevoli per il solo fatto di essere indebitati (non a caso Schuld in tedesco significa sia colpa che debito), e studino magari un po’ di economia per capire che l’austerità in tempi di recessione è una ricetta suicida.

 Per chi è costretto ad applicarla, ma, alla lunga, anche per chi la predica. Inutile aggiungere che allo stesso sviluppo gioverebbe avere negli altri Paesi, compresa l’Italia, dei governanti che a Berlino o a Bruxelles
non vadano soltanto per dire che il loro Parlamento approverà senza condizioni qualsiasi
trattato o dettato che le due capitali (una, in realtà) si sognino di confezionare.

L'allarme ecologico di Goletta Verde: "Scarichi inquinanti ogni 57 km di costa"

 da: http://www.repubblica.it/ambiente/2013/08/14/news/l_allarme_ecologico_di_goletta_verde_scarichi_inquinanti_ogni_57_km_di_costa-64767524/?ref=HREC2-5

ROMA - C'è ancora troppa "maladepurazione" in Italia: questa la conclusione del viaggio compiuto da Goletta Verde di Legambiente che per due mesi ha circumnavigato lo Stivale, compiendo 34 tappe. Sono 130 i campioni risultati inquinati dalla presenza di scarichi fognari non depurati - uno ogni 57 km di costa - sul totale delle 263 analisi microbiologiche effettuate. In pratica quasi il 50% dei punti monitorati lungo i 7.412,6 km di territori costieri toccati dall'imbarcazione ambientalista. E di questi campionamenti risultati oltre i limiti di legge ben 104 (l'80%) hanno avuto un giudizio di fortemente inquinato, cioè con concentrazione di batteri di origine fecale pari ad almeno il doppio di quanto consentito. Seguendo questo link si può accedere ai dati della ricerca di Legambiente.

Il 90% dei punti inquinati sono stati prelevati alle foci di fiumi, torrenti, canali, fiumare, fossi o nei pressi di scarichi di depuratori malfunzionanti, che si confermano i nemici numero uno del nostro mare. Nessuna regione - fa notare il rapporto, presentato alla stampa da Legambiente e dal partner Coou (Consorzio obbligatorio degli oli usati) - è risultata indenne dall'attacco della mala depurazione. Dei 130 risultati oltre i limiti, 19 sono in Campania, 17 in Puglia, Calabria, Lazio, 12 in Sicilia, 11 in Liguria. Ma nelle regioni del Mezzogiorno al danno ambientale si somma quello economico: "Si rischia di perdere ben 1,7 miliardi di euro dei fondi Cipe destinati alla costruzione e all'adeguamento degli impianti che sono in scadenza a dicembre - ha fatto notare Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente - come se non bastasse, inoltre, ci prepariamo anche a far pagare ai cittadini italiani multe milionarie da parte dell'Unione europea per l'incapacità di gestire il ciclo delle acque reflue. Soldi che invece potrebbero essere investiti per aprire nuovi cantieri per la depurazione. Realizzare sistemi efficienti e moderni - aggiunge Zampetti - deve trasformarsi in una priorità nell'agenda politica italiana. E' l'ennesima vergogna che questo Paese non merita. Non si tratta più soltanto di difendere fiumi e mari, vera grande risorsa di questa nazione, ma ne va dell'intera economia nazionale, buona parte della quale è basata sul turismo".

Il mancato o inadeguato trattamento dei reflui fognari - spiega lo studio - riguarda ancora 24 milioni di abitanti, che scaricano direttamente in mare o indirettamente attraverso fiumi e canali utilizzati come vere e proprie fognature. La criticità non riguarda soltanto i comuni costieri, ma anche quelli dell'entroterra, per la cronica carenza di impianti e l'apporto del carico inquinante dei reflui che non sono adeguatamente trattati dagli impianti in attività, perchè obsoleti o malfunzionanti. 

Il monitoraggio di Goletta Verde ha rilevato inoltre che "molto spesso foci di torrenti e fiumi vengono fruiti da bagnanti ai quali ancora non viene garantita una corretta informazione. Sul totale delle foci e dei canali risultati inquinati e fortemente inquinati il 40% viene dichiarato balneabile dal Portale della Acque del Ministero della Salute. Il 35% dei punti presi in analisi, inoltre, risultano del tutto non campionati dalle autorità preposte anche se spesso questi tratti, pur trovandosi in corrispondenza di foci e canali, sono comunque frequentati da bagnanti". Motivo per cui - sostiene Legambiente - è imperativo che le autorità introducano o intensifichino i controlli anche in prossimità di queste possibili fonti di inquinamento. Invece, dei tratti di mare definiti dal Portale come non balneabili per motivi di inquinamento, mancano nel 18% dei casi i cartelli di divieto di balneazione.

