Calzature italiane: 1° semestre 2016 ancora difficile. Frenano USA e Medio Oriente


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La voglia di rilancio che si respira al salone internazionale della calzatura theMICAM (in corso a Rho fieramilano con 1.478 aziende presenti, 827 italiane) cozza con le persistenti criticità evidenziate dai dati del 1° semestre 2016 del settore calzaturiero.

Secondo l’indagine realizzata dal Centro Studi di Assocalzaturifici si addensano infatti nuove nubi all’orizzonte per il comparto delle calzature. Innanzitutto sul versante occupazionale: la voce “calzaturifici” registra ancora a fine giugno un timido recupero nel numero di addetti rispetto a dicembre (+397 tra industria e artigianato, pari al +0,5%), ma allargando l’analisi anche ai produttori di componentistica il saldo per “calzature+parti” diventa negativo (-220 addetti, pari a un -0,2%).

Continua poi la selezione tra le imprese, il cui numero è nuovamente in calo. Considerando solo i calzaturifici (esclusa la componentistica), nel 1° semestre 2016 ci sono 59 aziende in meno rispetto a dicembre 2015, pari al -1,2%, e +397 addetti (pari al +0,5%). Calzaturifici+componentistica registrano invece -104 aziende rispetto a dicembre 2015, pari al -0,9%, e -220 addetti (pari al -0,2%), con -804 addetti nelle Marche, pari al -2,8% e -83 addetti in Emilia Romagna (-1,6%).
 
Forte aumento delle richieste di Cassa Integrazione Guadagni: +27,2% le ore autorizzate nei primi 7 mesi 2016 (con +48% per la CIG straordinaria). In particolare, Emilia Romagna +123%, Toscana +69%, Campania +44%, Veneto +34%, Marche +25%. Le Marche si confermano di gran lunga la regione col maggior numero di ore autorizzate (3,8 milioni) e sono la regione con la maggior crescita in termini assoluti (+774mila ore).

La CIG attuale è quasi doppia se raffrontata sui primi 7 mesi 2008 (pre-crisi); nelle Marche le ore sono oltre tre volte e mezzo rispetto ad allora (+284%) e più che triple anche in Emilia Romagna (+219%).Per quanto riguarda la produzione (indagine a campione tra gli Associati), essa nel primo semestre del 2016 ha registrato un calo del 2% in volume e una stabilità in valore (+0,1%).

Da oltre 8 anni poi, i consumi delle famiglie italiane diminuiscono in quantità. Il calo è meno elevato, ma non c'è ancora nessun segno di inversione. Nel 1° semestre del 2016 essi sono stati del -0,7% in quantità e del -2,3% in spesa.
 
Le cifre diffuse dall’Istat, relative all’export italiano di calzature nei primi cinque mesi del 2016 indicano un -0,7% in quantità e un +4,1% come valore.

Tiene nel complesso l’Unione Europea a 28, dove l'Italia vende sette scarpe su dieci esportate: -0,7% in volume, malgrado il -5,7% della Francia, con un +2,5% della Germania e un +15,3% dei Paesi Bassi.

Si ferma la caduta nella CSI (+3,2% in quantità, grazie a Russia +4,7% e Ucraina +45,4%, mentre per il Kazakistan ancora -17%), a fronte però di un calo di oltre il 12% dei prezzi medi (e quindi in valore, che scende ancora del -9,6%).
 Recuperi in volume, quelli in Russia e Ucraina, ovviamente per ora assolutamente limitati, dal momento che le vendite rimangono decisamente inferiori rispetto ai primi 5 mesi di due anni fa (-30% in quantità e -40% in valore per entrambi i mercati).
Rallentano la corsa, come largamente previsto, gli USA (+0,1% a volume e +0,5% a valore), con una frenata del 10% in quantità nel bimestre aprile-maggio.

Segni positivi nel Far East (+3% in quantità e +8,3% in valore nell’insieme), benché meno premianti a confronto col recente passato.

La Cina fa un +3,8% in quantità; Hong Kong un +4,8%: assieme sono il 5° mercato in valore per le scarpe d'Italia.

