This is the fashion blog of Stilinga, a fashion designer who works from home. She is from Rome, Italy and she writes about trends, things she loves to do in Rome and art. Questo è il fashion blog, e non solo, di stilinga (una stilista che lavora da casa - è una stilista-casalinga) e che spesso tra una creazione di moda e l'altra, tra ricerche e fiere, si occupa anche del suo quotidiano e del contesto in cui vive.
Da Fashionmag.com: "Moda: c'erano il lusso e il basic, ora c'é il freemium"
Stilinga ha trovato questo interessante articolo su http://www.fashionmag.com/
MILANO, 22 NOV - C'era una volta il lusso, per pochi, e c'era il basic, per tutti. Ora è tempo di 'freemium', un nuovo modello di consumo per coloro che non si fanno dominare dalle mode, ma le usano a loro piacimento. La nuova parola compenetra la cultura del free, cioé del gratuito, dell'accessibile, del prezzo basso, con l'eccellenza del premium, vale a dire dell'esclusivo, dell'alta gamma.
A inventare il neologismo è stato il sociologo Francesco Morace, presidente di Future Concept Lab, che sta scrivendo un libro sull'argomento e ha anticipato la sua idea su Bookmoda@, il trimestrale di settore diretto da Gianluca Lovetro. "Tutto è nato - dice Morace - dalla massificazione degli outlet: la gente si è abituata a comprare il meglio a meno. Da eccezione, l'affare si è trasformato in regola, quella del bargain, dello sconto, e quindi si è consolidata l'idea destabilizzante che la qualità del prodotto non sia sinonimo di prezzo alto".
Si è spezzata la catena del "vale, quindi costa tanto" e viceversa. La qualità dunque è andata verso la massa e nello stesso tempo è entrato in crisi il low cost senza dignità. Naturalmente hanno contribuito a creare tutto questo anche le grandi catene della moda a basso prezzo, da Zara ad H&M, da OVS Industry a Gap che hanno sviluppato la qualità di massa, hanno inserito l'appeal nel prodotto che un tempo era dozzinale e non aveva pretese, hanno aperto bei negozi nelle vie del centro.
Ma il concetto di freemium è perfino qualcosa di più: si tratta di un nuovo pacchetto personale di consumi, un inedito mix. Per esempio, i giovani condividono musica a costo zero, ma per il concerto del loro beniamino spendono anche 100-150 euro. Le notizie on line sono gratuite, ma se vuoi l'approfondimento lo paghi. Non sei costretto a spendere tanto e sempre, "questo - spiega Morace - è consumo vocazionale". Dunque si sceglie e si mescola: riciclo, mercatino, basso prezzo, ma anche l'oggetto, il viaggio, l'evento costoso che appaga le proprie inclinazioni e aspirazioni.
Il freemium è nato con la moda: il pret-a-porter degli stilisti, alle sue origini, era un consumo freemium. Poi via via è diventato lusso e oggi la moda è costretta a fare i conti con la nuova tendenza, per non restare indietro. Oggi a Milano apre il primo negozio italiano di Gap (che ne ha 330 nel mondo, 30 a Londra e 25 a Parigi tanto per dire) con una piccola 'capsule collection' firmata Valentino: come si nota, il basso tende verso l'alto che, a sua volta, è onorato di scendere verso il basso. E il cliente, che normalmente pagherebbe solo 30-40 euro per il giacchino in denim della catena low cost, fa la fila dall'alba per accaparrarsi quello Valentino for Gap a 120 euro: anche questo è un po' freemium.
Copyright © 2010 ANSA. All rights reserved.
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Commento di Stilinga a quanto esposto sopra:
"Il low cost di questo periodo è legato necessariamente alla crisi, ma questo non significa che i consumatori, soprattutto italiani ed in particolar modo romani siano interessati alla bassa qualità prodotta, per forza di cose, all'estero dove operai sottopagati e senza diritti sono sfruttati e di fatto reggono questo sistema capitalistico insano e ancora basato solo e soltanto sul basso costo del lavoro e sullo sfruttamento dell'ambiente.
Da recenti statistiche (pubblicate anche da Repubblica/cronaca di Roma) si evince che i romani, in particolare, abbiamo aumentato le spese del vintage:
vanno alla ricerca del fatto bene, fatto in Italia e che duri e a prezzi adeguati.
Questa vera necessità di prodotti durevoli, realizzati a modo ed in Italia è sottovalutata dalle aziende monstre che diffondono capillarmente prodotti uguali, di massa e standardizzati nei diversi mercati e la stessa necessità si lega anche al fenomeno che evidentemente a diversi studiosi è sfuggito: il ritorno all'artigianalità, al fatto a mano e fatto in loco secondo i gusti del singolo cliente.
Questo ritorno scompagina le strategie di vendita e di penetrazione nei vari mercati delle suddette aziende monstre che seguono imperterrite il solco del vecchio capitalismo ormai andato a male e ci auguriamo sulla via del tramonto per sempre.
Del resto la storia e l'economia sono cicliche e allora dopo tanti decenni di moda preconfezionata e industrializzata, a sotto costo e realizzata per non durare, con tessuti che al secondo lavaggio cedono, sicuramente il vero bisogno ora è di abbigliamento durevole che sia prodotto in loco, diverso e frutto di vera CULTURA, del know how (nel nostro caso) italiano.
MILANO, 22 NOV - C'era una volta il lusso, per pochi, e c'era il basic, per tutti. Ora è tempo di 'freemium', un nuovo modello di consumo per coloro che non si fanno dominare dalle mode, ma le usano a loro piacimento. La nuova parola compenetra la cultura del free, cioé del gratuito, dell'accessibile, del prezzo basso, con l'eccellenza del premium, vale a dire dell'esclusivo, dell'alta gamma.
A inventare il neologismo è stato il sociologo Francesco Morace, presidente di Future Concept Lab, che sta scrivendo un libro sull'argomento e ha anticipato la sua idea su Bookmoda@, il trimestrale di settore diretto da Gianluca Lovetro. "Tutto è nato - dice Morace - dalla massificazione degli outlet: la gente si è abituata a comprare il meglio a meno. Da eccezione, l'affare si è trasformato in regola, quella del bargain, dello sconto, e quindi si è consolidata l'idea destabilizzante che la qualità del prodotto non sia sinonimo di prezzo alto".
Si è spezzata la catena del "vale, quindi costa tanto" e viceversa. La qualità dunque è andata verso la massa e nello stesso tempo è entrato in crisi il low cost senza dignità. Naturalmente hanno contribuito a creare tutto questo anche le grandi catene della moda a basso prezzo, da Zara ad H&M, da OVS Industry a Gap che hanno sviluppato la qualità di massa, hanno inserito l'appeal nel prodotto che un tempo era dozzinale e non aveva pretese, hanno aperto bei negozi nelle vie del centro.
Ma il concetto di freemium è perfino qualcosa di più: si tratta di un nuovo pacchetto personale di consumi, un inedito mix. Per esempio, i giovani condividono musica a costo zero, ma per il concerto del loro beniamino spendono anche 100-150 euro. Le notizie on line sono gratuite, ma se vuoi l'approfondimento lo paghi. Non sei costretto a spendere tanto e sempre, "questo - spiega Morace - è consumo vocazionale". Dunque si sceglie e si mescola: riciclo, mercatino, basso prezzo, ma anche l'oggetto, il viaggio, l'evento costoso che appaga le proprie inclinazioni e aspirazioni.
Il freemium è nato con la moda: il pret-a-porter degli stilisti, alle sue origini, era un consumo freemium. Poi via via è diventato lusso e oggi la moda è costretta a fare i conti con la nuova tendenza, per non restare indietro. Oggi a Milano apre il primo negozio italiano di Gap (che ne ha 330 nel mondo, 30 a Londra e 25 a Parigi tanto per dire) con una piccola 'capsule collection' firmata Valentino: come si nota, il basso tende verso l'alto che, a sua volta, è onorato di scendere verso il basso. E il cliente, che normalmente pagherebbe solo 30-40 euro per il giacchino in denim della catena low cost, fa la fila dall'alba per accaparrarsi quello Valentino for Gap a 120 euro: anche questo è un po' freemium.
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Commento di Stilinga a quanto esposto sopra:
"Il low cost di questo periodo è legato necessariamente alla crisi, ma questo non significa che i consumatori, soprattutto italiani ed in particolar modo romani siano interessati alla bassa qualità prodotta, per forza di cose, all'estero dove operai sottopagati e senza diritti sono sfruttati e di fatto reggono questo sistema capitalistico insano e ancora basato solo e soltanto sul basso costo del lavoro e sullo sfruttamento dell'ambiente.
Da recenti statistiche (pubblicate anche da Repubblica/cronaca di Roma) si evince che i romani, in particolare, abbiamo aumentato le spese del vintage:
vanno alla ricerca del fatto bene, fatto in Italia e che duri e a prezzi adeguati.
Questa vera necessità di prodotti durevoli, realizzati a modo ed in Italia è sottovalutata dalle aziende monstre che diffondono capillarmente prodotti uguali, di massa e standardizzati nei diversi mercati e la stessa necessità si lega anche al fenomeno che evidentemente a diversi studiosi è sfuggito: il ritorno all'artigianalità, al fatto a mano e fatto in loco secondo i gusti del singolo cliente.
Questo ritorno scompagina le strategie di vendita e di penetrazione nei vari mercati delle suddette aziende monstre che seguono imperterrite il solco del vecchio capitalismo ormai andato a male e ci auguriamo sulla via del tramonto per sempre.
Del resto la storia e l'economia sono cicliche e allora dopo tanti decenni di moda preconfezionata e industrializzata, a sotto costo e realizzata per non durare, con tessuti che al secondo lavaggio cedono, sicuramente il vero bisogno ora è di abbigliamento durevole che sia prodotto in loco, diverso e frutto di vera CULTURA, del know how (nel nostro caso) italiano.
Al Maxxi di Roma: Le storie dell'arte 1960/2010
Oggi Stilinga è andata alla lezione dell'arte, tenuta da Daniela Lancioni, organizzata presso il Maxxi di Roma e che lì si tiene un sabato al mese (la prossima è il18/12/2010, ci si può prenotare 10 giorni prima oppure presentarsi direttamente il giorno della lezione e acquistare il biglietto alla reception dell'Auditorium del Maxxi).
Premesso che:
-arrivare al Maxxi non è facile e nemmeno veloce, se si proviene dall'altra parte di Roma;
-via Guido Reni ed annessi marciapiedi sono non solo sconnessi, ma disastrati in malo modo e pieni di buche e pozzanghere;
-diluviava e il Maxxi apre solo alle ore 11.00,
premesso tutto ciò, si deve dire che alle 10.35 il cospicuo e previdente capannello di persone davanti ai cancelli chiusi era completamente inzuppato in quanto non esiste una pensilina sotto cui ripararsi mentre si aspetta (nonostante la bellezza dell'edificio se il cancello è chiuso non c'è modo di evitare la pioggia e la strada è sprovvista di tutto) e il personale di (in)sicurezza è fermo e insensibile alla causa dell'avventore (della serie siete arrivati in anticipo e diluvia? non apro il cancello e non vi permetto di ripararvi all'ingresso del museo perchè siete peggio dei terroristi e non ho nessuna pietà verso di voi e tanto meno ho l'autorizzazione della direzione centrale, per farvi andare sotto il tetto dell'ingresso, ma ho l'autorità -anche minima, ma sempre autorità è- di farvi crepare sotto la pioggia e in mezzo alla strada desolata, attaccateve!).