PENSIONI D’ORO, È L’ORA DELLA TRASPARENZA (Tito Boeri)

PENSIONI D’ORO, È L’ORA DELLA TRASPARENZA (Tito Boeri)

Non sappiamo cosa abbia spinto il sottosegretario Carlo Dell’Aringa a pubblicare l’elenco delle dieci pensioni più generose erogate dall’Inps. Non crediamo che il suo intento fosse quello di alimentare l’invidia.
 Dopo una lunga stagnazione e due pesanti recessioni intervenute a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, dopo che le disuguaglianze nei redditi, già alte in rapporto al resto d’Europa, sono aumentate di un ulteriore 10 per cento, l’invidia è un sentimento molto diffuso nel nostro Paese. Non c’è alcun bisogno di alimentarlo. 
Quei tre milioni e più di disoccupati che vivono in Italia ovviamente invidiano chi un lavoro ce l’ha. E come non capire cosa prova chi riceve una pensione sociale di 442 euro al mese apprendendo che c’è chi ottiene quella cifra dall’Inps ad ogni ora del giorno che scocca, beneficiando di una pensione più di 200 volte superiore alla propria?
Speriamo allora che il vero intento del ministero del Lavoro e delle politiche sociali sia quello di preparare il terreno all’introduzione nella Legge di Stabilità, che verrà presentata da qui a poche settimane, di un qualche taglio (o prelievo) sulle pensioni d’oro. Del resto era stato proprio il neo ministro Giovannini, a pochi giorni dal suo insediamento, a fare riferimento a interventi sulle pensioni che «non porterebbero molti soldi, ma sarebbero una misura di giustizia sociale».
Se questo è dunque l’obiettivo del governo, ci permettiamo di suggerire a Dell’Aringa di rendere pubblico al più presto quanto i beneficiari di questi mega assegni hanno versato nel corso della loro intera carriera lavorativa. In altre parole, bisogna rendere noti non solo i livelli delle pensioni d’oro, ma anche i rendimenti impliciti che sono stati concessi dal sistema previdenziale pubblico ai contributi versati dai pensionati d’oro e dai loro datori di lavoro.
Servirà questa informazione innanzitutto per evitare possibili censure della Consulta in nome della violazione di “diritti acquisiti”. 

Se non si rendono pubbliche queste informazioni sarà sempre possibile sostenere che, dopotutto, i beneficiari di queste prestazioni milionarie se le sono pagate coi loro contributi in anni di lavoro. Ad esempio Federico de Rosa sul Corriere della Sera del 9 agosto scrive che Mauro Sentinelli, colui che guida la classifica dei top ten, “oggi incassa grosso modo lo stesso che percepiva da direttore generale di Telecom Italia”. Non sappiamo nulla della carriera di Sentinelli, ma la domanda da porsi non è quanto fosse il suo stipendio sul finire della carriera. Ciò che conta è quanto l’ex manager di Telecom ha effettivamente versato all’Inps durante la sua vita per meritarsi una pensione che, a 57 anni, quando è andato in pensione, valeva complessivamente quasi 20 milioni. È come se lo Stato italiano lo avesse reso proprietario di un immobile del valore di un quinto di Villa Belvedere a Macherio. Ogni pensione calcolata in Italia con un metodo diverso da quello contributivo, quello che oggi viene praticato a tutti i contributi versati dai lavoratori italiani, attribuisce prestazioni superiori ai contributi versati in termini attuariali, attribuisce prestazioni superiori a quanto pagato o accantonato. E il sospetto è poi che non pochi dei pensionati d’oro abbiano potuto fruire di regalie molto generose fatte per ragioni di consenso elettorale soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, scaricandone i costi sui contribuenti futuri.

Ricordiamoci che ai lavoratori autonomi negli anni di esplosione del debito pubblico era stato concesso di andare in pensione con le regole del metodo retributivo, quelle che consentivano allora versando i contributi negli ultimi tre anni di una carriera di ottenere poi pensioni del 70%-80% dell’ultimo reddito dichiarato.
E a molti lavoratori dipendenti prima della riforma Amato venivano aumentati i salari negli ultimi anni in modo tale da permettere loro di ricevere una pensione più alta, perché parametrata alle retribuzioni degli ultimi 5 anni. Altro che pensioni maturate coi sacrifici di una vita e su cui si era a lungo pianificato! In casi come questi si tratta di “regali acquisiti” poco prima di andare in pensione. Questi regali insostenibili hanno poi obbligato governi successivi a mutare più volte le regole previdenziali, riducendo la generosità delle prestazioni a chi aveva versato i propri contributi contando poi di ricevere pensioni più pesanti. Non sono anche questi, soprattutto questi, “diritti acquisiti”? E se questo è il fondamento di molte pensioni d’oro, perché è in linea coi principi costituzionali chiedere di più a “chi ha di più” come fa il nostro sistema tributario, ma non lo è chiedere di più a “chi ha avuto di più”, togliendo ad altri “diritti acquisiti”?
I dati sui rendimenti impliciti servirebbero anche a meglio calibrare gli interventi perequativi. Ad esempio, si dovrebbe ridurre l’ammontare delle quiescenze a chi soddisfa due criteri: il primo è quello di ricevere un ammontare totale di pensioni (ci sono molte persone che percepiscono più di una pensione) al di sopra di una certa soglia; il secondo è quello di ottenere questo reddito prevalentemente da una pensione il cui rendimento implicito è molto elevato. 
Il primo criterio (quello che guarda all’ammontare complessivo delle pensioni) serve a tutelare il principio di equità redistributiva, sostenendo nella vecchiaia chi non ha accumulato abbastanza contributi. 
Il secondo criterio (quello che guarda alle pensioni in rapporto ai contributi versati) tutela l’equità intergenerazionale, chiedendo qualche sacrificio in più a chi ha avuto troppo dalle vecchie regole del sistema pensionistico
I risparmi così ottenuti potrebbero essere utilizzati per dotare il nostro paese di quegli strumenti di contrasto alla povertà assoluta che, unici in Europa assieme alla Grecia, tuttora non abbiamo. Alcune simulazioni svolte con Tommaso Nannicini (e raccolte sul sito lavoce. info) ci portano a pensare che tagli anche esigui (attorno al 2 per cento delle quiescenze che soddisfino i due criteri di cui sopra) sarebbero sufficienti a finanziare un reddito minimo garantito se non per tutti, almeno per quelle fasce di età che sono state particolarmente colpite dalla crisi, come le generazioni coinvolte nella vicenda esodati o quelle travolte dall’esplosione della disoccupazione giovanile.

