Italia peggio di Spagna, Danimarca e Regno Unito per il lavoro non retribuito

da: http://www.repubblica.it/economia/2017/01/18/news/donne-156282675/?ref=HRLV-6

A Davos record di presenze femminili, ma sul lavoro ancora disparità di generedi BARBARA ARDU'

18 gennaio 2017

ROMA - Più volte accusato di essere un meeting per soli uomini, quest'anno, al Forum di Davos la percentuale di presenze femminili è salita, toccando un record: le donne che partecipano al Forum sono il 20%, più di quanto non siano mai state. Un piccolo passo in avanti che però è una goccia nel mare delle disparità di genere che ancora permane in tutto il mondo, dove la possibilità per le donne di entrare nel mondo del lavoro è inferiore di circa il 27% rispetto a quella degli uomini. E l'italia non fa certo eccezione. Altro che quote rosa. Altro che parità. Perché c'è anche dell'altro: le donne italiane che lavorano quando tornano a casa faticano molto più degli uomini, più di quanto facciano quelle di altri Paesi altrettanto sviluppati. Che sia per accompagnare i figli o per prendersi cura degli anziani, sono sempre le donne a sobbarcarsi il lavoro non retribuito. L'Italia è ultima nel confronto con Spagna, Danimarca, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito, Australia e Norvegia.

La quota di lavoro non retribuito che cade sulle spalle delle italiane è pari al 75%. 

Gli uomini contribuiscono solo con il 25%. 

Sono i dati che emergono da una tabella elaborata nel Rapporto di Oxfam presentato a Davos, che analizza le diseguaglianze di genere nel mondo. E se sui lavori di casa e di cura lo svantaggio rimane, le cose non cambiano, anzi forse peggiorano, se ci si sofferma sulla distribuzione del reddito prodotto in una nazione. Una classifica in cui le donne si trovano il più delle volte nella metà inferiore della distribuzione del reddito. Così come ancora più difficile per loro è accedere al mercato del lavoro.

Nei Paesi del Medio Oriente e in quelli del Nordafrica, solo un quarto delle donne è riuscito a trovare un lavoro, mentre in Asia mediorientale la percentuale sale a un terzo, anche se nelle stesse regioni la quota maschile è di tre quarti (è vero che in qui Paesi ci sono profondi condizionamenti culturali). Una volta entrate nel mercato del lavoro però le donne, occupano, molto più degli uomini, posti di lavoro che non sono tutelati. Niente maternità, niente contributi, niente garanzie. E stipendi più bassi. Nell'edizione 2016 del Rapporto del Forum economico mondiale, è stato calcolato come il divario nella partecipazione economica al lavoro da parte delle donne si sia ampliato nel corso dell'ultimo anno e stima che ci vorranno ben 170 anni (saremo tutti morti) affinché le donne vengano retribuite allo stesso livello degli uomini, a parità di lavoro.

Le ragioni di questo squilibrio, che pare insanabile, è dovuto in parte a una vera e propria discriminazione, soprattutto là dove a parità di mansioni uomini e donne vengono pagati in modo diverso, ma anche dal fatto che il sesso femminile o viene occupato in settori meno retribuiti o perché fa lavori part-time. Ma quanto guadagnano in meno le donne? La parità negata si colloca in una forchetta che va dal 31 al 75% in meno rispetto agli uomini, se si considerano insieme divario salariale e tutela previdenziale. Che fa sì che spesso le donne si trovino alla fine della vita lavorativa senza una tutela economica. Sul mercato del lavoro poi, di donne ai vertici, con alti stipendi se ne trovano sempre poche, anche nei Paesi più avanzati, nonostante nel tempo, le disparità di istruzione tra uomini e donne si siano appianate. E in un futuro non troppo lontano è previsto che le donne supereranno gli uomini sui livelli di istruzione.

E Stilinga pensa che appunto le donne sono più istruite e che quindi debbono necessariamente guadagnare molto più degli uomini, non c'è ragione perchè il mondo vada al contrario! 