A questo stato, bagnato, di incredibile idiozia, si è posto un semi rimedio solo verso le 10.50, permettendo finalmente agli astanti di porsi sotto l'agognato tetto davanti all'entrata principale, grazie a non si sa bene quale scienziato che ha avuto un po' di buon senso.
I restanti 10-15 minuti, prima dell'ufficiale apertura del museo, sono stati passati da Stilinga in un gregge umano intellettuale, fradicio d'acqua e di rabbia per il trattamento subito e naturalmente senza avere nessuna possibile organizzazione in fila, del resto siamo in Italia, non dimentichiamo che qui le file non sono lontanamente nemmeno concepite.
Finalmente alle 11-11.05 il museo viene aperto e la mandria intellettuale e polemica si fionda confusamente verso le casse dove ritira i biglietti.
Verso le 11.40 la lezione inizia: gli anni '70 si presentano ai nostri occhi di uomini e donne tornati individui in un ambiente asciutto e confortevole e il decennio artistico è sinteticamente delucidato dallo storico dell'arte di cui sopra.
La lezione è stata interessante e seguita agevolmente da chi non era a digiuno di storia dell'arte contemporanea, per gli altri è risultata un po' fastidiosa e purtroppo incompleta. Stilinga è uscita semi soddisfatta dal Maxxi e ha ripreso la via per la sua odissea fradicia d'acqua verso casa.
Premesso che:
-arrivare al Maxxi non è facile e nemmeno veloce, se si proviene dall'altra parte di Roma;
-via Guido Reni ed annessi marciapiedi sono non solo sconnessi, ma disastrati in malo modo e pieni di buche e pozzanghere;
-diluviava e il Maxxi apre solo alle ore 11.00,
premesso tutto ciò, si deve dire che alle 10.35 il cospicuo e previdente capannello di persone davanti ai cancelli chiusi era completamente inzuppato in quanto non esiste una pensilina sotto cui ripararsi mentre si aspetta (nonostante la bellezza dell'edificio se il cancello è chiuso non c'è modo di evitare la pioggia e la strada è sprovvista di tutto) e il personale di (in)sicurezza è fermo e insensibile alla causa dell'avventore (della serie siete arrivati in anticipo e diluvia? non apro il cancello e non vi permetto di ripararvi all'ingresso del museo perchè siete peggio dei terroristi e non ho nessuna pietà verso di voi e tanto meno ho l'autorizzazione della direzione centrale, per farvi andare sotto il tetto dell'ingresso, ma ho l'autorità -anche minima, ma sempre autorità è- di farvi crepare sotto la pioggia e in mezzo alla strada desolata, attaccateve!).
A questo stato, bagnato, di incredibile idiozia, si è posto un semi rimedio solo verso le 10.50, permettendo finalmente agli astanti di porsi sotto l'agognato tetto davanti all'entrata principale, grazie a non si sa bene quale scienziato che ha avuto un po' di buon senso.
I restanti 10-15 minuti, prima dell'ufficiale apertura del museo, sono stati passati da Stilinga in un gregge umano intellettuale, fradicio d'acqua e di rabbia per il trattamento subito e naturalmente senza avere nessuna possibile organizzazione in fila, del resto siamo in Italia, non dimentichiamo che qui le file non sono lontanamente nemmeno concepite.
Finalmente alle 11-11.05 il museo viene aperto e la mandria intellettuale e polemica si fionda confusamente verso le casse dove ritira i biglietti.
Verso le 11.40 la lezione inizia: gli anni '70 si presentano ai nostri occhi di uomini e donne tornati individui in un ambiente asciutto e confortevole e il decennio artistico è sinteticamente delucidato dallo storico dell'arte di cui sopra.
La lezione è stata interessante e seguita agevolmente da chi non era a digiuno di storia dell'arte contemporanea, per gli altri è risultata un po' fastidiosa e purtroppo incompleta. Stilinga è uscita semi soddisfatta dal Maxxi e ha ripreso la via per la sua odissea fradicia d'acqua verso casa.
More Postcards from Rome: a city center in deep commercial crisis
Via del Tritone, Rome, Italy, 6th of November 2010.
Via del Traforo, Rome, Italy
Esposizione di artigianato artistico giapponese a Via Fontanella Borghese, Roma
Oggi Stilinga ha avuto la splendida idea di fare una lunga passeggiata in centro, a Roma, e una volta arrivata in Via Fontanella Borghese, lasciandosi alle spalle il negozio-maison di Fendi, sul lato sinistro della stessa strada, ha visto il cartello ritratto qui a fianco.
E' l'invito per accedere ad un bellissimo cortile di un palazzo nobiliare romano, dove regna pace e serenità e dove si affacciano le vetrine di uno spazio molto zen per ordine e fascino e dove Stilinga ha passato almeno 40 minuti buoni in estasi artistico-artigianale, immersa in prodotti, manufatti, essenze del Giappone.
Stilinga ha "goduto" della Koishiwara Pottery, dei porta soia di fantasuteki, e di ombrelli di riso-lampade, di set di tazze per il sakè, di asciugamani ecologici, di cassettiere raffinatissime, di bottoni ricoperti con tessuti a mano dalle texture tradizionali, di incensi in confezioni raffinatissime e molto altro ancora.
Dopo aver toccato New York e Parigi, questa mostra-mercato è approdata a Roma e qui sarà aperta fino al giorno 11 novembre.
Stilinga spera vivamente che l'organizzazione Japan Brand apra stabilmente punti vendita di artigianato originale e davvero "local" giapponese e spera che li apra anche nella capitale.
Berlusconi:"Perchè dovremmo pagare uno scienziato quando facciamo le migliori scarpe al mondo?"
Da Il Fatto Quotidiano:
"La domanda completa, che sembra sia stata posta dal nostro presidente del Consiglio, è piuttosto una domanda retorica oltre che spaventosamente primitiva: perché dovremmo pagare uno scienziato quando facciamo le migliori scarpe del mondo? Per quanto questa domanda suoni insensata ed invero piuttosto gretta, pare che ci si debba fare i conti oggi in Italia in quanto sembra essere un pensiero comune di tanti. Infatti, è indubbio che vi sia un problema culturale in Italia, che porta a vedere la ricerca come un lusso inutile ed è proprio da questa sciagurata domanda che bisogna partire per un rinnovamento del sistema dell’università e della ricerca.
Per rispondere, potrei citare Feynman (uno dei più grandi fisici del 900) quando dice che “Tra molto tempo – per esempio tra diecimila anni – non c’è dubbio che la scoperta delle equazioni di Maxwell [ndr, che descrivono le onde elettromagnetiche] sarà giudicato l’evento più significativo del XIX secolo. La guerra civile americana apparirà insignificante e provinciale se paragonata a questo importante evento scientifico avvenuto nel medesimo decennio (Lectures on Physics, vol. II) ” .
Ma non c’è solo un motivo culturale, quello che bisogna ricordare è che la ricerca, quella fondamentale, ha anche un’importanza economica e sociale. Per rispondere a questa domanda vorrei dunque riportare alcuni brani di un articolo di Sheldon Glashow, Premio Nobel per la fisica 1979, presentato a Parigi alcuni anni fa (ringrazio il Prof. Guido Martinelli per avermelo dato, è tanto efficace quanto introvabile):
“Molti politici, ma anche molti rappresentanti dell’industria e del mondo accademico, sono convinti che la società dovrebbe investire esclusivamente in ricerche che abbiano buone probabilità di generare benefici diretti e specifici, nella forma di creazione di ricchezza e di miglioramenti della qualità della vita. In particolare essi ritengono che le ricerche nella Fisica delle Alte Energie e dell’Astrofisica siano lussi inutili e dispendiosi, che queste discipline consumino risorse piuttosto che promuovere crescita economica e benessere per l’uomo. Per esempio, fatemi citare una recente lettera all’Economist: ‘I fisici che lavorano nella ricerca fondamentale si sentirebbero vessati se dovessero indicare qualcosa d’utile che possa derivare dalle loro elaborazioni teoriche … E’ molto più importante incoraggiare i nostri ‘migliori cervelli’ a risolvere problemi reali e lasciare la teologia ai professionisti della religione’. Io credo invece che queste persone si sbaglino completamente, e che la politica che essi invocano è molto poco saggia e controproducente.
Se Faraday, Roentgen e Hertz si fossero concentrati sui ‘problemi reali’ dei loro tempi, non avremmo mai sviluppato i motori elettrici, i raggi X e la radio. E’ vero che i fisici che lavorano nella ricerca fondamentale si occupano di fenomeni ‘esotici’ che non sono in se stessi particolarmente utili. E’ anche vero che questo tipo di ricerca è costoso. Ciò nonostante, io sostengo che il loro lavoro continua ad avere un enorme impatto sulla nostra vita. In verità, la ricerca delle conoscenze fondamentali, guidata dalla curiosità umana, è altrettanto importante che la ricerca di soluzioni a specifici problemi pratici. Dieci esempi dovrebbero essere sufficienti per provare questo punto.”
In breve i dieci esempi sono: il world-wide-web sviluppato all’interno delle ricerche della fisica delle alte energie, i computer, la crittografia moderna (alla base delle transizioni finanziarie a distanza), i sistemi di posizionamento globale GPS, la terapia con i fasci di particelle (per curare ad esempio il tumore al seno, l’AIDS, ecc.), il medical imaging (risonanza magnetica nucleare, tomografia ad emissione di positroni, ecc.) la superconduttività (generazione, trasporto ed immagazzinamento di energia elettrica), i radioisotopi (di nuovo applicazioni nel campo della fisica medica, ma anche in archeologia, geologia, ecc.), le sorgenti di luce di sincrotrone (scienza dei materiali, scienze della terra, ecc.), le sorgenti di neutroni (scienze di base ed ingegneria).