Pubblicare i rendimenti impliciti di ogni prestazione oggi erogata dal sistema pubblico rispetto ai contributi versati sarebbe una vera operazione di trasparenza sulle iniquità del nostro sistema previdenziale. Servirebbe anche a rafforzare conoscenze finanziarie di base per chi deve costruirsi il proprio futuro previdenziale.

Capire cosa ci può attendere dal sistema pubblico rispetto a quanto accaduto ai propri genitori è importante per permettere alle nuove generazioni di trovare correttivi, ad esempio spingendo chi può farlo a costruirsi forme previdenziali integrative. A proposito: è davvero fondamentale permettere a chi oggi si trova a meno di 5 anni dal raggiungimento dell’età di pensionamento obbligatoria di poter riscattare i contributi versati ai fondi pensione in caso di perdurante disoccupazione. 
Assurdo che molti esodati non possano oggi farlo nonostante il dramma che stanno vivendo. 
Mi chiedo come si possa pensare di sostenere in Italia il decollo dei fondi pensione mantenendo in piedi una restrizione di questo tipo. 
E come sia possibile impedire di tagliare le pensioni d’oro per aiutare i lavoratori esodati, in nome dei “diritti acquisiti”. 
Ma di quali diritti stiamo parlando al cospetto di persone che hanno visto allontanarsi la pensione e accorciarsi il periodo di fruizione dei trattamenti di mobilità?
Da La Repubblica del 13/08/2013

Pensioni d’oro, “Intoccabili anche se arrivano a 90mila euro al mese”

Pensioni d’oro, “Intoccabili anche se arrivano a 90mila euro al mese”

Il ministro Giovannini presenta la classifica dei dieci assegni più ricchi, ma ammette: "Non passiamo tagliarle". Sacrificando 7 miliardi di euro di risparmi.


L’ammissione del ministro lascia l’amaro in bocca. Anche in caso di pensioni da 90mila euro al mese, come quella che l’Inps corrisponde a Mario Sentinelli, ex dirigente Telecom, il governo non può intervenire con contributi di solidarietà ad hoc. Non si può far niente, come ha ribadito recentemente la stessa Corte costituzionale. Enrico Giovannini ha risposto a un’interrogazione della deputata Pdl, Deborah Bergamini, esibendo la classifica delle prime dieci “pensioni d’oro” erogate dall’Inps. La più ricca è di 91.337,18 euro lordi al mese, la seconda “si ferma” a 66.436 mila euro mensili, la terza sfiora i 52mila fino alla decima che è di 41.707,54.
Nel suo testo Giovannini ha osservato che “misure volte in modo diretto ed immediato a ridurre l’ammontare delle pensioni in godimento“, avrebbero potuto incorrere in “profili di l’incostituzionalità”. Il riferimento più evidente è alla sentenza n. 116/2013 con cui “la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del contributo di perequazione sulle pensioni di importo superiore a 90.000 euro”. Un orientamento “che non può in alcun modo essere sottovalutato” aggiunge il ministro. L’affermazione, di stampo istituzionale, si scontra però con la sostanza dei numeri evidenziati nella classifica che suona come uno schiaffo per i circa 4 milioni di pensionati al minimo (500 euro al mese) e a tutti coloro che vivono con meno di mille euro al mese.
Il pensionato più ricco d’Italia verosimilmente – il ministero, per rispetto della privacy, non ha reso pubblici i nomi – è Mauro Sentinelli, come riportato nel 2011 nel libro di Mario Giordano,Sanguisughe. In quel volume è possibile desumere anche qualcun altro dei nomi in classifica, come Vito Gamberale. I due provengono entrambi dalla telefonia. Sentinelli in realtà fa ancora parte del consiglio di amministrazione Telecom dove beneficia di altri compensi: 110mila euro annui per far parte del cda, 35mila per il comitato esecutivo e 45mila per il comitato controllo e rischi. Totale: 190mila euro che aggiunge alla pensione. Gamberale, invece, è l’amministratore delegato delFondo F2i controllato dalla Cassa depositi e prestiti. Dove percepisce un lauto compenso. L’Italia dei doppi stipendi e delle pensioni d’oro è fatta di queste cose.
Era stato l’Espresso a scoprire come ha fatto Sentinelli a ottenere un assegno così generoso: “Ha pagato i contributi al fondo telefonici dell’Inps sulla retribuzione base ma poi è entrato nel ‘fondo generale’ ed è andato in pensione calcolando l’assegno su tutte le voci della busta paga, benefit e stock option comprese”.
 La pensione, dunque, è molto superiore ai contributi versati ed è una delle ragioni per cui l’Inps soffre di alcuni deficit. 
Se il fondo dei “lavoratori dipendenti”, infatti, è in equilibrio, quelli dei “telefonici”, degli “elettricisti”, dei “ferrovieri” o dei “dirigenti d’azienda” soffrono un deficit più che cronico.
Nella sua risposta Giovannini ha garantito che il passaggio al sistema contributivo permetterà di superare queste disparità. 
Che però esistono. Nella fascia di pensioni superiori ai 4.000 euro lordi mensili ci sono 104.793 persone.
Secondo Beppe Grillo con un tetto alle pensioni collocato a 5.000 euro al mese si potrebbe ricavare un risparmio di 7 miliardi annui. Cifre analoghe le ha stimate anche il Cobas dell’Inpdap. Calcoli complicati ma non impossibili. Certamente meno difficili che continuare a vedere una pensione da 33.700 euro al mese come quella di Cesare Geronzi o i 31mila euro del più noto Giuliano Amato.
Dal Fatto Quotidiano dell’8 agosto 2013