Joseph Stiglitz: La rabbia è già esplosa urgenti nuove regole su tasse, bonus e lobby


Il premio Nobel Joseph Stiglitz: “Se la maggioranza dei cittadini si sente esclusa dai vantaggi della crescita si ribellerà al sistema, Brexit e Trump lo dimostrano”  
(da La Repubblica)

Negli ultimi anni, incontrandosi a Davos, i leader del mondo economico e imprenditoriale hanno classificato la disuguaglianza tra i maggiori rischi per l’economia globale, riconoscendo che si tratta di questione economica oltre che morale. 

Non vi è dubbio, infatti, che se i cittadini non hanno reddito e perdono progressivamente potere d’acquisto, le corporation non avranno modo di crescere e prosperare. 

Il FMI è della stessa idea e avverte che a funzionare meglio sono i paesi dove c’è meno disuguaglianza.
Se la maggioranza dei cittadini sente di non beneficiare a sufficienza dei proventi della crescita o di essere penalizzata dalla globalizzazione finirà col ribellarsi al sistema economico nel quale vive. In realtà dopo Brexit e i risultati delle elezioni americane, ci si deve chiedere seriamente se questa ribellione non sia già cominciata. Sarebbe d’altronde del tutto comprensibile. In America il reddito medio del 90% dei meno abbienti ristagna da 25 anni e l’aspettativa di vita ha mediamente cominciato ad abbassarsi.
Da anni, Oxfam fotografa i livelli sempre più accentuati della disuguaglianza globale e ci ricorda come nel 2014 fossero 85 i super ricchi – molti dei quali presenti a Davos – a detenere la stessa ricchezza di metà della popolazione più povera (3,6 miliardi di persone). Oggi, a detenere quella ricchezza sono solo in 8.
È chiaro dunque che a Davos il tema della concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissimi abbia continuato a tenere banco. Solo per alcuni continua a essere una questione morale, ma per tutti è una questione economica e politica che mette in gioco il futuro dell’economia di mercato per come la conosciamo. C’è una domanda che assilla, sessione dopo sessione, gli Ad presenti al Forum: «C’è qualcosa che le corporation possono fare rispetto alla piaga della disuguaglianza che mette in pericolo la sostenibilità economica, politica e sociale del nostro democratico sistema di mercato?» La risposta è sì.
La prima idea, semplice ed efficace, è che le corporation paghino la loro giusta quota di tasse, un tassello imprescindibile della responsabilità d’impresa, smettendo di fare ricorso a giurisdizioni a fiscalità agevolata. Apple potrebbe sentire di essere stata ingiustamente presa di mira tra tante, ma in fondo ha solo eluso un po’ più di altri.
Rinunciare a giurisdizioni segrete e paradisi fiscali societari, siano essi in casa o offshore, a Panama o alle Cayman nell’emisfero occidentale, oppure in Irlanda e in Lussemburgo in Europa. 
Non incoraggiare i paesi in cui si opera a partecipare da protagonisti alla dannosa corsa al ribasso sulla tassazione degli utili d’impresa, in cui gli unici a perdere davvero sono i poveri in tutto il mondo.
È vergognoso che il Presidente di un paese si vanti di non aver pagato le tasse per quasi vent’anni – suggerendo che siano più furbi quelli che non pagano –, o che un’azienda paghi lo 0,005% di tasse sui propri utili, come ha fatto la Apple. Non è da furbi, è immorale.