Il Prof. Glashow conclude dunque che“Ho descritto come le discipline scientifiche fondamentali ed apparentemente inutili abbiano contribuito enormemente alla crescita economica ed al benessere dell’uomo. Molto tempo fa ci si mise in guardia che la pressione per ottenere risultati immediati avrebbe distrutto la ricerca pura, a meno di perseguire delle politiche consapevoli per evitare che questo accada. Questo avvertimento è ancora più pertinente al giorno d’oggi. Tuttavia il perseguimento della fisica delle particelle e dell’astrofisica non è motivato dalla loro potenziale importanza economica, non importa quanto grande questa possa essere. Noi studiamo queste discipline perché crediamo che sia nostro dovere capire quanto meglio possibile il mondo in cui siamo nati. La Scienza fornisce la possibilità di comprendere razionalmente il nostro ruolo nell’Universo e può rimpiazzare le superstizioni che tanti distruzioni hanno prodotto nel passato. In conclusione, dovremmo notare che il grande successo dello spirito di iniziativa degli scienziati di tutto il mondo dovrebbe servire da modello per una più ampia collaborazione internazionale. Speriamo che la scienza e gli scienziati ci conducano verso un secolo più giusto e meno violento di quello che lo ha preceduto. ”
A margine di queste considerazioni il Prof. Glashow mette in risalto altri due punti importanti:
“Ma ci sono molte altre ragioni per le quali i governi dovrebbero continuare a finanziare ricerche apparentemente inutili e non indirizzate a scopi pratici:
Qui adatto una considerazione di Sir Chris Llewellyn-Smith, ex-direttore del CERN . Se la ricerca guidata dalla curiosità scientifica è economicamente importante, perché dovrebbe essere finanziata da fondi pubblici piuttosto che privati? La ragione è che ci sono delle scienze che portano benefici di carattere generale, piuttosto che vantaggi specifici a prodotti individuali. L’eventuale ritorno economico di queste ricerche non può essere ascritto ad una singola impresa o imprenditore. Questa è la ragione per la quale la ricerca pura è finanziata dai governi senza tener conto dell’immediato interesse commerciale dei risultati. Il finanziamento governativo della ricerca di base, non indirizzata a finalità immediate, deve continuare se si vogliono ottenere ulteriori progressi.
I fisici delle particelle e coloro che si occupano di cosmologia spendono molti anni sviluppando competenze tecniche o metodi per risolvere problemi che possono (e spesso sono) reindirizzati verso scopi più pratici. Molte delle industrie della Silicon Valley e dell’area di Boston sono state create da fisici, informatici e ingegneri degli acceleratori di particelle che devono le loro capacità all’esperienza conseguita nei laboratori di fisica delle alte energie.”
Che poi la discussione in Italia, sia ridotta al livello di confrontare la scienza con la fabbricazione di scarpe dà un’idea dell’imbarbarimento di chi dovrebbe, in un modo o nell’altro, guidare il paese."
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/10/20/perche-dovremmo-pagare-uno-scienziato/72702/
ed ecco il commento di Stilinga alla domanda retorica del Premier Berlusconi:
"Caro Berlusconi,
in Italia FACEVAMO le più belle scarpe, siamo stati superati, ormai da un bel pezzo, strano, non se n’è accorto? anche da chi non le sapeva fare (Asia e Sud America) che però con grossi investimenti economici e di ricerca, hanno acquistato, e purtroppo tocca dirlo, dall’Italia, i macchinari tecnologicamente più avanzati e ora le scarpe più belle le fanno loro! Anche perchè assieme a questi macchinari, le aziende italiane hanno esportato fior di tecnici calzaturieri e ora gli addetti ai lavori nostrani non riescono a distinguere un paio di scarpe cinesi, brasiliane, etc. da quelle italiane!
E la ricerca nel nostro martoriato Paese serve e pure moltissimo, altrimenti quei distretti calzaturieri italiani che si sono svuotati e languono ma ancora provano a resistere nonostante tutto, come, Presidente Berlusconi, pensa che possano innovare? Non solo non capisce nulla di economia, ma non è immerso nella realtà!
Si svegli!"
Per approfondire sulla vendita di macchinari calzaturieri all'estero, da trendcalzaturiero:
"Più 65% l’export italiano di macchine utensili per calzaturifici
Vento di poppa per l’export nazionale di macchine utensili per la fabbricazione di calzature. Nel primo semestre 2010 il fatturato oltre confine ha fatto segnare una crescita del 65%, spingendosi a quota 41 milioni e mezzo di euro. Quasi quadruplicato il giro d’affari in India, che resta il primo sbocco commerciale, con crescita a tre cifre anche in Turchia e ottimi sviluppi in Tunisia e Romania.
Aumenti si segnalano inoltre in Spagna, Brasile e Messico, mentre è apparsa decisamente più modesta la performance sul mercato cinese dove il fatturato è cresciuto di soli 2 punti percentuali.
Export italiano di macchine e apprecchi per la fabbricazione di calzature
(euro - dati riferiti al I semestre)
2009 2010 Var. %
Mondo 25.052.931 41.477.954 65,6%
Ue-27 8.375.906 9.817.656 17,2%
Extra Ue 16.677.025 31.660.298 89,8%
India 2.522.190 9.573.017 279,6%
Turchia 511.025 2.270.159 344,2%
Tunisia 1.561.450 2.248.010 44,0%
Romania 1.381.520 2.012.598 45,7%
Spagna 752.285 1.940.990 158,0%
Brasile 1.008.734 1.448.517 43,6%
Messico 362.478 1.303.680 259,7%
Cina 1.211.320 1.237.727 2,2%
Albania 494.179 1.127.375 128,1%
Francia 1.001.482 1.087.286 8,6%
Germania 1.380.013 1.038.098 -24,8%
Venezuela 251.182 983.230 291,4%
Russia 606.758 863.176 42,3%
Hong Kong 1.691.302 847.134 -49,9%
Bangladesh 618.483 828.882 34,0%
Portogallo 1.236.966 772.105 -37,6%
Ceca, Repubblica 294.690 650.558 120,8%
Polonia 736.719 630.447 -14,4%
Ucraina 94.047 588.314 525,6%
Fonte: Elaborazioni Trend Calzaturiero su dati Istat
Per approfondire la crisi del settore calzaturiero, ecco un post interessante, da Trendcalzaturiero:
"Calzaturiero, freno tirato per produzione e fatturato nel 2009
Un calo della produzione, in termini fisici, valutato attorno al 16% rispetto al 2008. Associato a un ridimensionamento del fatturato, ai prezzi “ex fabrica”, del 15%, che incorpora un meno 11% sul mercato domestico e una flessione ancora più robusta, nell’ordine del 16,5%, oltre confine.
Sono le stime elaborate da Trend Calzaturiero sugli sviluppi congiunturali del 2009 riferiti al sistema calzaturiero italiano.
Un comparto tradizionalmente pro ciclico costituito in Italia da una solida realtà di matrice industriale e artigianale, che negli ultimi dodici mesi ha subito gli effetti del forte deterioramento del contesto macro di riferimento, manifestando comunque una migliore tenuta, in termini relativi, rispetto all’intero settore manifatturiero.
Le risultanze positive dei principali indicatori anticipatori emersi dalle indagini sul clima di fiducia non sembrano ancora concretizzarsi in una ripresa, se non graduale, dell’attività produttiva con il rischio di dilatare i tempi di recupero anche per il settore calzaturiero, in termini di potenziale riaggancio dei livelli pre crisi.
Le proiezioni per il 2010 - rileva Trend Calzaturiero - delineano il protrarsi della fragilità del quadro economico di riferimento, seppure in previsione di una ripresa dei livelli di produzione e soprattutto degli scambi internazionali. Sviluppi che, per il sistema calzaturiero, assumono una maggiore rilevanza, data la forte propensione all’export, avvalorando la tesi, più incoraggiante, di una migliore capacità di reazione alla crisi.
Le evidenze statistiche, ancora incomplete, portano a stimare in un meno 2,5% la flessione finale delle vendite retail dell’intero segmento dell’area pelle sul mercato domestico. Con una riduzione leggermente più accentuata in termini di volumi, a fronte di un aumento dei prezzi al consumo che nel caso delle calzature è quantificabile, nel 2009, nell’intorno dell’1%. Leggermente positiva anche la dinamica dei prezzi alla produzione industriale, con le previsioni di Trend Calzaturiero che attestano la crescita del 2009 in un frazionale più 0,7%. Sugli sviluppi dei consumi interni è prevedibile un proseguimento della stagnazione nel corso del 2010, considerando una probabile accentuazione dei risvolti negativi della crisi sul versante occupazionale.
Quanto all’export, in valore le vendite all’estero dovrebbero sperimentare un meno 16% abbondante, incorporando in aggiunta a un calo fisico delle spedizioni, una flessione dei prezzi oltre confine misurata attorno all’1%. Sul fronte delle importazioni è atteso un meno 1,5% in valore, con i prezzi delle scarpe importate, in prevalenza di marca cinese e vietnamita, rincarati mediamente del 12%, anche per effetto dei dazi antidumping, prorogati nella Ue per altri 15 mesi. In forte deterioramento i conti con l’estero del settore con il saldo, strutturalmente in attivo, che ha accumulato in tre trimestri una riduzione del 30%.
Nel 2009 le imprese del segmento pelli e calzature hanno aumentato di oltre tre volte il ricorso alla cassa integrazione guadagni, in termini di ore autorizzate dall’Inps. Più marcato in fenomeno nelle regioni del Sud, dove gli esiti congiunturali - conclude la nota - mostrano nella dimensione statistica degli sviluppi occupazionali elementi di maggiore criticità rispetto al resto d’Italia."
"La domanda completa, che sembra sia stata posta dal nostro presidente del Consiglio, è piuttosto una domanda retorica oltre che spaventosamente primitiva: perché dovremmo pagare uno scienziato quando facciamo le migliori scarpe del mondo? Per quanto questa domanda suoni insensata ed invero piuttosto gretta, pare che ci si debba fare i conti oggi in Italia in quanto sembra essere un pensiero comune di tanti. Infatti, è indubbio che vi sia un problema culturale in Italia, che porta a vedere la ricerca come un lusso inutile ed è proprio da questa sciagurata domanda che bisogna partire per un rinnovamento del sistema dell’università e della ricerca.
Per rispondere, potrei citare Feynman (uno dei più grandi fisici del 900) quando dice che “Tra molto tempo – per esempio tra diecimila anni – non c’è dubbio che la scoperta delle equazioni di Maxwell [ndr, che descrivono le onde elettromagnetiche] sarà giudicato l’evento più significativo del XIX secolo. La guerra civile americana apparirà insignificante e provinciale se paragonata a questo importante evento scientifico avvenuto nel medesimo decennio (Lectures on Physics, vol. II) ” .
Ma non c’è solo un motivo culturale, quello che bisogna ricordare è che la ricerca, quella fondamentale, ha anche un’importanza economica e sociale. Per rispondere a questa domanda vorrei dunque riportare alcuni brani di un articolo di Sheldon Glashow, Premio Nobel per la fisica 1979, presentato a Parigi alcuni anni fa (ringrazio il Prof. Guido Martinelli per avermelo dato, è tanto efficace quanto introvabile):
“Molti politici, ma anche molti rappresentanti dell’industria e del mondo accademico, sono convinti che la società dovrebbe investire esclusivamente in ricerche che abbiano buone probabilità di generare benefici diretti e specifici, nella forma di creazione di ricchezza e di miglioramenti della qualità della vita. In particolare essi ritengono che le ricerche nella Fisica delle Alte Energie e dell’Astrofisica siano lussi inutili e dispendiosi, che queste discipline consumino risorse piuttosto che promuovere crescita economica e benessere per l’uomo. Per esempio, fatemi citare una recente lettera all’Economist: ‘I fisici che lavorano nella ricerca fondamentale si sentirebbero vessati se dovessero indicare qualcosa d’utile che possa derivare dalle loro elaborazioni teoriche … E’ molto più importante incoraggiare i nostri ‘migliori cervelli’ a risolvere problemi reali e lasciare la teologia ai professionisti della religione’. Io credo invece che queste persone si sbaglino completamente, e che la politica che essi invocano è molto poco saggia e controproducente.