Centomila pensionati italiani costano 13 miliardi!

Andare in pensione con 90 mila euro mensili? In Italia si poteva

08/08/2013 10.29.02

(Teleborsa) - Roma, 8 ago - E' un ex top manager di Telecom il pensionato più ricco d'Italia. Forte di compensi che arrivavano fino a 8 milioni di euro, di leggi che permettevano di andare in pensione con l'80% dello stipendio medio degli ultimi 10 anni e di moltiplicare il trattamento con benefit e stock option percepiti durante la carriera, ma anche del vantaggioso fondo dei dipendenti telefonici, Mauro Sentinelli porta a casa ogni giorno qualcosa come 3 mila euro. Lordi, certamente, ma comunque imparagonabili alle milioni di pensioni "normali" di "normali" e lavoratori.

A riportare in auge questa annosa questione delle pensioni d'oro una interrogazione parlamentare della deputata Pdl Deborah Bergamini, alla quale ha risposto il Ministro del Lavoro Enrico Giovannini.

Non che Sentinelli sia un parassita della società: ingegnere con una lista di master e lauree da far rabbrividire, ideò tra le altre cose la scheda ricaricabile TimCard che fece guadagnare all'azienda miliardi a palate.

Non sia detto nemmeno che Sentinelli e  i centomila pensionati d'oro (che costano allo Stato 13 miliardi di euro l'anno) stiano "rubando": il loro trattamento è infatti perfettamente legale, frutto delle allora allegre leggi che permettevano di accumulare trattamenti da nababbo.

Scopo dell'interrogazione che, ovviamente, ha avuto una notevole risonanza mediatica, era quello di porre l'accento su una tematica troppo importante per essere lasciata nel cassetto.

Infatti la Bergamini ha commentato: "questi numeri dimostrano tutta la portata distorsiva di quel criterio retributivo dal quale ci stiamo fortunatamente allontanando grazie alle riforme pensionistiche degli ultimi anni. Benché gli interventi in materia siano particolarmente delicati, anche sul fronte della costituzionalità, e avendo cura di evitare qualsiasi colpevolizzazione verso i beneficiari di questi trattamenti, che li hanno maturati secondo le regole vigenti, è evidente che il tema coinvolge una questione di equità e di coesione sociale non più trascurabile dalle istituzioni, specialmente in un momento di grave crisi economica e di pesanti sacrifici per tutti".

Tornando ai pensionati di lusso, il secondo trattamento più alto è pari a 66 mila euro mensili.

 Ignoto il nome del fortunato beneficiario, mentre al terzo posto, con 51 mila euro, dovrebbe esserci l'ex direttore generale di Interbanca e dell'Inter Football Club, Mauro Gambaro. 

Un po' di confusione sull'ex di Infostrada e Telecom, Alberto De Petris. Per qualche testata porta a casa 41 mila euro, per altre è il misterioso secondo pensionato più ricco.

Al di là dei nomi, bisogna riflettere sulle cifre e sull'opportunità o meno di andarle a tassare più severamente di quelle dei comuni mortali.

Un tema quanto mai spinoso che, forse, cadrà come sempre nel vuoto.

