Continuano a chiamarla flessibilità

di Richard Sennett


Sono passati quasi vent'anni da quando scrissi "L'uomo flessibile", uno studio sui cambiamenti nell'economia e nelle condizioni del lavoro, e la flessibilità a breve termine, che già a quel tempo iniziava a erodere il nostro lavoro, è aumentata e, anzi, è andata peggiorando sempre di più. I cambiamenti a cui stiamo assistendo nella moderna economia del lavoro sono una paralisi per la classe media, soprattutto la classe medio bassa, un vero ristagno. L'esperienza della flessibilità del lavoro a breve termine nelle imprese camaleontiche influisce sulla struttura delle classi sociali. Le persone "nel mezzo" hanno meno opportunità di trarre profitto dalla diversificazione delle tipologie di lavoro. L'offerta di lavoro infatti si è ridotta per loro. Allo stesso tempo
le condizioni di lavoro sono diventate più intensamente legate a un regime di flessibilità.
Non ho mai pensato che un posto di lavoro flessibile potesse rappresentare una possibilità di ascesa sociale e non ho mai guardato alla linea sottile e indefinita che passa tra lo spazio di lavoro e quello domestico come a una realtà che potesse creare una nuova dimensione per l'autoimpiego.

Quella che è maturata è una flessibilità simile a una condizione di repressione, un modo per dominare e ridimensionare il lavoratore attraverso la flessibilità. 

Ritengo, soprattutto dopo la crisi finanziaria, che sia ancora più il caso di intenderla come una repressione dei lavoratori, più che un tentativo di creare nuove opportunità per loro. Quando sento qualcuno dire: «noi vogliamo dare la possibilità alle persone di lavorare da casa», so che questa espressione non risponde a verità. Tutto il novero di opportunità che si verificano sul posto di lavoro, come fare incontri, scoperte casuali, discussioni varie, sono negate alle persone che lavorano da casa: da casa non puoi creare nessuna rete informale. E questo aspetto, ovvero la diminuzione e dominazione del processo lavorativo in nome di una maggiore flessibilità, ha solo peggiorato la situazione.
Alcuni sostengono che, nel momento in cui il mondo del lavoro diventa sempre più precario e insicuro trovare una sorta di cittadinanza sociale al di fuori del contesto lavorativo sia ciò di cui la gente ha bisogno. Io non ci credo. Il modo in cui la gente imposta la propria esistenza è profondamente legato al rispetto di se stessi e al senso della propria utilità. Tutto questo non può essere sostituito da una dimensione non produttiva. In questo senso, ritengo che Marx avesse ragione quando diceva che l'homo faber, l'operaio, è il fondamento di un senso di autostima.

Il lavoro, come la produttività, sono fondamentali nella costruzione del rispetto di sé e della struttura familiare. Non credo si possa avere una cittadinanza sociale che si basi sul lavoro part- time, o sull'assenza di lavoro, come fonti alternative da cui trarre soddisfazione. Questo vale sia per le donne sia per gli uomini.

La questione, per noi oggi, è come tornare ad avere il controllo del "posto di lavoro". La mia opinione è che bisogna prevenire la possibilità che i lavoratori pratichino la flessibilità. Non significa inibire la forza lavoro, ma, ad esempio, evitare che qualcuno che abbia lavorato nello stesso ufficio o nella stessa azienda per otto o dieci anni non si veda riconosciuto il diritto a continuare a lavorare (anche solo per il fatto di aver investito parte della sua vita in quel lavoro). Questo accade perché quello che si configura è un sistema di flessibilità che non fa ricadere alcuna responsabilità sui datori di lavoro.
In Gran Bretagna stiamo realizzando che ciò è un problema. Consideriamo il caso delle nostre acciaierie. Di fronte alla crisi il governo dice: «Noi non abbiamo alcuna responsabilità a riguardo, sono problemi vostri». Non sono d'accordo. Il governo ha una responsabilità verso questi lavoratori (per esempio quei settori della Tata Steel che stanno chiudendo), semplicemente perché il lavoro è una risorsa. Il governo dovrebbe aiutarli a mantenere i loro stipendi, aiutarli a trovare un nuovo lavoro, perfino acquistando l'intera Tata Steel per per fare in modo che i lavoratori vadano avanti.