Se Faraday, Roentgen e Hertz si fossero concentrati sui ‘problemi reali’ dei loro tempi, non avremmo mai sviluppato i motori elettrici, i raggi X e la radio. E’ vero che i fisici che lavorano nella ricerca fondamentale si occupano di fenomeni ‘esotici’ che non sono in se stessi particolarmente utili. E’ anche vero che questo tipo di ricerca è costoso. Ciò nonostante, io sostengo che il loro lavoro continua ad avere un enorme impatto sulla nostra vita. In verità, la ricerca delle conoscenze fondamentali, guidata dalla curiosità umana, è altrettanto importante che la ricerca di soluzioni a specifici problemi pratici. Dieci esempi dovrebbero essere sufficienti per provare questo punto.”
In breve i dieci esempi sono: il world-wide-web sviluppato all’interno delle ricerche della fisica delle alte energie, i computer, la crittografia moderna (alla base delle transizioni finanziarie a distanza), i sistemi di posizionamento globale GPS, la terapia con i fasci di particelle (per curare ad esempio il tumore al seno, l’AIDS, ecc.), il medical imaging (risonanza magnetica nucleare, tomografia ad emissione di positroni, ecc.) la superconduttività (generazione, trasporto ed immagazzinamento di energia elettrica), i radioisotopi (di nuovo applicazioni nel campo della fisica medica, ma anche in archeologia, geologia, ecc.), le sorgenti di luce di sincrotrone (scienza dei materiali, scienze della terra, ecc.), le sorgenti di neutroni (scienze di base ed ingegneria).
Il Prof. Glashow conclude dunque che“Ho descritto come le discipline scientifiche fondamentali ed apparentemente inutili abbiano contribuito enormemente alla crescita economica ed al benessere dell’uomo. Molto tempo fa ci si mise in guardia che la pressione per ottenere risultati immediati avrebbe distrutto la ricerca pura, a meno di perseguire delle politiche consapevoli per evitare che questo accada. Questo avvertimento è ancora più pertinente al giorno d’oggi. Tuttavia il perseguimento della fisica delle particelle e dell’astrofisica non è motivato dalla loro potenziale importanza economica, non importa quanto grande questa possa essere. Noi studiamo queste discipline perché crediamo che sia nostro dovere capire quanto meglio possibile il mondo in cui siamo nati. La Scienza fornisce la possibilità di comprendere razionalmente il nostro ruolo nell’Universo e può rimpiazzare le superstizioni che tanti distruzioni hanno prodotto nel passato. In conclusione, dovremmo notare che il grande successo dello spirito di iniziativa degli scienziati di tutto il mondo dovrebbe servire da modello per una più ampia collaborazione internazionale. Speriamo che la scienza e gli scienziati ci conducano verso un secolo più giusto e meno violento di quello che lo ha preceduto. ”
A margine di queste considerazioni il Prof. Glashow mette in risalto altri due punti importanti:
“Ma ci sono molte altre ragioni per le quali i governi dovrebbero continuare a finanziare ricerche apparentemente inutili e non indirizzate a scopi pratici:
Qui adatto una considerazione di Sir Chris Llewellyn-Smith, ex-direttore del CERN . Se la ricerca guidata dalla curiosità scientifica è economicamente importante, perché dovrebbe essere finanziata da fondi pubblici piuttosto che privati? La ragione è che ci sono delle scienze che portano benefici di carattere generale, piuttosto che vantaggi specifici a prodotti individuali. L’eventuale ritorno economico di queste ricerche non può essere ascritto ad una singola impresa o imprenditore. Questa è la ragione per la quale la ricerca pura è finanziata dai governi senza tener conto dell’immediato interesse commerciale dei risultati. Il finanziamento governativo della ricerca di base, non indirizzata a finalità immediate, deve continuare se si vogliono ottenere ulteriori progressi.
I fisici delle particelle e coloro che si occupano di cosmologia spendono molti anni sviluppando competenze tecniche o metodi per risolvere problemi che possono (e spesso sono) reindirizzati verso scopi più pratici. Molte delle industrie della Silicon Valley e dell’area di Boston sono state create da fisici, informatici e ingegneri degli acceleratori di particelle che devono le loro capacità all’esperienza conseguita nei laboratori di fisica delle alte energie.”
Che poi la discussione in Italia, sia ridotta al livello di confrontare la scienza con la fabbricazione di scarpe dà un’idea dell’imbarbarimento di chi dovrebbe, in un modo o nell’altro, guidare il paese."
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/10/20/perche-dovremmo-pagare-uno-scienziato/72702/
ed ecco il commento di Stilinga alla domanda retorica del Premier Berlusconi:
"Caro Berlusconi,
in Italia FACEVAMO le più belle scarpe, siamo stati superati, ormai da un bel pezzo, strano, non se n’è accorto? anche da chi non le sapeva fare (Asia e Sud America) che però con grossi investimenti economici e di ricerca, hanno acquistato, e purtroppo tocca dirlo, dall’Italia, i macchinari tecnologicamente più avanzati e ora le scarpe più belle le fanno loro! Anche perchè assieme a questi macchinari, le aziende italiane hanno esportato fior di tecnici calzaturieri e ora gli addetti ai lavori nostrani non riescono a distinguere un paio di scarpe cinesi, brasiliane, etc. da quelle italiane!
E la ricerca nel nostro martoriato Paese serve e pure moltissimo, altrimenti quei distretti calzaturieri italiani che si sono svuotati e languono ma ancora provano a resistere nonostante tutto, come, Presidente Berlusconi, pensa che possano innovare? Non solo non capisce nulla di economia, ma non è immerso nella realtà!
Si svegli!"
Per approfondire sulla vendita di macchinari calzaturieri all'estero, da trendcalzaturiero:
"Più 65% l’export italiano di macchine utensili per calzaturifici
Vento di poppa per l’export nazionale di macchine utensili per la fabbricazione di calzature. Nel primo semestre 2010 il fatturato oltre confine ha fatto segnare una crescita del 65%, spingendosi a quota 41 milioni e mezzo di euro. Quasi quadruplicato il giro d’affari in India, che resta il primo sbocco commerciale, con crescita a tre cifre anche in Turchia e ottimi sviluppi in Tunisia e Romania.
Aumenti si segnalano inoltre in Spagna, Brasile e Messico, mentre è apparsa decisamente più modesta la performance sul mercato cinese dove il fatturato è cresciuto di soli 2 punti percentuali.
Export italiano di macchine e apprecchi per la fabbricazione di calzature
(euro - dati riferiti al I semestre)
2009 2010 Var. %
Mondo 25.052.931 41.477.954 65,6%
Ue-27 8.375.906 9.817.656 17,2%
Extra Ue 16.677.025 31.660.298 89,8%
India 2.522.190 9.573.017 279,6%
Turchia 511.025 2.270.159 344,2%
Tunisia 1.561.450 2.248.010 44,0%
Romania 1.381.520 2.012.598 45,7%
Spagna 752.285 1.940.990 158,0%
Brasile 1.008.734 1.448.517 43,6%
Messico 362.478 1.303.680 259,7%
Cina 1.211.320 1.237.727 2,2%
Albania 494.179 1.127.375 128,1%
Francia 1.001.482 1.087.286 8,6%
Germania 1.380.013 1.038.098 -24,8%
Venezuela 251.182 983.230 291,4%
Russia 606.758 863.176 42,3%
Hong Kong 1.691.302 847.134 -49,9%
Bangladesh 618.483 828.882 34,0%
Portogallo 1.236.966 772.105 -37,6%
Ceca, Repubblica 294.690 650.558 120,8%
Polonia 736.719 630.447 -14,4%
Ucraina 94.047 588.314 525,6%
Fonte: Elaborazioni Trend Calzaturiero su dati Istat
Per approfondire la crisi del settore calzaturiero, ecco un post interessante, da Trendcalzaturiero:
"Calzaturiero, freno tirato per produzione e fatturato nel 2009
Un calo della produzione, in termini fisici, valutato attorno al 16% rispetto al 2008. Associato a un ridimensionamento del fatturato, ai prezzi “ex fabrica”, del 15%, che incorpora un meno 11% sul mercato domestico e una flessione ancora più robusta, nell’ordine del 16,5%, oltre confine.
Sono le stime elaborate da Trend Calzaturiero sugli sviluppi congiunturali del 2009 riferiti al sistema calzaturiero italiano.
Un comparto tradizionalmente pro ciclico costituito in Italia da una solida realtà di matrice industriale e artigianale, che negli ultimi dodici mesi ha subito gli effetti del forte deterioramento del contesto macro di riferimento, manifestando comunque una migliore tenuta, in termini relativi, rispetto all’intero settore manifatturiero.
Le risultanze positive dei principali indicatori anticipatori emersi dalle indagini sul clima di fiducia non sembrano ancora concretizzarsi in una ripresa, se non graduale, dell’attività produttiva con il rischio di dilatare i tempi di recupero anche per il settore calzaturiero, in termini di potenziale riaggancio dei livelli pre crisi.
Le proiezioni per il 2010 - rileva Trend Calzaturiero - delineano il protrarsi della fragilità del quadro economico di riferimento, seppure in previsione di una ripresa dei livelli di produzione e soprattutto degli scambi internazionali. Sviluppi che, per il sistema calzaturiero, assumono una maggiore rilevanza, data la forte propensione all’export, avvalorando la tesi, più incoraggiante, di una migliore capacità di reazione alla crisi.
Le evidenze statistiche, ancora incomplete, portano a stimare in un meno 2,5% la flessione finale delle vendite retail dell’intero segmento dell’area pelle sul mercato domestico. Con una riduzione leggermente più accentuata in termini di volumi, a fronte di un aumento dei prezzi al consumo che nel caso delle calzature è quantificabile, nel 2009, nell’intorno dell’1%. Leggermente positiva anche la dinamica dei prezzi alla produzione industriale, con le previsioni di Trend Calzaturiero che attestano la crescita del 2009 in un frazionale più 0,7%. Sugli sviluppi dei consumi interni è prevedibile un proseguimento della stagnazione nel corso del 2010, considerando una probabile accentuazione dei risvolti negativi della crisi sul versante occupazionale.
Quanto all’export, in valore le vendite all’estero dovrebbero sperimentare un meno 16% abbondante, incorporando in aggiunta a un calo fisico delle spedizioni, una flessione dei prezzi oltre confine misurata attorno all’1%. Sul fronte delle importazioni è atteso un meno 1,5% in valore, con i prezzi delle scarpe importate, in prevalenza di marca cinese e vietnamita, rincarati mediamente del 12%, anche per effetto dei dazi antidumping, prorogati nella Ue per altri 15 mesi. In forte deterioramento i conti con l’estero del settore con il saldo, strutturalmente in attivo, che ha accumulato in tre trimestri una riduzione del 30%.