Il professor Vittorino Andreoli: "L'Italia è un Paese malato di mente. Esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti"

“L’Italia è un paziente malato di mente. Malato grave. Dal punto di vista psichiatrico, direi che è da ricovero. Però non ci sono più i manicomi”. Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciencese presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association ha messo idealmente sul lettino questo Paese che si dibatte tra crisi economica e caos politico e si è fatto un’idea precisa del malessere del suo popolo. Un’idea drammatica. Con una premessa: “Che io vedo gli italiani da italiano, in questo momento particolare. Quindi, sia chiaro che questa è una visione degli altri e nello stesso tempo di me. Come in uno specchio”.
Quali sono i sintomi della malattia mentale dell’Italia, professor Andreoli?
“Ne ho individuati quattro. Il primo lo definirei “masochismo nascosto”. Il piacere di trattarsi male e quasi goderne. Però, dietro la maschera dell’esibizionismo”.
Mi faccia capire questa storia della maschera.
“Beh, basta ascoltare gli italiani e i racconti meravigliosi delle loro vacanze, della loro famiglia. Ho fatto questo, ho fatto quello. Sono stato in quel ristorante, il più caro naturalmente. Mio figlio è straordinario, quello piccolo poi…”.
Esibizionisti.
“Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che generalmente l’esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l’impotenza”.
Viene da pensare a certi politici. Anzi, a un politico in particolare.
“Pensi pure quello che vuole. Io faccio lo psichiatra e le parlo di questo sintomo degli italiani, di noi italiani. Del masochismo mascherato dall’esibizionismo. Tipo: non ho una lira ma mostro il portafoglio, anche se dentro non c’è niente. Oppure: sono vecchio, però metto un paio di jeans per sembrare più giovane e una conchiglia nel punto dove lei sa, così sembra che lì ci sia qualcosa e invece non c’è niente”.
Secondo sintomo.
“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.
Cattivo.
“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.
Terzo sintomo della malattia mentale degli italiani?
“La recita”.
La recita?
“Aaaahhh, proprio così… noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l’italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto. Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l’attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?”.
Che fanno gli inglesi?
“Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale. Mi permetta di ricordare uno che aveva capito benissimo gli italiani, che era Luigi Pirandello. Aveva capito la follia perché aveva una moglie malata di mente. Uno nessuno e centomila è una delle più grandi opere mai scritte ed è perfetta per comprendere la nostra malattia mentale”.
Torniamo ai sintomi, professore.
“No, no. Rimaniamo alla maschera. Pensi a quelli che vanno in vacanza. Dicono che sono stati fuori quindici giorni e invece è una settimana. Oppure raccontano che hanno una terrazza stupenda e invece vivono in un monolocale con un’unica finestra e un vaso di fiori secchi sul davanzale. Non è magnifico? E a forza di raccontarlo, quando vanno a casa si convincono di avere sul serio una terrazza piena di piante. E poi c’è il quarto sintomo, importantissimo. Riguarda la fede…”.
Con la fede non si scherza.
“Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c’è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. E’ una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l’altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c’è il miracolo”.
Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.
“Proprio così. Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l’Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto. Se ti togliessi la maschera ti vergogneresti, perché abbiamo perso la faccia dappertutto. Se ti togliessi la fede, ti vedresti meschino. Insomma, se trattassimo questo paziente secondo la ragione, secondo la psichiatria, lo metteremmo in una condizione che lo aggraverebbe. In conclusione, senza questi sintomi il popolo italiano non potrebbe che andare verso un suicidio di massa”.
E allora?
“Allora ci vorrebbe il manicomio. Ma siccome siamo tanti, l’unica considerazione è che il manicomio è l’Italia. E l’unico sano, che potrebbe essere lo psichiatra, visto da tutti questi malati è considerato matto”.
Scherza o dice sul serio?
“Ho cercato di usare un tono realistico facendo dell’ironia, un tono italiano. Però adesso le dico che ogni criterio di buona economia o di buona politica su di noi non funziona, perché in questo momento la nostra malattia è vista come una salvezza. E’ come se dicessi a un credente che dio non esiste e che invece di pregare dovrebbe andare in piazza a fare la rivoluzione. Oppure, da psichiatra, dovrei dire a tutti quelli che stanno facendo le vacanze, ma in realtà non le fanno perché non hanno una lira, tornate a casa e andate in piazza, andate a votare, togliete il potere a quello che dice che bisogna abbattere la magistratura perché non fa quello che vuole lui. Ma non lo farebbero, perché si mettono la maschera e dicono che gli va tutto benissimo”.
Guardi, professore, che non sono tutti malati. Ci sono anche molti sani in circolazione. Secondo lei che fanno?
“Piangono, si lamentano. Ma non sono sani, sono malati anche loro. Sono vicini a una depressione che noi psichiatri chiamiamo anaclitica. Penso agli uomini di cultura, quelli veri. Che ormai leggono solo Ungaretti e magari quel verso stupendo che andrebbe benissimo per il paziente Italia che abbiamo visitato adesso e dice più o meno: l’uomo… attaccato nel vuoto al suo filo di ragno”.
E lei, perché non se ne va?
“Perché faccio lo psichiatra, e vedo persone molto più disperate di me”.
Grazie della seduta, professore.
“Prego”.