Credo che ciò di cui abbiamo davvero bisogno sia fare i conti con i modi in cui questa figura disfunzionale – il capitalismo flessibile – possa essere fronteggiato dallo Stato.

Non sono un tecnofobo. La mia riflessione ha molto a che fare con i lavori che ho condotto, con i miei studenti, presso la London School of Economics.
È vero che la robotica sta sostituendo certi tipi di lavoro. Il lavoro che più sta subendo questo processo è quello dei lavori di manutenzione di basso livello. È stata una sorpresa per noi apprendere che in realtà l'ambito di applicazione delle macchine digitali nel lavoro manuale è praticamente arrivato ai suoi limiti estremi e che molte delle cose che la gente fa manualmente, più o meno lavori di manutenzione come l'idraulico, l'elettricista, e così via, sono già meccanizzati al massimo delle possibilità. Esattamente come per il lavoro industriale, sia per il lavoro qualificato sia per quello non qualificato si è arrivati a una sorta di limite.
Le macchine stanno colonizzando la piccola borghesia. Posti di lavoro come quello degli addetti agli sportelli di banca, quello di chi raccoglie gli ordini per gli acquisti, o i centralinisti, tutti lavori burocratici di basso livello, stanno soccombendo sotto il potere della robotica digitale. Questa tecnologia particolarmente efficace sta scalzando il concetto di forza lavoro della società dei colletti bianchi. Ciò si interseca con il fatto che le classi stagnanti in questa fase del capitalismo, siano proprio quelle dei lavoratori delle classi medio-basse.
Posto che non dobbiamo considerare le macchine, tutta la tecnologia digitale, come uno spauracchio, dobbiamo sapere che gli effetti di questa trasformazione si stanno concentrando sulla classe che, in questo momento, risulta estremamente vulnerabile e che è stata largamente marginalizzata dal neoliberalismo, proprio in nome della ragione di mercato. Tutto questo, direi, rispecchia il bisogno che lo Stato assuma un ruolo maggiore nel supporto alle classi medio basse, garantendo il lavoro, anche se quel lavoro non produce profitto o potrebbe essere anche svolto da una macchina. 

Dobbiamo tornare a credere che lo Stato possa entrare effettivamente in opposizione al neoliberalismo, anziché esserne definitivamente schiavo.

Non si può avere una cittadinanza sociale che si basi esclusivamente sul part-time