Nel 2009 le imprese del segmento pelli e calzature hanno aumentato di oltre tre volte il ricorso alla cassa integrazione guadagni, in termini di ore autorizzate dall’Inps. Più marcato in fenomeno nelle regioni del Sud, dove gli esiti congiunturali - conclude la nota - mostrano nella dimensione statistica degli sviluppi occupazionali elementi di maggiore criticità rispetto al resto d’Italia."
Ormai le ricerche di prodotto si fanno on line
E' da diverso tempo che Stilinga ha smesso di comprare riviste di moda, per alcunni motivi in fin dei conti, davvero molto semplici:
ancora nel suo studio, il pavimento è occupato da 2 o 3 colonne di riviste da selezionare, i ritagli delle riviste selezionate occupano almeno mezza libreria, spendere anche pochi euro per mammut di 500 pagine da dover poi per forza selezionare e soprattutto 500 pagine di pubblicità pura e cruda, pare piuttosto superfluo, oltre che impegnativo e soprattutto, e questo è il motivo principale, Stilinga da un bel pezzo le ricerche prodotto e marketing, le fa on line.
Non solo si occupa di tutto ciò con grande leggiadria ed efficacia, ma anche riesce ad avere delle dritte pazzesche in termini di idee nuove, per esempio nel mondo della calzatura se si volesse volare non alto ma altissimo, Stilinga consiglia caldamente il seguente sito omonimo di cotanta stilista:
http://www.anastasiaradevich.com/
mentre se si volesse approfondire il fetish, tradotto sulle scarpe che risulta molto più ardito di tanti altri casi, Stilinga direbbe:
http://kobilevidesign.blogspot.com/
insomma si fanno delle scoperte davvero interessanti e soprattutto non si devono sfogliare a mano e poi smazzettare riviste che occupano spazio e pesano un bel po'!
ancora nel suo studio, il pavimento è occupato da 2 o 3 colonne di riviste da selezionare, i ritagli delle riviste selezionate occupano almeno mezza libreria, spendere anche pochi euro per mammut di 500 pagine da dover poi per forza selezionare e soprattutto 500 pagine di pubblicità pura e cruda, pare piuttosto superfluo, oltre che impegnativo e soprattutto, e questo è il motivo principale, Stilinga da un bel pezzo le ricerche prodotto e marketing, le fa on line.
Non solo si occupa di tutto ciò con grande leggiadria ed efficacia, ma anche riesce ad avere delle dritte pazzesche in termini di idee nuove, per esempio nel mondo della calzatura se si volesse volare non alto ma altissimo, Stilinga consiglia caldamente il seguente sito omonimo di cotanta stilista:
http://www.anastasiaradevich.com/
mentre se si volesse approfondire il fetish, tradotto sulle scarpe che risulta molto più ardito di tanti altri casi, Stilinga direbbe:
http://kobilevidesign.blogspot.com/
insomma si fanno delle scoperte davvero interessanti e soprattutto non si devono sfogliare a mano e poi smazzettare riviste che occupano spazio e pesano un bel po'!
La fine del Made in Italy 2
Il mercante nigeriano e le mie stoffe senza valore
di Edoardo Nesi
da la Repubblica — 08 ottobre 2010
Pochi mesi prima che vendessi l' azienda della mia famiglia, un pomeriggio si presentò in portineria il primo stocchista nigeriano della nostra storia. Gigantesco ed elegantissimo in una di quelle loro lunghe vesti colorate, sorrise e chiese in un perfetto italiano di vedere lo stock. Carmine, il nostro magazziniere letterario, gli mostrò subito il pianale delle pezze di Serengeti.
Quando il nigeriano disse che era molto interessato a comprarle tutte, Carmine venne di corsa a chiamarmi in sala campionario. Il Serengeti era un articolo finissimo di cotone per camiceria, che avevamo iniziato a produrre qualche anno prima per riempire i terrificanti, improvvisi vuoti di produzione lasciati in tessitura dal nostro tradizionale cardato di lana. Riuscimmo a venderlo a un grande stilista italiano, che ci dette dei suoi disegni esclusivi da riprodurre in fantasie elegantissime da realizzare in sfumature cipriate di azzurrie grigi che tingemmo in piccoli crogiuoli alchemici con un lavoro certosino.
Fu un bel momento quando vidi le camicie fatte col Serengeti in vendita a 400 dollari nelle vetrine della boutique di Madison Avenue di questo grande stilista, anche se dovetti impedirmi di ricordare che il tessuto glielo vendevamo a 14.000 lire al metro,e per fare una camicia ci vuole, suppergiù, un metro di tessuto.
Purtroppo, per accidenti vari, ogni anno qualche pezza di Serengeti ci rimaneva in magazzino e diventava assolutamente invendibile: il grande stilista non le voleva più perché ogni anno doveva cambiare disegno, gli altri clienti non le volevano perché era riconoscibile il disegno del grande stilista, e gli stocchisti italiani non si avvicinavano nemmeno alle pezze di cotone. Quando entrai in sala campionario e strinsi la mano al nigeriano, capii subito che era davvero interessato.
Gli raccontai che col Serengeti venivano cucite le camicie di uno degli stilisti più noti al mondo, e gli dissi anche il nome. Vantai la finezza del filato, la delicatezza dei colori, la rifinizione morbida eppure lucente, la ricchezza della mano del Serengeti. Poi, in un soffio, dal chimerico prezzo di listino di 14.000 lire calai a 3.000. Il nigeriano alzò lo sguardo dal tessuto e disse subito che per lui era troppo, però continuava a sembrarmi davvero interessato. Non è una sensazione facile da spiegare, ma dopo aver passato anni a fare trattative ogni giorno, te ne accorgi se uno vuole fare affari o solo farti perdere tempo. Gli chiesi quanto poteva pagare. Il nigeriano rispose 500 lire, il che era davvero pochissimo, nulla. Carmine sbuffò, irritato. Poi il nigeriano precisò. Naturalmente, 500 lire al chilo.
Poiché il Serengeti pesava poco più di 100 grammi al metro, il nigeriano mi stava offrendo circa 50 lire al metro. Rimasi in silenzio, pensando al Made in Italy, mentre lui mi spiegava che aveva fermo al porto di La Spezia un container da 40 piedi già quasi completamente riempito di pezze di lana che doveva partire il giorno dopo per Lagos, e lo spedizioniere gli aveva detto che il viaggio era molto lungo e durante la navigazione c' era il rischio che le pezze di lana si muovessero dentro al container, e che il tessuto si potesse rovinare.
Lo sguardo di Carmine si fece vitreo, aveva capito prima di me. Il nigeriano aggiunse che non aveva mai sentito nominare questo signor stilista di cui gli avevo parlato. Mai, nemmeno una volta. Disse che le mie pezze di cotone avevano un diametro minore delle pezze di lana che aveva già comprato, e lui voleva comprarle perché sarebbero state perfette per fare da zeppa tra le pezze di lana, che così non si sarebbero mosse dentro il container durante il viaggio verso Lagos. Le voleva in tutti i modi, le mie pezze di Serengeti. Mi avrebbe offerto anche 550 lire al chilo, se gliele vendevo tutte. Anche 600.
L' autore ha recentemente pubblicato "Storia della mia gente", un viaggio nella crisi dell' industria tessile toscana - EDOARDO NESI
di Edoardo Nesi
da la Repubblica — 08 ottobre 2010
Pochi mesi prima che vendessi l' azienda della mia famiglia, un pomeriggio si presentò in portineria il primo stocchista nigeriano della nostra storia. Gigantesco ed elegantissimo in una di quelle loro lunghe vesti colorate, sorrise e chiese in un perfetto italiano di vedere lo stock. Carmine, il nostro magazziniere letterario, gli mostrò subito il pianale delle pezze di Serengeti.
Quando il nigeriano disse che era molto interessato a comprarle tutte, Carmine venne di corsa a chiamarmi in sala campionario. Il Serengeti era un articolo finissimo di cotone per camiceria, che avevamo iniziato a produrre qualche anno prima per riempire i terrificanti, improvvisi vuoti di produzione lasciati in tessitura dal nostro tradizionale cardato di lana. Riuscimmo a venderlo a un grande stilista italiano, che ci dette dei suoi disegni esclusivi da riprodurre in fantasie elegantissime da realizzare in sfumature cipriate di azzurrie grigi che tingemmo in piccoli crogiuoli alchemici con un lavoro certosino.
Fu un bel momento quando vidi le camicie fatte col Serengeti in vendita a 400 dollari nelle vetrine della boutique di Madison Avenue di questo grande stilista, anche se dovetti impedirmi di ricordare che il tessuto glielo vendevamo a 14.000 lire al metro,e per fare una camicia ci vuole, suppergiù, un metro di tessuto.
Purtroppo, per accidenti vari, ogni anno qualche pezza di Serengeti ci rimaneva in magazzino e diventava assolutamente invendibile: il grande stilista non le voleva più perché ogni anno doveva cambiare disegno, gli altri clienti non le volevano perché era riconoscibile il disegno del grande stilista, e gli stocchisti italiani non si avvicinavano nemmeno alle pezze di cotone. Quando entrai in sala campionario e strinsi la mano al nigeriano, capii subito che era davvero interessato.
Gli raccontai che col Serengeti venivano cucite le camicie di uno degli stilisti più noti al mondo, e gli dissi anche il nome. Vantai la finezza del filato, la delicatezza dei colori, la rifinizione morbida eppure lucente, la ricchezza della mano del Serengeti. Poi, in un soffio, dal chimerico prezzo di listino di 14.000 lire calai a 3.000. Il nigeriano alzò lo sguardo dal tessuto e disse subito che per lui era troppo, però continuava a sembrarmi davvero interessato. Non è una sensazione facile da spiegare, ma dopo aver passato anni a fare trattative ogni giorno, te ne accorgi se uno vuole fare affari o solo farti perdere tempo. Gli chiesi quanto poteva pagare. Il nigeriano rispose 500 lire, il che era davvero pochissimo, nulla. Carmine sbuffò, irritato. Poi il nigeriano precisò. Naturalmente, 500 lire al chilo.
Poiché il Serengeti pesava poco più di 100 grammi al metro, il nigeriano mi stava offrendo circa 50 lire al metro. Rimasi in silenzio, pensando al Made in Italy, mentre lui mi spiegava che aveva fermo al porto di La Spezia un container da 40 piedi già quasi completamente riempito di pezze di lana che doveva partire il giorno dopo per Lagos, e lo spedizioniere gli aveva detto che il viaggio era molto lungo e durante la navigazione c' era il rischio che le pezze di lana si muovessero dentro al container, e che il tessuto si potesse rovinare.