L’Africa da sola perde 14 miliardi di dollari in entrate a causa dei paradisi fiscali usati dai suoi super-ricchi: a questo proposito Oxfam ha calcolato che la cifra sarebbe sufficiente a pagare la spesa sanitaria per salvare la vita di 4 milioni di bambini e impiegare un numero di insegnanti sufficiente per mandare a scuola tutti i ragazzi di quel continente.
C’è poi una seconda idea altrettanto facile: trattare i propri dipendenti in modo dignitoso. Un dipendente che lavora a tempo pieno non dovrebbe essere povero. 
Ma è quel che accade: nel Regno Unito, per esempio, vive in povertà il 31% delle famiglie in cui c’è un adulto che lavora. I top manager delle grandi corporation americane portano a casa circa 300 volte lo stipendio di un dipendente medio. È molto di più che in altri paesi o in qualunque altro periodo della storia, e questa forbice ampissima non può essere spiegata semplicemente con i differenziali di produttività. In molti casi gli Ad intascano ingenti somme solo perché niente impedisce loro di farlo, anche se questo significa danneggiare gli altri dipendenti e alla lunga compromettere il futuro stesso dell’azienda. Henry Ford aveva capito l’importanza di un buono stipendio, ma i dirigenti di oggi ne hanno perso la cognizione.
Infine c’è una terza idea, sempre facile ma più radicale: investire nel futuro dell’azienda, nei suoi dipendenti, in tecnologia e nel capitale. Senza questo non ci sarà lavoro e la disuguaglianza non potrà che crescere. Attualmente invece una porzione sempre più consistente di utili finisce ai ricchi azionisti. Un esempio su tutti viene dalla Gran Bretagna, dove nel 1970 agli azionisti andava il 10% degli utili d’impresa, oggi il 70%. Storicamente le banche (e il settore finanziario) hanno svolto l’importante funzione di raccogliere risparmio dalle famiglie da investire nel settore delle imprese per costruire fabbriche e creare posti di lavoro. Oggi negli Stati Uniti il flusso netto di denaro compie esattamente il percorso opposto. L’anno scorso, Philip Green, magnate britannico della vendita al dettaglio, è stato accusato da una commissione parlamentare di non aver investito abbastanza nella sua azienda e di aver inseguito il proprio tornaconto personale, arrivando alla bancarotta e a un deficit previdenziale di 200 milioni di sterline. Per quanto incensato e blandito dai governi succedutisi, promosso a cavaliere del regno e considerato faro dell’economia britannica, quella commissione parlamentare non avrebbe potuto scegliere parole più esatte, definendolo come «la faccia inaccettabile del capitalismo».
Le multinazionali sanno che il loro successo non dipende solo dalle leggi dell’economia, ma dalle scelte di politica economica che ciascun paese compie. È per questo che spendono così tanto denaro per fare lobby. Negli Stati Uniti, il settore bancario ha esercitato il suo potere d’influenza per ottenere la deregulation, raggiungendo il proprio obiettivo. Ne sanno qualcosa i contribuenti costretti a pagare un conto salato per quanto accaduto in seguito. 