Europa, i migranti respinti dall'austerità

diThomas Piketty
da www.repubblica.it

MENTRE in Francia i giovani manifestavano contro la disoccupazione e la flessibilità, e François Hollande aveva appena rinunciato alla déchéance de nationalité (il suo inquietante progetto di privare della nazionalità francese i condannati per terrorismo), i profughi si accalcano a decine di migliaia in Grecia, in attesa di essere rispediti con la forza in Turchia. Non ci inganniamo: queste realtà differenti sono la testimonianza di uno stesso fallimento, dell’incapacità dell’Europa di far fronte alla crisi economica e rilanciare il suo modello di creazione di lavoro, integrazione e progresso sociale.
La cosa più triste è che l’Europa avrebbe tutti i mezzi per mostrarsi più accogliente, riducendo al tempo stesso la disoccupazione. Per convincersene, può essere utile fare una digressione sulle statistiche migratorie.
Precisiamo innanzitutto che i flussi migratori sono difficili da misurare e che le stime che abbiamo a disposizione sono imperfette. I migliori dati disponibili a livello mondiale, raccolti dalle Nazioni Unite nel quadro dei World Populations Prospects pubblicati a fine 2015, consentono tuttavia di stabilire alcuni ordini di grandezza.
La prima cosa che constatiamo è che il flusso migratorio in entrata nell’Unione Europea (al netto delle uscite), fra il 2000 e il 2010 era mediamente dell’ordine di 1,2 milioni di persone per anno. La cifra può sembrare enorme, ma se la rapportiamo a una popolazione complessiva di oltre 500 milioni di abitanti, vediamo che rappresenta poco più dello 0,2 per cento annuo. In quell’epoca non remota, l’Unione Europea era la regione più aperta del mondo (il flusso migratorio negli Stati Uniti era di circa 1 milione di persone l’anno) e la questione non rappresentava un problema serio: in Europa l’occupazione cresceva e i senza lavoro diminuivano, almeno fino all’esplosione della crisi finanziaria del 2008.
È questa crisi – e soprattutto le catastrofiche politiche di austerità seguite dall’Europa successivamente, che hanno provocato un’assurda ricaduta dell’attività economica nel 2011-2013 (si veda: «2007-2015: una recessione lunghissima ») – che spiega l’ascesa della disoccupazione e della xenofobia nel nostro continente, con i flussi migratori ridottisi a un terzo dei livelli precedenti, circa 400.000 ingressi all’anno dal 2010 al 2015, secondo le Nazioni Unite. Tutto ciò proprio nel momento in cui l’evoluzione della situazione geopolitica in Medio Oriente e la crisi dei profughi avrebbero richiesto un’Europa più aperta.

Paradosso supplementare: gli Stati Uniti, che pure erano all’origine della crisi del 2008, ma hanno saputo dar prova di elasticità nella gestione delle finanze pubbliche per rilanciare la loro economia dopo la crisi, hanno mantenuto un flusso migratorio di circa 1 milione di persone l’anno fra il 2010 e il 2015 (pur rimanendo molto più chiusi dell’Europa ai profughi siriani e alle popolazioni di religione islamica).

Se esaminiamo la ripartizione del flusso migratorio all’interno dell’Unione Europea, constatiamo, di nuovo, gli effetti della crisi. Se facciamo la media sull’insieme del periodo 2000-2015 (quasi un milione di migranti l’anno), osserviamo una ripartizione relativamente equilibrata: ognuno dei cinque grandi Paesi (Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Spagna) accoglie fra i 100.000 e i 200.000 migranti l’anno. Ma mentre la Germania era relativamente poco aperta fra il 2000 e il 2010, fra il 2010 e il 2015 è passata nettamente in testa, mentre per la Spagna il flusso è diventato negativo. In totale, nel periodo 2000-2015, sono l’Italia, la Spagna e il Regno Unito i Paesi più aperti, seguiti da Germania e Francia.
I dati delle Nazioni Unite sono incompleti e tengono conto solo in parte degli ingressi del 2015, ancora troppo vicini nel tempo, ma che hanno già raggiunto livelli estremamente elevati: un milione di profughi entrati in Germania in un solo anno secondo il Governo tedesco, 400.000 richieste d’asilo depositate in Germania nel 2015 secondo Eurostat. Quel che è certo è che questi flussi, per quanto importanti, non sono così eccezionali come a volte si pensa, in confronto ai flussi migratori osservati fra il 2000 e il 2010.
La conclusione viene da sé: se l’Europa, e in particolare la zona euro, sotto la guida di Germania e Francia, seguisse una politica migliore (moratoria sul debito pubblico, rilancio dell’economia, investimenti in formazione e infrastrutture, imposta comune sulle grandi aziende, un Parlamento della zona euro), il nostro continente avrebbe tutti i mezzi per mostrarsi più accogliente e non sarebbe stato costretto a compromettersi in un accordo indegno con la Turchia.
( © Le Monde, 2016 Traduzione di Fabio Galimberti)