La Sud Corea, dopo gli exploit degli ultimi anni, frena in quantità (-1,6%) ma fa +12% in valore. Il Giappone recupera nel bimestre aprile-maggio chiudendo il cumulato dei primi 5 mesi con un +2,3% volume e un +8,6% valore che inverte il trend negativo dell’ultimo triennio.Male invece il Medio Oriente (-11,3% in quantità, con flessioni in Emirati e Arabia nell’ordine del 20% in volume).
 
Le importazioni italiane nei primi 5 mesi del 2016 sono invece cresciute del 5,7% in quantità e del 7,3% in valore.

 
Il saldo commerciale del settore nei primi 5 mesi del 2016 registra un attivo pari a 1.611,6 milioni di euro (+0,4% sui primi 5 mesi del 2015).

Produzione industriale, i numeri di un disastro che non ha precedenti

Dal dopoguerra non s’era mai visto un crollo come quello degli anni scorsi. E con Renzi? L’indice in ventotto mesi è passato da 91,6 a 91,8: l’Italia non riparte
Di Alberto Bagnai
Due elettori mediani commentano il fatto politico del giorno: “Hai visto che scandalo? Poi dicono che c’è la crisi! Ma il problema è che se sò magnatitutto…”. L’amico, sconsolato: “Che ci vuoi fare: ogni popolo ha i politici che si merita…”. Su queste parole i due si congedano, ebbri di assolutoriaautocommiserazione. Ognuno di noi ha assistito a simili siparietti. Qualcuno invece potrebbe essersi perso un fatto che apparentemente non ha nulla a che vedere con quanto precede. Il 5 agosto scorso, alle 12:19, l’Ansa ha twittato: “Istat, economia frena, meglio ultimi mesi”. Frenare, in italiano, significa diminuire la propria velocità. Letto così, il lancio sembrerebbe indicare che l’economia italiana cresca di meno (freni), ma che negli ultimi mesi la situazione stia migliorando (cioè si stia tornando a crescere di più). Nei dati leggiamo che a giugno l’indice della produzione industriale (Ipi) è diminuito dello 0,4%, mentre a maggio la diminuzione era stata dello 0,6%.
L’Ansa ha ragione: la velocità dell’economia italiana è diminuita. Quindi tutto bene? Non me ne voglia l’agenzia di stampa, ma direi di no. Non stiamo andando “meglio” (crescendo di più): stiamo andando “meno peggio” (diminuendo di meno). Non stiamo frenando: stiamo andando amarcia indietro, e questa non è una sfumatura, ma un fallimento epocale.
Renzi è in carica dal febbraio 2014, quando l’indice della produzione industriale era a 91,6. Ventotto mesi dopo l’indice è a 91,8: un aumento dello 0,2%, e questo mentre l’Unione Europea, nostro principale cliente, è ripartita, passando dall’1,4% al 2% di crescita fra 2014 e 2015. Certo, nessuno si aspetta che oggi la produzione industriale possa raddoppiare in un decennio, come al tempo del miracolo economico (fra 1955 e 1965), con un paese da ricostruire. Ma il -18% del decennio 2005-2015 è una catastrofe senza precedenti.
Negli ultimi 64 anni le due annate più infauste per l’Ipi sono state il 2009 (-19%) e il 1975 (-9%). La terza ce l’ha regalata Monti (-6% nel 2012), riportando l’indice ai valori di 26 anni prima (ma questo i media ce l’hanno taciuto, vantando i successi delle “riforme”). Da quando siamo nell’euro, un anno su due è stato in rosso (ci verrebbe un bel titolo, che nessun giornale ha mai scritto).
Le recessioni, naturalmente, ci sono sempre state: il problema è che oggi non ci sono le riprese. Questo non è un caso: è il cambio rigido, che in caso di crisi costringe a tagliare i salari per recuperare competitività. Rendere i lavoratori ricattabili col Jobs act facilita il compito. Incassata questa “riforma” la Confindustria ricambia il favore al governo: i suoi economisti elogiano la riforma costituzionale, con uno studio sbriciolato daMassimiliano Tancioni sul “Menabò di etica ed economia” (cosa che la stampa allineata non credo vi abbia detto). Quanto agli industriali, poverini, loro proprio non arrivano a capire che dipendenti sottopagati sono clienti col braccino corto: distruggere il mercato interno per inseguire quello estero non è una buona idea, e il fallimento di Renzi è tutto in questa frase (che lui non capirebbe, e che chi lo circonda, occupato a mettersi in salvo, non ha tempo di spiegargli).
I danni dell’euro sono ormai conclamati. L’ultimo rapporto sui mercati esteri del Fondo monetario internazionale, pubblicato il 27 luglio, è cristallino: a 17 anni dall’adozione, l’euro è ancora troppo forte di circa il 5% per Italia e Francia, e troppo debole di circa il 15% per la Germania (nessun giornale italiano ve l’ha detto, ma ai francesi ne ha parlato il Figaro). Non a caso il 29 aprile il dipartimento del Tesoro americano ha messo la Germania nella lista dei manipolatori di valute (cosa che avete letto solo qui). I nostri media, però, continuano tetragoni a ripeterci che ci siamo scelti degli ottimi compagni di strada (sarebbero quelli della Volkswagen, per capirci), e che se non ce la facciamo è colpa nostra.
Il grafico è eloquente: gli episodi di contrazione prolungata dell’Ipi sono tre, e coincidono con l’entrata nel Sistema Monetario Europeo (inizio degli anni ’80), con il suo irrigidimento (inizio degli anni ’90) e con l’entrata nell’euro (dal 1999). È naturale che in un paese esportatore come il nostro l’eccessiva rigidità del cambio porti con sé de-industrializzazione. Porta anche accresciuta mobilità dei capitali, che fa molto comodo all’industria finanziaria. Insomma: alle banche.
Come dimostra Luigi Zingales sul blog dell’Università di Chicago, queste controllano in vari modi i giornali, con l’unica eccezione del Fatto Quotidiano (ipse dixit). Sarà per questo che qui ogni tanto trovate notizie non allineate. Torno al punto: per scegliere bene i politici, gli elettori hanno bisogno di informazioni corrette, senza le quali la democrazia non funziona.
Se siamo nei guai, quindi, non è solo per colpa dei politici che ci siamo scelti noi (e che quindi ci meriteremmo), ma anche per colpa dei media che ci hanno scelto le banche (e che forse non ci meritiamo). Non è insomma colpa loro se, bombardati dal messaggio che “va tutto bene”, gli italiani non riescono a scegliere politici che facciano anche i loro interessi, e non solo quelli della finanza internazionale. Parafrasando Brecht: “Sventurata lademocrazia che ha bisogno di blogger”.