Negli ultimi 25 anni, in molti paesi, le regole dell’economia liberista sono state riscritte col risultato di rafforzare il potere del mercato e far esplodere la crisi della disuguaglianza. 

Molte corporation sono poi state particolarmente abili – più che in qualsiasi altro campo – nel godere di una rendita di posizione – vale a dire nel riuscire ad assicurarsi una porzione più grande di ricchezza nazionale, esercitando un potere monopolistico o ottenendo favori dai governi. 
Ma quando i profitti hanno questa origine, la ricchezza stessa di una nazione è destinata a diminuire. Il mondo è pieno di aziende guidate da uomini illuminati che hanno capito quanto l’unica prosperità sostenibile sia la prosperità condivisa, e che pertanto non fanno uso della propria influenza per orientare la politica, al fine di mantenere una posizione di rendita finanziaria. 
Hanno capito che nei paesi dove la disuguaglianza cresce a dismisura, le regole dovranno essere riscritte per favorire investimenti a lungo termine, una crescita più veloce e una prosperità condivisa.

VI PIACE VESTIRE ZARA, GAP E H&M? PRODUCONO IN BANGLADESH, PAGANDO I LAVORATORI 56 EURO AL MESE

da http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/vi-piace-vestire-zara-gap-sappiate-che-questi-marchi-producono-138431.htm

Ci sono i nomi di marchi notissimi come Zara, Gap e H&M tra i clienti delle manifatture di Ashulia, centro del tessile in Bangladesh per il quale lavorano migliaia di persone e di recente al centro delle cronache per uno sciopero che ha portato molti di loro a incrociare le braccia, in protesta contro condizioni salariali che ritengono inaccettabili.
UNA FABBRICA ABUSIVA VICINO A DHAKA
In decine di migliaia hanno imbracciato bandiere e cartelli con gli slogan, dopo un primo licenziamento di 121 lavoratori, da cui è scaturita una protesta di massa per quei solo circa 56 euro che ognuno di loro riceve ogni mese per produrre capi che poi finiscono negli store di marchi molti noti del mercato occidentale.
UNA FABBRICA LEGALE DEL BANGLADESH
Manifestazioni di grande portata, con almeno dieci feriti, quando la polizia ha aperto il fuoco con proiettili di gomma e che hanno portato alla chiusura temporanea di almeno cinquanta impianti, ma anche a conseguenze ben più spiacevoli.
Secondo quanto riporta il Guardian sarebbero almeno 1.500 i lavoratori che sono stati lasciati a casa dai rispettivi datori di lavoro dopo le proteste, per uno stipendio che, secondo gli attivisti, vale un quinto della cifra necessaria per mantenere condizioni vita accettabili, pure in un Paese non di certo ricco come il Bangladesh.
UN BAMBINO E LA SUA MACCHINA DA CUCIRE


E Stilinga pensa che si definisce Globalizzazione quello che è solo puro SFRUTTAMENTO.
E BASTA!

Follia Pura: Roma, Atac sull'orlo del crac liquida premi e arretrati: 2 milioni a 50 manager

In arrivo incentivi di produzione fino al 2018 e arretrati dal 2012 al 2016. Previsti anche scatti per gli adeguamenti di contratto. Il piano di Fantasia

In Italia gli stipendi più bassi dell’Europa occidentale

da:https://it.businessinsider.com/in-italia-gli-stipendi-piu-bassi-delleuropa-occidentale/?ref=HREC1-5

Se la ripresa non decolla la colpa è anche degli stipendi che in Italia restano i più bassi dell’Europa occidentale. 

Peggio fanno solo Spagna e Portogallo che però si possono consolare con un maggior potere d’acquisto. A mettere i numeri nero su bianco è Eurostat, l’istituto di statistica dell’Unione europea, che in un recente report ha fatto il punto sulle retribuzione del Vecchio continente. 

La paga media oraria in Italia si ferma a 12,5 euro con un potere d’acquisto pari a 12,3 euro: all’interno dell’Unione europea la media si attesa a 13,2 euro l’ora, ma il dato è condizionato dai bassi salari dei Paesi dell’est entrati nella Ue dopo il 2004. Basti pensare, per esempio, che in Bulgaria il salario orario si ferma a 1,7 euro e in Romania arriva a 2 euro: in entrambi i Paesi, però, il potere d’acquisto è più alto.

Insomma l’Italia resta il fanalino di coda del Vecchio continente condannata a guardare da lontana la ricca Germania, i paesi scandinavi e persino la vicina Francia dove gli stipendi medi arrivano a 14,9 euro. 

E’ quindi solo una magra consolazione il fatto che lungo la Penisola gli stipendi bassi non siano così tanti rispetto alla media. Sempre secondo Eurostat i lavoratori italiani a basso reddito sono “solo” il 9,4%: si tratta dei dipendenti con un salario orario inferiore ai due terzi della paga oraria. 
La percentuale italiana è la più bassa della zona euro dopo Francia (8,8%), Finlandia (5,3%) e Belgio (3,8%), mentre la media continentale è al 17,2%.

Il semplice dato può anche sembrare positivo lasciando intendere che in Italia non ci siano troppe disuguaglianze sul fronte degli stipendi. 