Lo sguardo di Carmine si fece vitreo, aveva capito prima di me. Il nigeriano aggiunse che non aveva mai sentito nominare questo signor stilista di cui gli avevo parlato. Mai, nemmeno una volta. Disse che le mie pezze di cotone avevano un diametro minore delle pezze di lana che aveva già comprato, e lui voleva comprarle perché sarebbero state perfette per fare da zeppa tra le pezze di lana, che così non si sarebbero mosse dentro il container durante il viaggio verso Lagos. Le voleva in tutti i modi, le mie pezze di Serengeti. Mi avrebbe offerto anche 550 lire al chilo, se gliele vendevo tutte. Anche 600.
L' autore ha recentemente pubblicato "Storia della mia gente", un viaggio nella crisi dell' industria tessile toscana - EDOARDO NESI
Fine del Made in Italy e deindustrializzazione in Italia
Stilinga è stata molto colpita dal seguente articolo che fotografa la situazione di deindustrializzazione dell'Italia e la fine del Made in Italy:
Chi ha fermato l' Italia dei telai
Maurizio Crosetti
da la Repubblica — 08 ottobre 2010
Tutto questo ferro immobile, morto. Quintali, tonnellate di cadaveri arrugginiti. Tutto questo ferro inutile, da glorioso che era: il ferro dei filatoi migliori al mondo, il meraviglioso fuso dell' alta moda italiana, il ciclopico ago con il quale i più grandi stilisti tessevano bellezza, reddito, eleganza, sogni.
Ma Biella s' è ferita, come la Bella Addormentata. E nessun principe passa più di qui, sulla statale che da Cossato punta verso "la città della lana". Solo gli autocarri sfiorano i capannoni deserti, le fabbriche sprangate.
Scatole vuote, telai da buttare. Fino a qualche anno fa, li compravano i turchi e i cinesi, ma adesso sono più ricchi di noi e vogliono l' ultimo grido tecnologico: il filatoio usato possiamo pure tenercelo. Dunque, non resta che rottamare. Non resta che svendere un tanto al chilo (quindici centesimi, una miseria) l' antica ricchezza. «Conviene di più spaccare il vecchio filatoio, l' ho fatto anch' io».
Il signor Vincenzo Monteleone è un giovanotto di ottantacinque anni. La sua azienda, la "Monteleone Group" di Valle Mosso, revisiona, smonta e rivende macchinari tessili. Ma qualche volta li rottama, sempre più spesso. «C' è chi non vuole cederli alla concorrenza, per non rinforzarla. Bisogna accettarlo: il tessile italiano scomparirà. Io l' ho capito in trattoria, dove non trovo più una sola tovaglia di cotone, ormai è tutta carta, il "tessuto non tessuto". Ci salva un po' la qualità, con gli abiti, ma sempre meno».
Alle aziende in crisi (nel Biellese, nel 2009 ne sono scomparse 142) non resta che prendere a martellate le macchine inservibili, e metterle sulla bilancia del ferrovecchio. «Si ricavano 150 euroa tonnellata, una scemenza, ma almeno ci si libera dall' ingombro. Le nostre macchine sono del tutto superate, neanche nel terzo mondo le vogliono più. Quando si rottama un telaio, bisogna stare attenti alle parti in rame e ottone, che possono valere mille euro a tonnellata, e poi si dà tutto al raccoglitore di rottami».
Il signor Vincenzo non la fa tanto romantica, gliel' ha insegnato la vita. «Un giorno i tedeschi vennero a prendermi a scuola e mi deportarono in Polonia, poi sono tornato ma non mi faccia ricordare». Dentro quel ferro morto ci sono le storie delle persone, generazioni di fatiche e sacrifici. C' è l' eco di un rumore lontano, il baccano che fa il lavoro quando si muove e mantiene famiglie, e strizza sudore dai panni. Poi cala questo silenzio di morte. «Chi prova a smontare un vecchio filatoio per rimontarlo altrove, spesso non si paga neanche le spese».
Giancarlo Lorenzi, sindacalista, segretario della Femca Cisl, ormai racconta vicende che sembrano fatte solo di epiloghi. «Dieci anni di crisi durissima, migliaia di posti di lavoro perduti, altri per fortuna mantenuti o spostati, e almeno tremila persone a spasso. In Cina non comprano più il nostro usato, neanche danno più lavoro ai nostri tecnici, gente con una manualità e un' esperienza spaventose. Una sapienza delle mani che andrà perduta ed è un' altra tragedia, come sempre quando finisce un mestiere. La possibile salvezza, per le piccole aziende, è mettersi insieme, però spesso le famiglie degli imprenditori non vogliono, saltano fuori vecchie rivalità e un assurdo orgoglio, preferiscono affondare una dopo l' altra».
Tra le province italiane a più alto reddito, la discreta e periferica Biella è anche in testa alle classifiche dei suicidi. Quando la luce del lavoro si spegne di colpo, c' è chi affonda in quel buio. Ottomila posti perduti in sei anni sono una ferita enorme, intanto la gente invecchia, in fabbrica non va più nessuno e molti vengono cacciati. Eppure, l' alta moda continua a filare, e sfilare. Una pubblicità informa che Loro Piana di Borgosesia, la Ferrari dei vestiti, ora tesse anche il fiore di loto. «Bisogna inventare, farsi venire le idee», racconta Luciano Donatelli, presidente dell' Unione Industrale biellese. «Ma per salvare il nostro tessile, servono almeno 250 milioni di euro». Lui, con la sua azienda si è messo a produrre tessuti per l' industria navale, interni di barche e indumenti. Oppure Piergiacomo Beretta, imprenditore di Crevacuore: per non annegare ha fatto arrampicare sui vetri la sua Yanga, micro azienda con nove dipendenti; ha iniziato a creare bende mediche sempre più sofisticate, fino a ideare il tessuto che la Nasa ha scelto per le tute degli astronauti: «Prima - racconta - eravamo in tre al mondo a fare bende tubolari, poi sono arrivati i cinesi. Sono i nostri nemici? Lo è anche il governo: senza balzelli e burocrazia, non dovremmo temere la concorrenza». E c' è chi, come Gianfranco De Martini, presidente della Camera di Commercio, ha fatto fortuna con il tessuto dei pennarelli, rivoluzionando i macchinari e facendo una spietata concorrenza ai giapponesi: «Ma pensare di smontare e rivendere un nostro vecchio telaio chissà dove, a volte, è come pretendere di far vivere una tigre al Polo Nord». Forse Biella ha ancora stoffa. Diversificare, innovare. Parole magiche, ma come ci si arriva? «Qui non sarà mai più come prima», risponde Paolo Zegna, altro grande nome del settore. «Biella non potrà essere solo comparto tessile, bisogna puntare sul turismo». Compreso quello commerciale, verso gli outlet dove comprare giacche e maglioni di qualità, senza svenarsi. Ne sorgono già molti, dentro una campagna piatta come la linea del mancato sviluppo. Ed è il paesaggio che racconta la storia di un declino.I capannoni abbandonati della Val Sessera, da Valle Mosso verso Trivero e Borgosesia. Qui la terra s' increspa nelle antiche colline, dove un' acqua particolarmente dolce permetteva di lavare i velli delle pecore usando poco detersivo, e spingeva le macchine ora rottamate con la sua forza trasparente. «Anche a me è successo di vendere qualche macchinario un tanto al chilo».
Rodolfo Botto, titolare della "Giuseppe Botto & figli" di Valle Mosso, racconta che un mondo cambia e il resto procede per trascinamento. «Si vive di corsa e ci si veste di corsa, indossando capi che non si stropicciano in viaggio, si lavano al volo e magari non si stirano. Così i telai devono essere flessibili per produrre tessuti diversi, mentre una volta contavano solo la quantità e la velocità. La tecnologia invecchia in fretta, come tutto, e tutto dura un attimo». I suoi tessuti oggi si chiamano "liquid wool", oppure "ice cold",o anche "multicontrol weather", le parole cambiano prima e insieme alla cose. Per andare dove? Forse per arrivare qui, sulla strada da Quaregna a Biella. Il triste itinerario parte dall' ipermercato Esselunga, costruito sulle macerie dell' ex Filatura Safil, chiusa nel 2003.
In due chilometri di rettilineo si incontrano le cancellate mangiate dalla ruggine, le serrande mezze spaccate e sempre abbassate, le catene e i portoni mortalmente chiusi di quelle che furono le aziende Smeraldo (l' addio nel 2003, 90 dipendenti), Bocchietto (2002, 100 dipendenti), Fratelli Suppa (2006, 50 dipendenti), Tintoria Leone (2009, 60 dipendenti in piccola parte trasferiti a Sandigliano), Botto Luigi (2005, 150 dipendenti), Eurofili (2006, 110 dipendenti). Ogni nome una lapide, ogni storia un verso di questa Spoon River sulla via delle lane perdute. Eppure, non tutto è cimitero. Anche se assomiglia a una tomba il muro perimetrale della ex Fraver di Quaregna (2005, 207 dipendenti), la fabbrica che abbraccia il paese e in parte lo ingloba, dentro c' è persino la scuola elementare Avogadro e lì accanto un minuscolo parco giochi, senza l' ombra di un bambino. Ma sul portone, un foglio di carta spiega dove spedire le domande di lavoro e i curricula per la nuova Manuex Srl. Cioè l' azienda che lavorerà per l' Ikea e che apriranno proprio qui dentro, nei capannoni vuoti, con duecento operai, e altre 600 persone dell' indotto potranno salire su quello che è il primo carro a ripartire dopo il terribile decennio dei mestieri perduti. La Manuex produrrà cerniere, viti, bulloni, e cinque milioni di cassetti: da riempire, finalmente. Tra meno di un anno si comincia. Non tutti i pezzi delle storie si rottamano.
MAURIZIO CROSETTI
Chi ha fermato l' Italia dei telai
Maurizio Crosetti
da la Repubblica — 08 ottobre 2010
Tutto questo ferro immobile, morto. Quintali, tonnellate di cadaveri arrugginiti. Tutto questo ferro inutile, da glorioso che era: il ferro dei filatoi migliori al mondo, il meraviglioso fuso dell' alta moda italiana, il ciclopico ago con il quale i più grandi stilisti tessevano bellezza, reddito, eleganza, sogni.
Ma Biella s' è ferita, come la Bella Addormentata. E nessun principe passa più di qui, sulla statale che da Cossato punta verso "la città della lana". Solo gli autocarri sfiorano i capannoni deserti, le fabbriche sprangate.
Scatole vuote, telai da buttare. Fino a qualche anno fa, li compravano i turchi e i cinesi, ma adesso sono più ricchi di noi e vogliono l' ultimo grido tecnologico: il filatoio usato possiamo pure tenercelo. Dunque, non resta che rottamare. Non resta che svendere un tanto al chilo (quindici centesimi, una miseria) l' antica ricchezza. «Conviene di più spaccare il vecchio filatoio, l' ho fatto anch' io».
Il signor Vincenzo Monteleone è un giovanotto di ottantacinque anni. La sua azienda, la "Monteleone Group" di Valle Mosso, revisiona, smonta e rivende macchinari tessili. Ma qualche volta li rottama, sempre più spesso. «C' è chi non vuole cederli alla concorrenza, per non rinforzarla. Bisogna accettarlo: il tessile italiano scomparirà. Io l' ho capito in trattoria, dove non trovo più una sola tovaglia di cotone, ormai è tutta carta, il "tessuto non tessuto". Ci salva un po' la qualità, con gli abiti, ma sempre meno».