Partite Iva, Acta: “Si pensi davvero ai futuri pensionati”

Partite Iva, Acta: “Si pensi davvero ai futuri pensionati” da:
http://nuvola.corriere.it/2013/07/26/partite-iva-acta-si-pensi-davvero-ai-futuri-pensionati/

di Anna Soru*
Continuo il dibattito con Costanzo Ranci, che mi sembra abbia travisato la nostra proposta. Mi rendo conto che la materia è complessa e probabilmente non siamo capaci di spiegarla adeguatamente. Ringrazio Costanzo perché spero che questo scambio possa aiutare a chiarire.
• Non abbiamo elaborato una proposta per chi ha più di 90.000 euro. Non è mai stato nelle nostre intenzioni e non avrebbe avuto alcun senso. Forse non tutti lo sanno, ma mentre sino a 90.000 euro la contribuzione previdenziale è una quota fissa del reddito, sopra tale cifra i contributi vanno a zero.
Chi ha reddito molto elevato è relativamente indifferente agli aumenti della contribuzione pensionistica. Lo ripeto: abbiamo escluso chi ha più di 90.000 dalla proposta “garantita” perché è una proposta fiscalmente vantaggiosa.
• Sulla solidarietà c’è un’ambiguità di fondo. L’attuale sistema contributivo prevede che chi versa i contributi riceva in proporzione a quanto versato, senza alcuna solidarietà intragenerazionale (tra “ricchi” e “poveri” che vanno in pensione in contemporanea). La solidarietà è intergenerazionale, a vantaggio delle generazioni precedenti, alle quali, in nome di diritti acquisiti, vengono assicurati dei privilegi concessi nel passato da politiche dissennate.
I futuri pensionati contributivi non solo non potranno contare su un trattamento analogo, ma, per garantire i privilegi dei pensionati attuali, non hanno diritto neppure a un’adeguata remunerazione di quanto versato (in questi anni di recessione il rendimento è negativo!). Le soluzioni potrebbero essere diverse, ad esempio pagare i diritti acquisiti (entro limiti di decenza) con la fiscalità generale, non con la contribuzione previdenziale che, per la modalità con cui è strutturata, è regressiva (chi ha meno di 90.000 euro versa in proporzione più di chi supera tale cifra) .
• Noi siamo favorevoli ad una previdenza che sia realmente solidale, infatti avevamo appoggiato la proposta Cazzola sulle pensioni che andava in questa direzione, che reintroduceva dei meccanismi solidaristici persi con il sistema contributivo. La proposta, purtroppo, non è mai stata neppure discussa. E non mi risulta che altre organizzazioni di rappresentanza l’abbiano sponsorizzata.
• Nel frattempo è stato deciso l’aumento della nostra contribuzione al 33%, come sempre per fare cassa. A questo proposito ricordo la definizione della Cassazione , secondo cui il versamento alla gestione separata non è un contributo, ma “una tassa aggiuntiva su determinati tipi di reddito[…] per fare cassa e costituire un deterrente economico all’abuso di tali forme di lavoro “ (Cass. Civ. SSUU, 3240/10).
• L’aumento al 33% porterebbe la nostra contribuzione previdenziale ad un livello largamente superiore a quella di tutti gli altri lavoratori, inclusi i dipendenti (su questo rimando ai calcoli fatti dal CERM, che dimostrano come già oggi la nostra contribuzione supera quella dei dipendenti.
Mi dispiace ma se non si fanno i conti non si può avere una reale cognizione della situazione). Non a caso nella nostra proposta per il sistema garantito diciamo che la contribuzione va calcolata come per i dipendenti, perché sappiamo che è un calcolo che ne ridimensiona significativamente la reale incidenza.
• Nelle nostre proposte non c’è mai stata alcuna ipotesi di uscita dal welfare.
• Siamo d’accordo su un sistema di welfare universale che prescinda dalla modalità di lavoro. In tanti ne parlano, ma non ci sono le coperture e quindi si rinvia alle calende greche. Nel frattempo noi siamo quelli che pagano di più, perché, lo ripeto, abbiamo un carico contributivo-fiscale analogo a quello dei dipendenti ma senza le stesse prestazioni di welfare. Chiedere di poter essere riportati o verso una situazione di maggiori garanzie (come i dipendenti) o verso una situazione di minori costi (come gli altri autonomi), non significa chiedere privilegi, ma cercare una strada per sopravvivere.
• In un contesto che mantiene costi e regole molto differenziate non si può negare che ci sia anche un uso opportunistico e imposto della partita iva, che esistano finte partite iva. Siamo convinti che siano una minoranza e che non si debbano distruggere le vere nella battaglia alle finte. La nostra proposta mira a contemperare esigenze diverse con un approccio non punitivo, a creare delle condizioni di vantaggio e tutela per il lavoratore costretto ad aprire una partita iva.
• Chi lavora per imprese e pubblica amministrazione ha possibilità di evasione limitate, analoghe a quelle di dipendenti (ricordiamo che anche questi non sono esenti, ad esempio possono essere pagati in nero per straordinari o per lavori svolti mentre sono in cig). Diverso è il caso di chi lavora per i consumatori finali, per i quali l’evasione è un’opzione facilmente percorribile.
La nostra proposta “garantita” e fiscalmente vantaggiosa è diretta esclusivamente a chi lavora per imprese e PA. Ci siamo sempre espressi con favore rispetto ad ogni forma di controllo fiscale (tracciabilità del contante, incroci tra banche dati etc), chiediamo solo che studi di settore e redditometro siano utilizzati come strumenti indicativi, senza scaricare l’onere della prova sul contribuente, perché questa spesso è difficile da fornire.
• Pieno accordo sulla necessità di un serio patto fiscale. Uno dei punti della nostra piattaforma è : pagare tutti, pagare il giusto. Non siamo certo noi a tirarci indietro! Rinnovo l’invito a Costanzo Ranci a parlarne di persona in uno degli incontri che organizzeremo dopo agosto, ma naturalmente sono disponibile a proseguire il confronto su questo blog, sul nostro sito o altrove.
*presidente Acta, associazione consulenti terziario avanzato