Il problema, tuttavia, c’è ed è evidente: la soglia del basso reddito lungo la Penisola è inferiore a tutte le altre economie comparabili: siamo a 8,3 euro all’ora in Italia, 10 euro in Francia, 10,5 euro in Germania, 13,4 in Irlanda, 9,9 nel Regno Unito, 10,7 in Olanda e 17 in Danimarca. 

Si scende a 6,6 euro in Spagna, poi è bassissima in Bulgaria (1,1) euro, Romania (1,4 euro), Portogallo (3,4), Slovacchia (2,9), Lettonia e Lituania (2,2), ma sono tutti Paesi che vantano un più alto potere d’acquisto.
A livello assoluto, invece, rimangono profonde differenze: il 21,1% delle donne è a basso reddito, contro il 13,5% degli uomini. Inoltre, quasi un uno su tre (30,1%) degli under-30 rientra nella categoria, mentre tra 30 e 59 anni vi ricadono solo quattordici dipendenti su cento.

Istat 2016, uno su quattro a rischio povertà

da: http://www.quotidiano.net/cronaca/istat-poverta-1.2733848

Il dato è sostanzialmente stabile rispetto al 2014, ma peggiorano le condizioni delle famiglie con almeno 5 componenti

Roma, 6 dicembre 2016 - La fotografia scattata dall'istat sulla povertà in Italia è impietosa: oltre uno su quattro è a rischio, con dati drammatici al Sud del Paese, dove la percentuale si avvicina a metà della popolazione. Di più, la diseguaglianza tra i redditi dei ricchi e dei poveri è tra le maggiori in Europa. Il 'metro' per misurare  la situazione è la definizione adottata nell'ambito della Strategia Europa 2020, ovvero deve verificarsi almeno una delle seguenti condizioni: rischio di povertà, grave deprivazione materiale, bassa intensità di lavoro
I DATI - Nel 2015 si stima che il 28,7% delle persone residenti in Italia sia a rischio di povertà o esclusione sociale. La quota è sostanzialmente stabile rispetto al 2014 (era al 28,3%) a sintesi di un aumento degli individui a rischio di povertà (dal 19,4% a 19,9%) e del calo di quelli che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (da 12,1% a 11,7%); resta invece invariata la stima di chi vive in famiglie gravemente deprivate (11,5%). 
Si rilevano segnali di peggioramento tra chi vive in famiglie con almeno cinque componenti (dal 40,2% al 43,7%) e, in particolare, tra chi vive in coppia con almeno tre figli (da 39,4% a 48,3%, pari a circa 2.200.000 individui). Tale peggioramento è associato ad un incremento sia del rischio di povertà (+7,1%) sia della grave deprivazione materiale (+3%). Per gli stessi individui si osserva, invece, un miglioramento per la bassa intensità lavorativa (che passa dal 14,6% al 12,4% tra gli individui delle famiglie numerose e dal 14,1% all'11,4% tra le coppie con almeno tre figli).
Il peggioramento del rischio di povertà o esclusione sociale interessa soprattutto i residenti del Centro (da 22,1% a 24%) per i quali cresce la deprivazione materiale e, in misura minore, le persone che risiedono al Sud e nelle Isole (dal 45,6% al 46,4%), dove tale rischio rimane in generale piu diffuso e prossimo a coinvolgere il 50% delle persone residenti.
Si aggrava il rischio di povertà o esclusione sociale anche per coloro che vivono prevalentemente di reddito da lavoro, in concomitanza all'incremento della bassa intensità lavorativa (+0,6% per il reddito da lavoro dipendente e +0,7% per il reddito da lavoro autonomo). Al contrario, tra coloro il cui reddito principale familiare è costituito da pensioni o trasferimenti pubblici l'esposizione al rischio di povertà o esclusione sociale rimane stabile, pur in presenza di una diminuzione dell'indicatore di bassa intensita' lavorativa (da 50,7% a 47,1%). 
