Europa, i migranti respinti dall'austerità

diThomas Piketty
da www.repubblica.it

MENTRE in Francia i giovani manifestavano contro la disoccupazione e la flessibilità, e François Hollande aveva appena rinunciato alla déchéance de nationalité (il suo inquietante progetto di privare della nazionalità francese i condannati per terrorismo), i profughi si accalcano a decine di migliaia in Grecia, in attesa di essere rispediti con la forza in Turchia. Non ci inganniamo: queste realtà differenti sono la testimonianza di uno stesso fallimento, dell’incapacità dell’Europa di far fronte alla crisi economica e rilanciare il suo modello di creazione di lavoro, integrazione e progresso sociale.
La cosa più triste è che l’Europa avrebbe tutti i mezzi per mostrarsi più accogliente, riducendo al tempo stesso la disoccupazione. Per convincersene, può essere utile fare una digressione sulle statistiche migratorie.
Precisiamo innanzitutto che i flussi migratori sono difficili da misurare e che le stime che abbiamo a disposizione sono imperfette. I migliori dati disponibili a livello mondiale, raccolti dalle Nazioni Unite nel quadro dei World Populations Prospects pubblicati a fine 2015, consentono tuttavia di stabilire alcuni ordini di grandezza.
La prima cosa che constatiamo è che il flusso migratorio in entrata nell’Unione Europea (al netto delle uscite), fra il 2000 e il 2010 era mediamente dell’ordine di 1,2 milioni di persone per anno. La cifra può sembrare enorme, ma se la rapportiamo a una popolazione complessiva di oltre 500 milioni di abitanti, vediamo che rappresenta poco più dello 0,2 per cento annuo. In quell’epoca non remota, l’Unione Europea era la regione più aperta del mondo (il flusso migratorio negli Stati Uniti era di circa 1 milione di persone l’anno) e la questione non rappresentava un problema serio: in Europa l’occupazione cresceva e i senza lavoro diminuivano, almeno fino all’esplosione della crisi finanziaria del 2008.
È questa crisi – e soprattutto le catastrofiche politiche di austerità seguite dall’Europa successivamente, che hanno provocato un’assurda ricaduta dell’attività economica nel 2011-2013 (si veda: «2007-2015: una recessione lunghissima ») – che spiega l’ascesa della disoccupazione e della xenofobia nel nostro continente, con i flussi migratori ridottisi a un terzo dei livelli precedenti, circa 400.000 ingressi all’anno dal 2010 al 2015, secondo le Nazioni Unite. Tutto ciò proprio nel momento in cui l’evoluzione della situazione geopolitica in Medio Oriente e la crisi dei profughi avrebbero richiesto un’Europa più aperta.

Paradosso supplementare: gli Stati Uniti, che pure erano all’origine della crisi del 2008, ma hanno saputo dar prova di elasticità nella gestione delle finanze pubbliche per rilanciare la loro economia dopo la crisi, hanno mantenuto un flusso migratorio di circa 1 milione di persone l’anno fra il 2010 e il 2015 (pur rimanendo molto più chiusi dell’Europa ai profughi siriani e alle popolazioni di religione islamica).

Se esaminiamo la ripartizione del flusso migratorio all’interno dell’Unione Europea, constatiamo, di nuovo, gli effetti della crisi. Se facciamo la media sull’insieme del periodo 2000-2015 (quasi un milione di migranti l’anno), osserviamo una ripartizione relativamente equilibrata: ognuno dei cinque grandi Paesi (Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Spagna) accoglie fra i 100.000 e i 200.000 migranti l’anno. Ma mentre la Germania era relativamente poco aperta fra il 2000 e il 2010, fra il 2010 e il 2015 è passata nettamente in testa, mentre per la Spagna il flusso è diventato negativo. In totale, nel periodo 2000-2015, sono l’Italia, la Spagna e il Regno Unito i Paesi più aperti, seguiti da Germania e Francia.
I dati delle Nazioni Unite sono incompleti e tengono conto solo in parte degli ingressi del 2015, ancora troppo vicini nel tempo, ma che hanno già raggiunto livelli estremamente elevati: un milione di profughi entrati in Germania in un solo anno secondo il Governo tedesco, 400.000 richieste d’asilo depositate in Germania nel 2015 secondo Eurostat. Quel che è certo è che questi flussi, per quanto importanti, non sono così eccezionali come a volte si pensa, in confronto ai flussi migratori osservati fra il 2000 e il 2010.
La conclusione viene da sé: se l’Europa, e in particolare la zona euro, sotto la guida di Germania e Francia, seguisse una politica migliore (moratoria sul debito pubblico, rilancio dell’economia, investimenti in formazione e infrastrutture, imposta comune sulle grandi aziende, un Parlamento della zona euro), il nostro continente avrebbe tutti i mezzi per mostrarsi più accogliente e non sarebbe stato costretto a compromettersi in un accordo indegno con la Turchia.
( © Le Monde, 2016 Traduzione di Fabio Galimberti)

Kering vede il suo fatturato segnato da un forte calo di Bottega Veneta

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Kering ha pubblicato i dati relativi al proprio fatturato, segnati dal rallentamento di Gucci, il suo marchio principale che si trova in piena fase di rilancio, e dal crollo di Bottega Veneta, seconda griffe di lusso del gruppo francese, in un contesto difficile per il settore.

Seguito con grande attenzione, quasi gelosamente, Gucci, principale centro di profitti di Kering, ha visto crescere le vendite del 3,1% nel primo trimestre (dopo un +4,8% nel quarto trimestre del 2015), facendo così meno bene della crescita fra il 5% e il 6% attesa dagli analisti.

Al contrario, i trend economici si sono bruscamente invertiti nel trimestre per Bottega Veneta (-8,3%) - primo marchio del gruppo per redditività – che soffre della sua forte esposizione alla clientela asiatica e di un passaggio ad altre categorie di prodotti, soprattutto il prêt-à-porter.

Saint Laurent continua intanto la sua brillante traiettoria di crescita (+26,5%), mentre Balenciaga e Boucheron hanno sofferto della loro elevata esposizione al mercato francese, disertato dai turisti stranieri dopo gli attentati di Parigi.

Ancora su basi solide invece lo slancio del produttore di articoli sportivi Puma, che ha registrato una progressione delle vendite dell'8,1%.

In totale, le vendite di Kering hanno raggiunto i 2,72 miliardi di euro (+2,7%) nel primo trimestre, una cifra leggermente inferiore ai 2,77 miliardi indicati dalle previsioni degli analisti raccolte da Reuters.

A cambi costanti, la crescita si è limitata al 4,0%, dopo il +8% registrato alla fine del 2015.

H&M chiude un debole mese di marzo

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Il gruppo svedese di moda low cost registra per il mese di marzo vendite in  aumento del 2% in valuta locale: una crescita, che negli ultimi tre esercizi, era stata così debole solo nell’agosto 2015.“Le vendite di marzo aprile e maggio  dovrebbero essere analizzate insieme, visto che le vacanze di Pasqua cadono in mesi diversi a seconda dell’anno, ed in parte perchè il clima in questo periodo può variare considerevolmente da un anno all’altro” indica il gruppo in un comunicato.  “Per H&M, in generale, una Pasqua tardiva è preferibile ad un che arriva prima. Le condizioni meteo di marzo, l’anno scorso erano state favorevoli alla stagione, mentre quest’anno è successo il contrario.”

Il numero totale dei punti vendita del gruppo era pari a 3997 al 31 marzo 2016 in aumento rispetto ai 3580, al 31 marzo 2015.  L’azienda prevede di aprire 425 nuovi punti vendita quest’anno.