Il governo Renzi sa come farsi odiare...

Il governo Renzi sa davvero come darsi la zappa sui piedi e farsi lungamente odiare e disprezzare: dalla questione delle Banche (Etruria in primis e le altre) al papocchio incasinato delle assunzioni dei precari della scuola si apprezza il totale cinismo impastato di cattiveria distillata e gratuita che non solo il capo ma anche tutti i suoi ministri esprimono contro il popolo italiano.

E ci risiamo!

Odiare i cittadini e conterranei porta a ricevere altrettanto odio e desertificazione alle elezioni (il Pd ancora non lo scarica? aspetta l'eutanasia politica?).

Poi se Renzi fosse il portavoce dei poteri occulti (tipo massoneria) allora si deve proprio dirlo: i massoni sono INCAPACI. E si capisce il flop della classe politica al governo del paese.

Ma su tutta la linea: idioti, presuntuosi e ignoranti. Abbagliati solo dalla propria grettezza e avidità.

Meglio che sparisca lui e i suoi sodali, i ministri che sostengono l'insostenibile con arguta vacuità, ammantata di saper fare ma sostanzialmente si  capisce lontano km che non sono all'altezza della situazione.

Pare comunque che la cosa stia disintegrandosi da sola: a breve non parleremo più nè di Matteo nè dei renziani e già  per questo ringraziamo il cielo! Davvero!