Monumento all'esule ignoto

di MARIO SERENELLINI
da: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/05/10/lincontro-esuli40.html
PARIGI

L'UNICO MONUMENTO davanti al quale mi raccoglierei non è quello al Milite Ignoto ma, se mai esistesse, all'Esule Anonimo». Abderrahmane Sissako, africano diParigi, ama sventagliare questa piccola bandiera, assunta fin da quando, esule a diciott'anni, lasciò il Mali per la Mauritania: «Periodo terribile. Passavo le mie giornate a giocare a ping-pong al Centro culturale sovietico. Per via degli aiuti al Terzo mondo, l'Urss era molto presente in Africa negli anni Settanta. Ed è lì che comincia la mia avventura cinematografica, quando un giorno il direttore mi propose di prendere in prestito dei libri della biblioteca. Cosa c'entrano i film? Ora le spiego. La lettura era rimasta fino allora un'emozione rinviata per me, come una pagina in ombra. Ma in quel periodo ero talmente giù che chiesi un libro su una vita difficile. Scoprii così Dostoevskij. Nella biblioteca del Centro culturale non c'erano solo opere di propaganda, ma tutta la grande letteratura russa: Gogol, Gorky, Pushkin, Andreev, Lermontov, Cechov, Tolstoj… Li ho divorati tutti, tutti difficili e appassionanti». E la Russia, ovvero l'Urss, diventò così la sua nuova patria: «Diciamo il mio nuovo orizzonte: dove avrei voluto crescere e conoscere. Ottenni una borsa di studio per "l'Università dell'amicizia dei popoli" e entrai nell'ambitissima scuola di cinema di Mosca, la leggendaria Vgk. Fu così che a diciannove anni mi trovai a studiare cinema in Unione Sovietica, il paese in cui fare il cineasta era un sogno collettivo. Praticamente come fare il cosmonauta accanto a Ousmane Sembène, Souleymane Cissé, Idrissa Ouédraogo, Djibril Diop Mambéty. L'elegante sciarpa di seta azzurra avvolta su t-shirt e giacca nera, il volto profondamente segnato al riparo degli occhiali fumé, il regista frena la commozione quando parla del film sulla cittadina del Mali caduta per un anno, nel 2012, nelle mani dei jihadisti. Come se parlasse di sé, di una vita ferita nell'incubo d'ignoranza e fanatismi che solo l'esilio salva e riscatta: «La lotta alla barbarie è stata, a Timbuktu, la rivolta silenziosa della popolazione che s'è impressa nella mente e nel cuore la musica diventata proibita». Come i libri imparati a memoria in Fahrenheit 4-51.
«Sì, e anche in questo caso è stata una resistenza compatta, un ottimismo solidale. È facile diventare indifferenti all'orrore: in quei giorni internet s'inorgogliva per l'ultimo modello di smartphone, mentre, ignorate, centomila persone erano sotto il giogo islamico. Il dovere di un cineasta è di assumere come propria la realtà degli altri e, insieme, ristabilirne i termini. Partendo da un semplice dato di fatto: i nostri carnefici sono nostri simili, anch'essi scossi da dubbi e debolezze. Voglio dire che anche il cieco sanguinario è prima di tutto un essere umano, e che prima di uccidere è stato un bambino. Così pure l'islam non è jihadismo. E viceversa. L'islam è il primo ostaggio dei terroristi che lo stravolgono per le loro stragi. È uno strappo che appartiene innanzitutto a noi, noi musulmani, educati all'amore per l'altro, alla condivisione di valori universali. Nel Corano, il profeta indica quale unica differenza tra un cristiano e un musulmano il loro grado di fede: un modo per dire che siamo tutti uguali. Anche questi princìpi sono presi ora in ostaggio». C'è una gazzella, che fugge all'inizio del film e continua a fuggire alla fine, inseguita dall'ostinata ferocia umana: «È la vita in fuga che traspare dal viso di due vittime innocenti (interpretate da Layla Walet Mohamed e Toulou Kiki, ndr), figlia e moglie del candido tuareg condannato a morte». I veri esuli sono quelli che tornano sempre, anche senza tornare. Domandiamo: Timbuktu è anche un atto d'amore e ribellione per il suo paese d'origine? «Forse, vorrà dire che anch'io sono un esule che non è mai partito di casa».