Alle aziende in crisi (nel Biellese, nel 2009 ne sono scomparse 142) non resta che prendere a martellate le macchine inservibili, e metterle sulla bilancia del ferrovecchio. «Si ricavano 150 euroa tonnellata, una scemenza, ma almeno ci si libera dall' ingombro. Le nostre macchine sono del tutto superate, neanche nel terzo mondo le vogliono più. Quando si rottama un telaio, bisogna stare attenti alle parti in rame e ottone, che possono valere mille euro a tonnellata, e poi si dà tutto al raccoglitore di rottami».
Il signor Vincenzo non la fa tanto romantica, gliel' ha insegnato la vita. «Un giorno i tedeschi vennero a prendermi a scuola e mi deportarono in Polonia, poi sono tornato ma non mi faccia ricordare». Dentro quel ferro morto ci sono le storie delle persone, generazioni di fatiche e sacrifici. C' è l' eco di un rumore lontano, il baccano che fa il lavoro quando si muove e mantiene famiglie, e strizza sudore dai panni. Poi cala questo silenzio di morte. «Chi prova a smontare un vecchio filatoio per rimontarlo altrove, spesso non si paga neanche le spese».
Giancarlo Lorenzi, sindacalista, segretario della Femca Cisl, ormai racconta vicende che sembrano fatte solo di epiloghi. «Dieci anni di crisi durissima, migliaia di posti di lavoro perduti, altri per fortuna mantenuti o spostati, e almeno tremila persone a spasso. In Cina non comprano più il nostro usato, neanche danno più lavoro ai nostri tecnici, gente con una manualità e un' esperienza spaventose. Una sapienza delle mani che andrà perduta ed è un' altra tragedia, come sempre quando finisce un mestiere. La possibile salvezza, per le piccole aziende, è mettersi insieme, però spesso le famiglie degli imprenditori non vogliono, saltano fuori vecchie rivalità e un assurdo orgoglio, preferiscono affondare una dopo l' altra».
Tra le province italiane a più alto reddito, la discreta e periferica Biella è anche in testa alle classifiche dei suicidi. Quando la luce del lavoro si spegne di colpo, c' è chi affonda in quel buio. Ottomila posti perduti in sei anni sono una ferita enorme, intanto la gente invecchia, in fabbrica non va più nessuno e molti vengono cacciati. Eppure, l' alta moda continua a filare, e sfilare. Una pubblicità informa che Loro Piana di Borgosesia, la Ferrari dei vestiti, ora tesse anche il fiore di loto. «Bisogna inventare, farsi venire le idee», racconta Luciano Donatelli, presidente dell' Unione Industrale biellese. «Ma per salvare il nostro tessile, servono almeno 250 milioni di euro». Lui, con la sua azienda si è messo a produrre tessuti per l' industria navale, interni di barche e indumenti. Oppure Piergiacomo Beretta, imprenditore di Crevacuore: per non annegare ha fatto arrampicare sui vetri la sua Yanga, micro azienda con nove dipendenti; ha iniziato a creare bende mediche sempre più sofisticate, fino a ideare il tessuto che la Nasa ha scelto per le tute degli astronauti: «Prima - racconta - eravamo in tre al mondo a fare bende tubolari, poi sono arrivati i cinesi. Sono i nostri nemici? Lo è anche il governo: senza balzelli e burocrazia, non dovremmo temere la concorrenza». E c' è chi, come Gianfranco De Martini, presidente della Camera di Commercio, ha fatto fortuna con il tessuto dei pennarelli, rivoluzionando i macchinari e facendo una spietata concorrenza ai giapponesi: «Ma pensare di smontare e rivendere un nostro vecchio telaio chissà dove, a volte, è come pretendere di far vivere una tigre al Polo Nord». Forse Biella ha ancora stoffa. Diversificare, innovare. Parole magiche, ma come ci si arriva? «Qui non sarà mai più come prima», risponde Paolo Zegna, altro grande nome del settore. «Biella non potrà essere solo comparto tessile, bisogna puntare sul turismo». Compreso quello commerciale, verso gli outlet dove comprare giacche e maglioni di qualità, senza svenarsi. Ne sorgono già molti, dentro una campagna piatta come la linea del mancato sviluppo. Ed è il paesaggio che racconta la storia di un declino.I capannoni abbandonati della Val Sessera, da Valle Mosso verso Trivero e Borgosesia. Qui la terra s' increspa nelle antiche colline, dove un' acqua particolarmente dolce permetteva di lavare i velli delle pecore usando poco detersivo, e spingeva le macchine ora rottamate con la sua forza trasparente. «Anche a me è successo di vendere qualche macchinario un tanto al chilo».
Rodolfo Botto, titolare della "Giuseppe Botto & figli" di Valle Mosso, racconta che un mondo cambia e il resto procede per trascinamento. «Si vive di corsa e ci si veste di corsa, indossando capi che non si stropicciano in viaggio, si lavano al volo e magari non si stirano. Così i telai devono essere flessibili per produrre tessuti diversi, mentre una volta contavano solo la quantità e la velocità. La tecnologia invecchia in fretta, come tutto, e tutto dura un attimo». I suoi tessuti oggi si chiamano "liquid wool", oppure "ice cold",o anche "multicontrol weather", le parole cambiano prima e insieme alla cose. Per andare dove? Forse per arrivare qui, sulla strada da Quaregna a Biella. Il triste itinerario parte dall' ipermercato Esselunga, costruito sulle macerie dell' ex Filatura Safil, chiusa nel 2003.
In due chilometri di rettilineo si incontrano le cancellate mangiate dalla ruggine, le serrande mezze spaccate e sempre abbassate, le catene e i portoni mortalmente chiusi di quelle che furono le aziende Smeraldo (l' addio nel 2003, 90 dipendenti), Bocchietto (2002, 100 dipendenti), Fratelli Suppa (2006, 50 dipendenti), Tintoria Leone (2009, 60 dipendenti in piccola parte trasferiti a Sandigliano), Botto Luigi (2005, 150 dipendenti), Eurofili (2006, 110 dipendenti). Ogni nome una lapide, ogni storia un verso di questa Spoon River sulla via delle lane perdute. Eppure, non tutto è cimitero. Anche se assomiglia a una tomba il muro perimetrale della ex Fraver di Quaregna (2005, 207 dipendenti), la fabbrica che abbraccia il paese e in parte lo ingloba, dentro c' è persino la scuola elementare Avogadro e lì accanto un minuscolo parco giochi, senza l' ombra di un bambino. Ma sul portone, un foglio di carta spiega dove spedire le domande di lavoro e i curricula per la nuova Manuex Srl. Cioè l' azienda che lavorerà per l' Ikea e che apriranno proprio qui dentro, nei capannoni vuoti, con duecento operai, e altre 600 persone dell' indotto potranno salire su quello che è il primo carro a ripartire dopo il terribile decennio dei mestieri perduti. La Manuex produrrà cerniere, viti, bulloni, e cinque milioni di cassetti: da riempire, finalmente. Tra meno di un anno si comincia. Non tutti i pezzi delle storie si rottamano.
MAURIZIO CROSETTI
SE QUESTO E' AMORE...COS'E' L'ODIO?
Troppo spesso ci si sente ripetere, dopo che i cari amici, gli amanti, i fidanzati e i congiunti ci hanno tirato una badilata di schifezze metaforiche addosso (ma il dolore e lo sconcerto è tangibile e dentro qualcosa si rompe di brutto) che essi si sono sentiti di tirarci addosso la di sopra badilata per puro amore!
"Perchè ti voglio bene...solo per questa ragione!"
Cioè? che concetto d'amore è questo? prima ti schiaccio come un mozzicone finito di sigaretta, in modo che pure il fumo finisca e poi ti dico che è solo per amore che ti sto spegnendo! e concetti come RISPETTO? DIGNITA'? significano qualcosa?
Costoro sono sadici e noi che subiamo (siamo in tanti) rimaniamo lì, con lo sguardo assente, ci proiettiamo fuori dal nostro corpo e non ci pare vero di aver udito quello che ci stanno ancora dicendo!
Roba da pazzi! eppure quanti odiandoci (perchè è ODIO, se fosse amore ci sentiremmo amati, appunto, non distrutti) indossano la maschera ipocrita dell'amore, ma andassero a fare le scene il più lontano possibile!
La soluzione unica ed evidente è SCAPPARE da questi mostruosi personaggi che tale concezione di amore/odio hanno nel cuore, per sopravvivere e per resettare il cervello, il carattere e per rafforzare l'intuito e la sensibilità e infine per evitare per sempre che tali TSUMANI disumani si abbattino su di noi.
Mai e poi mai accadrà di nuovo! se li incontri una volta ti vaccini per sempre e non ci cadi più! anzi dopo aver attraversato deserti e aver patito la fame e l'arsura, ad un certo punto diventi forte e la tua forza ti porterà molto lontano, addirittura supererai sorprendentemente ogni futura diatriba, ribbattendo lucidamente in tempo, ed eviterai di rimanere lì sconcertato e fuori dal tuo corpo, ma rientrerai in forza nel tuo IO PIU' PURO e VERO e romperai le catene e coloro che sono pronti a riversarti la solita badilata di schifezze addosso, li fermerai in tempo, li lascerai come salami, pietrificati ed essi stessi inizieranno, barcollanti e stonati, ad attraversare il deserto, che gli avrai indicato tu, fornendogli pure la cartina sbagliata perchè si perdano e lo faranno vedendosi allo specchio, che gli avrai sempre dato tu affinchè si rimirino per farsi schifo durante un viaggio che speri duri più del tuo e che forse (non è valido però per tutti, alcuni sono degli zoticoni indomiti) li trasformerà in esseri umani.
Per approfondire: "Come Eliminare i Rompiballe e Vivere Felici. Manuale di sopravvivenza" di Lilian Glass
"Perchè ti voglio bene...solo per questa ragione!"
Cioè? che concetto d'amore è questo? prima ti schiaccio come un mozzicone finito di sigaretta, in modo che pure il fumo finisca e poi ti dico che è solo per amore che ti sto spegnendo! e concetti come RISPETTO? DIGNITA'? significano qualcosa?
Costoro sono sadici e noi che subiamo (siamo in tanti) rimaniamo lì, con lo sguardo assente, ci proiettiamo fuori dal nostro corpo e non ci pare vero di aver udito quello che ci stanno ancora dicendo!
Roba da pazzi! eppure quanti odiandoci (perchè è ODIO, se fosse amore ci sentiremmo amati, appunto, non distrutti) indossano la maschera ipocrita dell'amore, ma andassero a fare le scene il più lontano possibile!
La soluzione unica ed evidente è SCAPPARE da questi mostruosi personaggi che tale concezione di amore/odio hanno nel cuore, per sopravvivere e per resettare il cervello, il carattere e per rafforzare l'intuito e la sensibilità e infine per evitare per sempre che tali TSUMANI disumani si abbattino su di noi.