La grave deprivazione materiale si mantiene sostanzialmente stabile fra il 2014 e il 2015 (rispettivamente 11,6% e 11,5%) ma gli andamenti sono differenziati per i singoli indicatori: diminuisce la quota di individui in famiglie che dichiarano di non poter permettersi una settimana di vacanzalontano da casa (da 49,5% a 47,3%), di non riuscire a fare un pasto adeguato (cioè con proteine della carne o pesce o equivalente vegetariano) almeno ogni due giorni (da 12,6% a 11,8%) e di non poter riscaldare adeguatamente l'abitazione (da 18% a 17%) Aumenta, invece, la quota di individui in famiglie che dichiarano di non poter sostenere una spesa imprevista di 800 euro (da 38,8% a 39,9%) e di avere avuto arretrati per mutuo, affitto, bollette o altri debiti (da 14,3% a 14,9%).
Peggioramenti più marcati si osservano in particolare per gli individui in coppie con almeno tre figli: la quota di chi dichiara di non poter sostenere una spesa imprevista di 800 euro passa dal 48,1% al 52,8% e quella di chi ha avuto arretrati per mutuo, affitto, bollette o altri debiti dal 21,7% al 30,4%.
REGIONE PER REGIONE - Quasi la metà dei residenti nel Sud e nelle Isole(46,4%) è a rischio di povertà o esclusione sociale, contro il 24% del Centro e il 17,4% del Nord. I livelli sono superiori alla media nazionale in tutte le regioni del Mezzogiorno, con valori più elevati in Sicilia (55,4%), Puglia (47,8%) e Campania (46,1%).
Viceversa, i valori più contenuti si riscontrano nella provincia autonoma di Bolzano (13,7%), in Friuli-Venezia Giulia (14,5%) e in Emilia-Romagna (15,4%). Peggioramenti significativi si rilevano in Puglia (+7,5%), Umbria (+6,6%), nella provincia autonoma di Bolzano (+4%), nelle Marche (+3,4%) e nel Lazio (+2,3%), mentre l'indicatore migliora per Campania e Molise. 
DIVARIO RECORD - In Italia la diseguaglianza tra redditi e tra le maggiori in Europa: "Una delle misure principali utilizzate nel contesto europeo per valutare la disuguaglianza tra i redditi degli individui è l'indice di Gini. In Italia esso assume un valore pari a 0,324, sopra la media europea di 0,310, ma stabile rispetto all'anno precedente", si legge nel rapporto, "nella graduatoria dei Paesi dell'Ue l'Italia occupa la sedicesima posizione assieme al Regno Unito". 
Distribuzioni del reddito più diseguali rispetto all'Italia si rilevano in altri Paesi dell'area mediterranea quali Cipro (0,336), Portogallo (0,340), Grecia (0,342) e Spagna (0,346). Il campo di variazione dell'indice è molto ampio: dai valori più alti di Lituania (0,379) e Romania (0,374) dove la distribuzione dei redditi è fortemente diseguale, a quelli più bassi di Slovenia (0,236) e Slovacchia (0,237), che invece hanno distribuzioni del reddito più eque. 

Censis, l'Italia bloccata non investe più. Giovani più poveri dei loro nonni

da: http://www.repubblica.it/economia/2016/12/02/news/censis_l_italia_bloccata_che_non_investe_piu_torna_a_tuffarsi_nel_sommerso-153253818/?ref=HREC1-6
Il cinquantesimo Rapporto Annuale parla di un Paese che siede su una montagna di risparmi, 114 miliardi di euro di liquidità aggiuntiva accumulati negli anni della crisi, ma non li spende per paura. E' l'Italia rentier, dove i giovani sono sempre più poveri e intrappolati nel giro infernale dei lavoretti a basso costo e bassa produttività. Si taglia su tutto ma è boom degli acquisti di computer e soprattutto di smartphone