Nel film di Sissako — nei giorni scorsi a Milano come presidente della giuria del Festival del cinema africano, e tra poco a Cannes come presidente della giuria dei Corti — fioccano anche inattese citazioni, tipo la sequenza dei ragazzini che giocano a calcio (proibito dai jihadisti) con un pallone invisibile, come nella partita a tennis alla fine di Blow Up. Un rigurgito di cinefilia? «Macché. Se c'è un regista, ancora oggi, a cinquantaquattro anni, senza una solida cultura cinematografica, quello sono io. Certo, a Mosca mi avevano imbottito di Neorealismo, Nouvelle vague, Nuovo cinema tedesco, Cassavetes, John Ford…Ma venivo comunque da un paese dove non si realizzano film e non ci sono sale. E quelle poche proiettavano kung-fu, Bollywood e spaghetti western: specie la serie di Trinità con Bud Spencer e Terence Hill. Il vero spettacolo era in platea, dove il pubblico si alzava di botto, tutti insieme, a sostegno dell'eroe, solo contro tutti. Tanto che mi ero convinto che il western fosse il genere di maggiore impatto sociale. Non avevo, d'altra parte, che i tre Trinità da citare quando ho affrontato l'esame d'ammissione alla grande scuola sovietica: gli esaminatori mi guardarono allibiti. Okey, avevo visto anche il peplum italiano, I sette gladiatori e Il monello — dove mi ero addormentato — ma la cosa non parve colpire positivamente i miei esaminatori. Del resto l'esame stesso era una babele: sudamericani, afgani, vietnamiti, arabi. Chi recitava poesie, chi suonava la chitarra. Io mi sentivo perso: è così che si diventa artisti? Non lo sarei mai stato. Alla fine furono anni di vero apprendimento e grandi umiliazioni. I saputelli non mancavano mai di mettermi davanti ai miei limiti. Non avevo cultura. Non conoscevo i registi o i pittori sui quali ci interrogavano. Per me Truffaut era una marca di cioccolato francese. Bergman? Antonioni? Illustri sconosciuti. In Africa la vita non era fatta di libri e musei. Quel che mi apparteneva — le donne che danzavano in strada, i costumi che cuciva mio zio — a Mosca non valevano niente. Avrei voluto urlare: "Non conosco Bach, ma Oum Kalthoum e Dimi Mint Abba, la cantante più grande della Mauritania, è stata lei a cullarmi da piccolo!". Comunque il fatto che alla fine mi abbiano preso prova che si può arrivare a fare un mestiere anche senza esserne obbligatoriamente malati. E dunque, per tornare alla sua domanda, la risposta è no: non ero cinefilo e continuo a non esserlo». Ritentiamo. Ma come nasce il suo desiderio di cinema? «Non dal cinema, ma da mia madre. E dal fratello che non ho mai conosciuto. Meglio: dall'evocazione quasi quotidiana di mia madre del suo primo figlio». Pare la replica dell'infanzia di James M. Barrie, l'autore di Peter Pan, ossessionato da bimbo dall'angoscia della madre per la perdita del figlio prediletto: «Sì, forse è un po' così. Le spiego. Mio fratello era nato da un rapporto precedente avuto da mia madre con un algerino che l'ha portato con sé nel suo paese. Mia madre l'ha atteso sempre. Non è mai tornato. E lei non ha mai smesso di parlare di questo Chérif, che cresceva lontano. Per me, ultimo nato di un'ampia nidiata, era diventato un mito, ravvivato di tanto in tanto da una lettera, da una foto in bianco e nero. Finalmente, un giorno, avvenne il fantomatico incontro tra mia madre e lui, a Dakar. Mamma tornò a casa dicendo: "Chérif studia cinema a Mosca, girerà dei film". Nessuno l'ha mai più visto. Ma quel giorno capii che cosa avrei fatto io della mia vita. Se volevo far piacere a mia madre, prendere il posto di quel figlio di cui lei parlava ogni giorno, dovevo girare dei film» .