Mai e poi mai accadrà di nuovo! se li incontri una volta ti vaccini per sempre e non ci cadi più! anzi dopo aver attraversato deserti e aver patito la fame e l'arsura, ad un certo punto diventi forte e la tua forza ti porterà molto lontano, addirittura supererai sorprendentemente ogni futura diatriba, ribbattendo lucidamente in tempo, ed eviterai di rimanere lì sconcertato e fuori dal tuo corpo, ma rientrerai in forza nel tuo IO PIU' PURO e VERO e romperai le catene e coloro che sono pronti a riversarti la solita badilata di schifezze addosso, li fermerai in tempo, li lascerai come salami, pietrificati ed essi stessi inizieranno, barcollanti e stonati, ad attraversare il deserto, che gli avrai indicato tu, fornendogli pure la cartina sbagliata perchè si perdano e lo faranno vedendosi allo specchio, che gli avrai sempre dato tu affinchè si rimirino per farsi schifo durante un viaggio che speri duri più del tuo e che forse (non è valido però per tutti, alcuni sono degli zoticoni indomiti) li trasformerà in esseri umani.
Per approfondire: "Come Eliminare i Rompiballe e Vivere Felici. Manuale di sopravvivenza" di Lilian Glass
Nuova tendenza moda: MADE IN ITALY
Questo post è intitolato: "Nuova tendenza moda: MADE IN ITALY" e sembra un'ovvietà, ma purtroppo oggigiorno non lo è davvero.
Oramai, in seguito alla massiccia produzione cinese di abiti, calze, scarpe, pelletteria, etc. la vera novità che dovrebbe avere vita lunga, anzi lunghissima è il MADE IN ITALY.
E si badi bene, non il DESIGNED IN ITALY, ma il vero MADE: realizzato interamente in Italia.
I consumatori, soprattutto italiani, sono stanchi di comprare prodotti moda/abbigliamento che sono realizzati altrove, e non si è orgogliosi di comprare capi esteri, ma perchè noi italiani non siamo capaci a produrli? Non eravamo noi degnissimi produttori maestri nella moda?
E tutti i soggetti italiani che partecipavano alla nascita dei capi erano i primi ad essere orgogliosi e ad acquistarli!
E quindi nasce un vero bisogno: sapere con certezza che il capo di abbigliamento che compriamo è prodotto interamente in Italia e cioè prodotto in fabbriche italiane e che hanno dipendenti italiani, messi in regola e tutelati dalla legge (vero lavoro EQUO e SOLIDALE), e che ogni singolo dettaglio del prodotto è realizzato sulla penisola, includendo bottoni, zip, filo di cotone 100%, fodera, rinforzi interni, tessuto, etichetta, e pure il packaging.
Insomma, vera autarchia di moda per fare l'unica cosa che molti imprenditori non hanno fatto:
tutelare con orgoglio il nostro saper fare e questo significa anche produrre più lentamente e con materiali di sicura qualità, affinchè il capo di abbigliamento trasudi italianità e qualità italiana che non è solo nel progetto, ma nella scelta dei materiali, nella realizzazione e anche nell'aria che respirano coloro che lo hanno confezionato.
E' come se mangiassimo spaghetti al pomodoro con il parmigiano, ma gli spaghetti sono made in Usa (con quale grano? duro? tenero?), il pomodoro è olandese (!) ed il parmiggiano è parmesan, l'olio è messicano e l'aglio egiziano, il cuoco è cinese e però gli spaghetti li mangiamo in una città italiana, e li paghiamo pure cari! Saremmo soddisfatti a fine pasto? il gusto sarà stato identico al piatto interamente made in Italy? torneremo in quel ristorante a mangiare? Sarà stata vera dieta mediterranea?
Inoltre, in passato, l'asso nella manica di molti brand italiani erano proprio la forza lavoro, altamente specializzata e che insegnava davvero il mestiere anche agli stilisti, categoria che necessita notevole assistenza, soprattutto in fase realizzatrice, da parte di chi sa tramutare l'idea in prodotto e non solo, ma sa anche vedere oltre il capo finito e sa indirizzare l'ideatore verso il vero successo.
Da questo sodalizio è nata la moda italiana e invece siccome tale sodalizio si è via via sfilacciato, fino a scomparire, dando importanza solo al progetto - e però i nostri tecnici e le nostre macchine produttirici sono state inviate in Asia, per esempio, dove sono maestri nel copiare- e quindi si è perso, per primo il saper fare, poi i vari distretti regionali sono stati svuotati e il mercato interno si è impallato, in parte perchè disoccupazione significa commercio interno fermo e in parte perchè gli italiani sono inibiti dal compare brand realizzati altrove, in quanto c'è il sentore di non aver dato fiducia ai nostri lavoratori e di aver preferito la via furba: costo basso del lavoro, prezzo del prodotto alto come se fosse fatto in Italia.
Personalmente non ho piacere di favorire i cinesi e tanto meno qualsiasi altra produzione estera, perchè non è tutelata come la nostra, non lo sono gli operai e fa malissimo alla mia dignità di italiana.
Io ero orgogliosa di vestire bene ed italiano, era il mio vanto all'estero, mi distingueva dagli altri, inolte i miei abiti Made in Italy erano il frutto della nostra storia, cultura e arte e invece ora non sono orgogliosa di indossare capi delocalizzati, mi tolgono dignità, salute e benessere e non c'è marchio di moda che possa ridarmi la dignità, la salute e il benessere, soprattutto se la filiera non è certificata e se non è vero MADE IN ITALY.
Inoltre, quando viaggio all'estero non ho piacere a sapere e constatare che i capi di moda sono made in China, il 70% del gusto di viaggiare per scoprire moda nuova è perso, non voglio andare a Londra, a New York o ad Oslo e trovare prodotti made in China, non li compro, me ne sto alla larga, cerco autenticità del luogo e dei suoi manufatti, che dovrebbero esprimere la cultura particolare di quel luogo e questa espressione dovrebbe continuare ad affascianrmi una volta tornata a casa.
Il made in China è tutto tranne che autentico e non mi parla del posto che sto visitando, ma mi parla di fabbrica del mondo, di omogeneità, di costo basso del lavoro, di sfruttamento furbo, di container, di navi, di fretta produttiva, di roba usa e getta, di capitalismo sfrenato e senza limiti, di vecchio modo di fare, di una visione del mondo che non interpreta più la contemporaneità ma ancora non lo sa e fa finta che tutto sia come sempre...
Oramai, in seguito alla massiccia produzione cinese di abiti, calze, scarpe, pelletteria, etc. la vera novità che dovrebbe avere vita lunga, anzi lunghissima è il MADE IN ITALY.
E si badi bene, non il DESIGNED IN ITALY, ma il vero MADE: realizzato interamente in Italia.
I consumatori, soprattutto italiani, sono stanchi di comprare prodotti moda/abbigliamento che sono realizzati altrove, e non si è orgogliosi di comprare capi esteri, ma perchè noi italiani non siamo capaci a produrli? Non eravamo noi degnissimi produttori maestri nella moda?
E tutti i soggetti italiani che partecipavano alla nascita dei capi erano i primi ad essere orgogliosi e ad acquistarli!
E quindi nasce un vero bisogno: sapere con certezza che il capo di abbigliamento che compriamo è prodotto interamente in Italia e cioè prodotto in fabbriche italiane e che hanno dipendenti italiani, messi in regola e tutelati dalla legge (vero lavoro EQUO e SOLIDALE), e che ogni singolo dettaglio del prodotto è realizzato sulla penisola, includendo bottoni, zip, filo di cotone 100%, fodera, rinforzi interni, tessuto, etichetta, e pure il packaging.
Insomma, vera autarchia di moda per fare l'unica cosa che molti imprenditori non hanno fatto:
tutelare con orgoglio il nostro saper fare e questo significa anche produrre più lentamente e con materiali di sicura qualità, affinchè il capo di abbigliamento trasudi italianità e qualità italiana che non è solo nel progetto, ma nella scelta dei materiali, nella realizzazione e anche nell'aria che respirano coloro che lo hanno confezionato.
E' come se mangiassimo spaghetti al pomodoro con il parmigiano, ma gli spaghetti sono made in Usa (con quale grano? duro? tenero?), il pomodoro è olandese (!) ed il parmiggiano è parmesan, l'olio è messicano e l'aglio egiziano, il cuoco è cinese e però gli spaghetti li mangiamo in una città italiana, e li paghiamo pure cari! Saremmo soddisfatti a fine pasto? il gusto sarà stato identico al piatto interamente made in Italy? torneremo in quel ristorante a mangiare? Sarà stata vera dieta mediterranea?
Inoltre, in passato, l'asso nella manica di molti brand italiani erano proprio la forza lavoro, altamente specializzata e che insegnava davvero il mestiere anche agli stilisti, categoria che necessita notevole assistenza, soprattutto in fase realizzatrice, da parte di chi sa tramutare l'idea in prodotto e non solo, ma sa anche vedere oltre il capo finito e sa indirizzare l'ideatore verso il vero successo.
Da questo sodalizio è nata la moda italiana e invece siccome tale sodalizio si è via via sfilacciato, fino a scomparire, dando importanza solo al progetto - e però i nostri tecnici e le nostre macchine produttirici sono state inviate in Asia, per esempio, dove sono maestri nel copiare- e quindi si è perso, per primo il saper fare, poi i vari distretti regionali sono stati svuotati e il mercato interno si è impallato, in parte perchè disoccupazione significa commercio interno fermo e in parte perchè gli italiani sono inibiti dal compare brand realizzati altrove, in quanto c'è il sentore di non aver dato fiducia ai nostri lavoratori e di aver preferito la via furba: costo basso del lavoro, prezzo del prodotto alto come se fosse fatto in Italia.
Personalmente non ho piacere di favorire i cinesi e tanto meno qualsiasi altra produzione estera, perchè non è tutelata come la nostra, non lo sono gli operai e fa malissimo alla mia dignità di italiana.
Io ero orgogliosa di vestire bene ed italiano, era il mio vanto all'estero, mi distingueva dagli altri, inolte i miei abiti Made in Italy erano il frutto della nostra storia, cultura e arte e invece ora non sono orgogliosa di indossare capi delocalizzati, mi tolgono dignità, salute e benessere e non c'è marchio di moda che possa ridarmi la dignità, la salute e il benessere, soprattutto se la filiera non è certificata e se non è vero MADE IN ITALY.
Inoltre, quando viaggio all'estero non ho piacere a sapere e constatare che i capi di moda sono made in China, il 70% del gusto di viaggiare per scoprire moda nuova è perso, non voglio andare a Londra, a New York o ad Oslo e trovare prodotti made in China, non li compro, me ne sto alla larga, cerco autenticità del luogo e dei suoi manufatti, che dovrebbero esprimere la cultura particolare di quel luogo e questa espressione dovrebbe continuare ad affascianrmi una volta tornata a casa.
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