Il padrone kazako di M. Giannini


Il padrone kazako


UNA democrazia non può e non deve avere paura della verità. Per questo lo scandalo kazako segna una pagina nera della democrazia. E per questo la scelta della «strana maggioranza », che chiude gli occhi di fronte alla colossale operazione di manomissione della realtà e blinda l’esecutivo solo in nome della realpolitik, non aiuta la causa della buona democrazia.

 Angelino Alfano ha mentito al Parlamento e al popolo sovrano. 

«È un fatto gravissimo: non ero stato informato io, né i miei colleghi, né il presidente del Consiglio». Questo dice al Senato, il ministro dell’Interno, dando lettura puntigliosa e testuale delle sei cartelle che compongono, da pagina 8 a pagina 13, la parte della relazione del prefetto Pansa intitolata “Il flusso informativo”. Nulla sapeva, dunque, di ciò che è avvenuto tra il 28 e il 31 maggio, quando l’ambasciatore kazako Adrian Yelemessov chiede e ottiene dal Viminale che la moglie e la figlia di un noto dissidente siano «sequestrate» e rispedite, con procedure contrarie al diritto interno e internazionale, in un Paese il cui regime pratica abitualmente la tortura.

Quello che invece non dice ai senatori, il ministro dell’Interno, è ciò che è scritto nelle sette cartelle precedenti di quel rapporto, intitolate “Cronologia dei fatti”, dove alla pagina 2 si può leggere ciò che accadde davvero «il 28 maggio», «nella serata»: «Il ministro dell’Interno, a seguito di ulteriori telefonate dell’Ambasciatore, cui non ha risposto, fa incontrare lo stesso con il suo Capo di gabinetto». Quello che non dice ai senatori, il ministro dell’Interno, e ciò che invece riconosce il suo stesso Capo di Gabinetto, ora costretto alle dimissioni e finora unico capro espiatorio dell’intera vicenda, nell’intervista non smentita rilasciata ieri a “Repubblica”. Alla domanda di Carlo Bonini: «Era stato il ministro Alfano a chiederle di ricevere l’ambasciatore kazako?», Giuseppe Procaccini testualmente risponde: «Sì. Ero stato informato che l’ambasciatore doveva riferirmi una questione molto delicata ». E poco più avanti, alla domanda: «Dunque il 29 maggio il ministro dell’Interno sapeva che la diplomazia kazaka aveva chiesto l’arresto di un latitante? », il funzionario ammette: «Sì. Di un pericoloso latitante».

Eccole, se ancora ce ne fosse bisogno, le prove dell’omertà che rendono indifendibile Alfano, e non più sostenibile la sua posizione dentro il governo. Per un mese e mezzo il ministro dell’Interno, e con lui quello degli Esteri, hanno vissuto o hanno fatto finta di vivere in un vuoto politico e pneumatico, dove la sovranità statuale è stata sospesa, e dove la potestà ministeriale è stata disattesa. Alfano e Bonino non hanno visto, sentito o parlato. E hanno lasciato che, a ordinare, a gestire e a decidere della sorte di due cittadine straniere, sul territorio italiano, fosse il «padrone kazako», cioè il satrapo dispotico Nursultan Nazarbaeyev, attraverso i suoi messi diplomatici. Lo dicono i fatti, e lo confermano i documenti ufficiali.

È Yelemessov, la sera del 28 maggio, a irrompere al Viminale, ad esigere il blitz nella villetta di Casal Palocco, a prendere parte insieme ai funzionari della Ps alla «riunione operativa» nell’ufficio di Procaccini, che lo stesso (ex) Capo di Gabinetto, nell’intervista a “Repubblica” di ieri, racconta sia «finita molto tardi».

È Yelemessov, attraverso il suo consigliere Khassen, a forzare la Questura di Roma per avviare l’operazione, spiegando che il dissidente Ablyazov «è un criminale pericoloso in contatto con gruppi armati terroristici ». È Yelemessov, attraverso Khassen, a concordare il 30 maggio (dopo il blitz che non ha portato alla cattura di Ablyazov, ma al sequestro di sua moglie e sua figlia) le procedure di espulsione di Alma e di Alua, a «rappresentare alla Questura il timore che un transito a Mosca possa diventare l’occasione per un attacco organizzato dal ricercato», e a comunicare alla stessa Questura che la Shalabayeva «potrebbe usare un passaporto falso della Repubblica del Centro Africa» (comunicazione poi rivelatasi a sua volta falsa). È Yelemessov, attraverso Khassen, a fornire il 31 maggio alla Questura i documenti di viaggio di Alma e Alua e a proporre «la possibilità di un volo diretto verso la capitale del Kazakhstan, in partenza dall’aeroporto di Ciampino alle ore 17». E infine è ancora Yelemessov, attraverso Khassen, a prendere direttamente in carico madre e figlia poco prima delle 17 del 31 maggio, e ad imbarcarle «sul volo della compagnia austriaca Avcon Jet, proveniente da Lipsia e diretto ad Astana».