LO SCOGLIO DEL CINISMO

di Gad Lerner, del 10/05/15
da http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/05/10/lo-scoglio-del-cinismo22.html

UNA catastrofe che sta trasformandosi in collasso geopolitico. L'esito della proposta di Jean-Claude Juncker, anticipata ieri da Repubblica, è del tutto incerto. Le resistenze saranno fortissime, e speriamo che basti a vincerle l'abilità con cui il vecchio tecnocrate lussemburghese ha deciso di fare ricorso a una procedura d'urgenza, svincolata dall'obbligo di un voto unanime. Intanto, già ne risulta sovvertita quella visione miope della Fortezza Europa secondo cui la grande fuga dal Medio Oriente e dall'Africa si potrebbe disincentivare semplicemente opponendole una resistenza passiva.
Solo il britannico Cameron ebbe il coraggio di dirlo a voce alta, quando accusò la missione italiana Mare Nostrum di incoraggiare i profughi alla traversata. Ma di fatto, nel dicembre scorso, il varo di Triton come missione limitata al presidio delle acque territoriali europee aveva questo implicito presupposto: lasciamo che affoghino in mare, vedrete che gli altri non partiranno più. Un'omissione di soccorso calcolata, i cui effetti pesano sulla coscienza dell'Europa e il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti. Neanche la strage del 19 aprile scorso, con oltre ottocento morti, pareva aver scosso il summit dell'Ue. Che si era limitato a triplicare i fondi della missione Triton senza modificarne le finalità contenitive. Soprattutto, senza riconoscere fra le priorità imposte dall'emergenza, insieme al salvataggio, anche l'accoglienza di chi ne ha diritto: cioè i richiedenti asilo.
Il diritto d'asilo non è un optional affidato alla sensibilità dei governi. È uno dei diritti fondamentali dell'uomo riconosciuto come tale dalla Convenzione di Ginevra. Ma a ricordarcelo è dovuto intervenire il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, denunciando la grave inadempienza di cui si è macchiata l'Europa: non avere previsto «canali legali e regolari di immigrazione», con ciò lasciando alle organizzazioni criminali un monopolio di fatto sulle rotte del sud Mediterraneo. Ha dovuto ricordarci ancora Ban Ki-moon: «La sfida non riguarda solo il miglioramento dei soccorsi e dell'accesso alla protezione, ma anche assicurare il diritto all'asilo del crescente numero di persone che scappano dalla guerra e cercano rifugio ». Una visione ben diversa da quella dei nostri governanti che, per assecondare il turbamento dell'opinione pubblica, non avevano trovato di meglio che promettere il bombardamento degli scafisti. Demagogia all'ingrosso, come se non fosse ovvio — sono sempre parole di Ban Ki-moon — che «non c'è una soluzione militare alla tragedia umana che sta avvenendo nel Mediterraneo».
Così, giovedì scorso a Strasburgo, il presidente Juncker ha tardivamente riconosciuto che «avere interrotto Mare Nostrum è stato un errore che ha provocato gravi perdite umane». Autocritica che riguarda l'Europa ma che non assolve il governo italiano, perché nessuno ci aveva imposto, col varo di Triton, la revoca della missione della nostra Marina Militare in acque internazionali.
Mercoledì prossimo la Commissione europea dovrebbe approvare, se riuscirà a vincere il parere contrario del Regno Unito e di altri Paesi — il fondamentale principio della condivisione per quote dell'accoglienza dei richiedenti asilo. Sul piano storico, oltre che morale, l'opposizione britannica suona davvero indifendibile: Londra aspira a diventare epicentro della finanza transnazionale, offre un paio di battelli e di elicotteri, ma esige che i profughi restino alla larga dalla sua isola felice. Come se l'impero della regina Elisabetta non avesse responsabilità coloniali nel disastro africano e mediorientale che ora, tutti insieme, tocca gestire.
Sarà aspro lo scontro in sede di Consiglio d'Europa, quando i governi dovranno ratificare la nuova Agenda sull'immigrazione. L'egoismo denunciato ieri dal nostro presidente Mattarella fa il paio con una vera e propria pulsione autolesionistica che paralizza la politica estera europea anche là dove sono in gioco suoi interessi vitali, dalla Libia al Medio Oriente caduti preda delle scorrerie dei jihadisti.
Il primo, vero risultato concreto di una pressione che ha visto in prima fila Federica Mogherini con il governo italiano, sostenuti da Germania, Francia, Spagna e Grecia, è la possibilità di un'equa ripartizione dei richiedenti asilo. Per i quali sarà necessario istituire corridoi umanitari e snellire le procedure di riconoscimento; sia all'interno dei singoli Stati, sia con mutua reciprocità.
Forti di questa assunzione di responsabilità, e passato il vaglio del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sarà ineludibile affrontare la spinosa questione libica. Scartate le ipotesi facilone di spedizioni militari nel deserto, l'azione di contrasto degli scafisti richiederà maggior consapevolezza di quella mostrata finora. I fuggiaschi dalla Siria e dall'Eritrea, privi di altre vie di scampo, continueranno a considerare il rischio della traversata in mare come la scelta che resta per loro più razionale. Né si può pensare di risolvere il problema abbandonandoli nel deserto o sulle coste. L'istituzione di presidi umanitari, luoghi di smistamento e identificazione, trasporti degni e sicuri, sono l'unica alternativa che prima o poi s'imporrà per chi è disposto a privarsi di tutto pur di partire. Negli ultimi tre mesi è già quadruplicato il numero dei migranti che raggiungono la Grecia via terra. Non tutti hanno diritto all'asilo politico, e non sempre è facile distinguere fra chi è spinto dal bisogno economico e chi è profugo di guerra. Ma solo un dispositivo congegnato d'intesa con l'Unhcr e le organizzazioni del volontariato può ovviare al caos in cui siamo precipitati.
Vincere l'indifferenza è diventata per l'Europa anche una convenienza. Se n'è reso conto perfino un tecnocrate come Juncker.

William Easterly: "Risorse nelle mani di pochi, più giustizia per battere la crisi"