Com’è evidente, per ragioni che vanno al di là della pura e semplice inefficienza delle burocrazie amministrative, un bel pezzo di sicurezza nazionale è stata nelle mani delle autorità kazake, mentre quelle italiane si bagnavano nell’acqua di Ponzio Pilato. Il “padrone kazako” è stato il vero gestore di questa «rendition all’amatriciana », che ha ridicolizzato l’Italia di fronte al mondo e l’ha esposta a una più grave violazione dei diritti umani nei confronti di una donna e della sua figlioletta di sei anni. Può ritenersi soddisfatto, l’ambasciatore kazako, che ora un’indignata Bonino convoca inutilmente alla Farnesina. Yelemessov se n’è già andato in ferie: un meritato «viaggio premio», perché lui la sua «missione» può dire di averla a tutti gli effetti compiuta.

Sono le autorità politiche e amministrative italiane che, invece, la loro missione l’hanno miseramente fallita, o volutamente sfuggita. Bisognava ammetterlo subito, senza rifugiarsi dietro l’ormai solita scusa tartufesca del misfatto «a mia insaputa». Bisognava che Alfano lo riconoscesse subito, assumendosi fino in fondo e a viso aperto le sue responsabilità, senza scaricarle sulla tecnostruttura che comunque dipende da lui, e senza la penosa e pelosa «chiamata di correo» nei confronti di Enrico Letta. «Né io né il premier sapevamo nulla», ribadisce il ministro. A sproposito, perché nessuno ha mai insinuato che il presidente del Consiglio sapeva o avrebbe dovuto sapere fin dall’inizio cosa successe in quei frenetici giorni di fine maggio, nel quadrilatero oscuro Viminale- Casal Palocco-Ponte Galeria-Ciampino. 

Questa colpa «in vigilando», o questo dolo «in agendo», pesa tutto intero sulle spalle del ministro dell’Interno. Che se non sapeva è stato negligente, e se sapeva è stato reticente. Forse ha agito in base a ordini superiori, vista la spregiudicata disinvoltura con la quale la «falange kazaka» ha orchestrato e diretto le operazioni italiane, certa di poter pretendere un «sequestro di persona» in cambio dei buoni affari conclusi a suo tempo dall’ex premier Berlusconi con gli zar del petrolio ex sovietico. Forse è stato addirittura scavalcato dal suo leader, che di Nazarbayev è molto più amico di quanto non riconosca lui stesso nell’intervista al “Corriere della Sera” di ieri, in cui il Cavaliere blinda Alfano e il governo definendo «assurde queste mozioni di sfiducia presentate dalle opposizioni, che impegnano il Parlamento e fanno perdere tempo in un momento così difficile e preoccupante». Non male, detto dal capo-popolo di un partito che solo una settimana fa, dopo la semplice fissazione di un’udienza della Cassazione, ha minacciato l’Aventino chiedendo la «serrata » delle Camere per tre giorni consecutivi.

Comunque siano andate le cose, Alfano aveva il dovere di dimettersi da ministro dell’Interno. 
E quel dovere lo ha ancora. Non è troppo tardi, per un gesto di serietà istituzionale e di onestà intellettuale di fronte al Paese. E il Pd non dovrebbe dividersi né provare imbarazzi inutili, nell’invocare ed esigere quel gesto. Non dovrebbe rassegnarsi alla logica che lega inestricabilmente la sorte personale di Alfano a quella del governo. E invece è esattamente quello che fa: scivolando sempre di più, in nome di una governabilità a qualsiasi costo, sul piano inclinato del compromesso al ribasso. Si dice che la richiesta delle dimissioni di Alfano indebolisce il governo, o addirittura lo espone al rischio di una crisi.

Ma proviamo a rovesciare la visuale. È quello che è accaduto, cioè lo scandalo kazako, ad aver indebolito irrimediabilmente il governo e ad averlo esposto al pericolo di una caduta. Non è quello che dovrebbe accadere, cioè la doverosa uscita di scena di chi ha sbagliato, a minacciare la sopravvivenza della Grande Coalizione. Se non si erigono le barricate dell’ideologia, è possibile separare il destino del ministro dell’Interno dal futuro delle Larghe Intese. Il governo Letta potrebbe persino rafforzarsi, se riuscisse ad uscire da questo pasticcio kazako con una soluzione decorosa. L’autoassoluzione della politica, che per durare insegue di volta in volta l’impunità formale e sostanziale, non lo è affatto. Se la «pacificazione» produce assuefazione, non ci rimette solo la sinistra. Ci rimette l’Italia.

da: http://www.repubblica.it/politica/2013/07/18/news/il_padrone_kazako-63210562/