Meno petrolio più agricoltura.


Un momento dell’incontro tra Petrini e Pierre Rabhi

Pierre Rabhi: “Ritorniamo alla terra l’orto è un atto di resistenza”

Incontro col filosofo-contadino Pierre Rabhi: “Meno petrolio più agricoltura”
da: http://www.repubblica.it/cultura/2014/06/16/news/pierre_rabhi_meno_petrolio_pi_agricoltura-89077992/?ref=search

CONTADINO , filosofo e scrittore francese d’origine algerina, Pierre Rabhi è uno dei pionieri dell’agroecologia. Ha fondato diversi movimenti come Terre et Humanisme e Colibris ed è creatore del concetto “Un’oasi in ogni luogo”. Promuove un paradigma basato sul rispetto dell’uomo e della terra, e lo fa attraverso libri, conferenze e iniziative che hanno toccato l’Africa, l’Europa e la sua vita stessa, votata alla campagna e all’agricoltura sin dal 1961. Una scelta che ha influenzato notevolmente il suo percorso. Un grande pensatore, che andava interpellato per imparare meglio a “voler bene alla terra”.

Cosa pensi del futuro dell’agricoltura, soprattutto rispetto all’urbanizzazione crescente e con il numero degli abitanti delle città che nel mondo ha già superato quello delle zone rurali?

«Il processo di urbanizzazione mi preoccupa tantissimo, da molto tempo. Noi, nel 1961 abbiamo deciso di tornare a vivere in campagna come scelta politica, perché non volevamo sottostare all’evidente alienazione di chi baratta la propria vita con un salario. È un’esistenza che sa di carcere, nel nome del mito di un progresso che rinuncia alla natura. Questa in realtà è una contraddizione del progresso. Ciò che in teoria dovrebbe liberarci, non fa altro che imprigionarci».

Mentre negli anni ‘60 tutti pensavano che la vera liberazione fosse quella dalla storica fatica contadina, tu sostenevi il contrario…

«L’Europa ci proponeva un modello glorioso, grandioso. Qualcosa che prometteva di cambiare in meglio le nostre vite. Il problema è che era tutto fondato sull’uso del petrolio e, in realtà, il bilancio tra lo sfruttamento delle risorse e ciò che si è prodotto è stato negativo. Su questo paradigma illusorio si è costruito poi un grande malinteso, perché ora tutti i popoli del Paesi emergenti vogliono fare come noi, ma non ce la potranno fare».

Il paradigma illusorio nel 1961 si iniziava però anche ad applicare all’agricoltura. Il modello industriale e produttivista invadeva anche le campagne. L’economia di sussistenza dei contadini era considerata miserabile, vecchia, legata a una terra che non può dare orgoglio e gratificazione.

«Il modello funziona in maniera molto potente anche a livello psicologico. Abbiamo sempre sostenuto che i contadini sono l’ultima ruota del carun
ro, e che se l’urbanizzazione era il progresso, nelle campagne non poteva esserci. Ma poi, quando c’è una crisi grave, tutti si ricordano della campagna. È il contadino che tiene in vita gli elementi, che detiene la vita e ciò che è fondamentale per essa».

Questa è anche una visione spirituale, l’ultimo degli ultimi che sarà primo, e appartiene alla visione cristiana. È questa la tua formazione?

«All’epoca sì. Ora resto dell’idea che l’amore sia la forza più grande in grado di cambiare il mondo, ma non ho appartenenze formali. Ora credo in quello che faccio: il contadino. Posso spiegarvi come fare affinché la terra riesca a creare energia per la vita, ma non il perché ci riesce. Coltivo una parte molto razionale ma c’è momento in cui la razionalità non può più darci delle risposte. Sono molto affascinato dal mistero della vita, ma se mi chiedono, l’unica cosa a cui non potrei mai rinunciare è il mio orto».

La razionalità ha un limite, l’orto è un universo illimitato.

«L’urbanizzazione ha creato un universo limitato e tutti si sono dovuti adattare, ma in quell’universo non c’è più il fondamento della vita. Abbiamo creato un mondo parallelo senza natura e ora la gente non la comprende più».

Se giochiamo una partita contro un gigante non abbiamo nessuna possibilità, allora dobbiamo cambiare il campo di gioco e le regole del gioco.

«È quello che si chiama l’uscita dal paradigma. Nel 2002 mi hanno chiesto di presentarmi alle presidenziali. Mi sono detto che sarebbe stato interessante donare uno spazio di espressione della gente e allora ho dato vita a un luogo per raggrupparsi e riflettere, per ricercare la creatività della società civile. Da lì è uscito un programma che apparentemente non aveva nulla a che fare con la politica, tutto basato sull’amore, sulle utopie, sull’agricoltura ecologica, sul ruolo della donna e sull’educazione. Tenemmo 40 conferenze in giro per la Francia ed erano sempre piene: significa che si può avere fiducia nel futuro».

Che pensi della situazione in Africa?

«Disastrosa, gli asiatici depredano le risorse, i capi di Stato sono corrotti. Guarda l’Algeria, non produce ma esporta, si è addormentata sullo sfruttamento petrolifero. Non si produce cibo, i settori vitali sono morti. Se l’Algeria smette di esportare petrolio muore. Ci sono caste che si prendono tutta questa ricchezza, come in altri Paesi, e lasciano il popolo nella povertà».

Noi abbiamo scelto di fare 10.000 orti in Africa, e credo che sia il momento per costruire qualcosa nel continente. Una dimensione umana e di organizzazione, per ricreare una classe dirigente che abbia a cuore la comunità e non il commercio, la salvaguardia della biodiversità, la lotta alla fame e alla malnutrizione.

«È una cosa straordinaria. Quando mi hanno domandato di intervenire in Burkina Faso, io non conoscevo quella parte dell’Africa. Ma ho analizzato la situazione. L’agricoltura chimica non si poteva fare, le persone dicevano “io sono talmente povero che non posso acquistare fertilizzanti e diserbanti”. È un sistema insostenibile per loro, perché è un sistema fatto per vendere e non per nutrirsi. È il sistema che produce la fame. Ora questo meccanismo sta rovinando anche i contadini europei, perché per fare agricoltura industriale gli strumenti sono troppo cari e la crisi peggiora la situazione. Si impoveriscono e sono diventati, almeno in Francia, la categoria di lavoratori che subisce più suicidi. Se c’è gente che fa piccoli orti, io dico «bene!» Un orto è un atto politico, di resistenza ».

Made in Europe: gli operai del tessile sotto la soglia di povertà

da:http://it.fashionmag.com/news/Made-in-Europe-gli-operai-del-tessile-sotto-la-soglia-di-poverta,411905.html#utm_source=newsletter&utm_medium=email

Made in Europe: gli operai del tessile sotto la soglia di povertà

L’ONG Clean Clothes Campaign ha pubblicato i risultati di un'inchiesta condotta in nove Paesi dell'Europa dell’Est e in Turchia, indicando che le condizioni di lavoro e i salari praticati non hanno certo nulla da invidiare a quelli dell'Asia. Per l’organismo, acquistare i vestiti più costosi e puntare a produzioni europee non migliora per nulla le condizioni di produzione.

Ed è precisamente questo “mito” che CCC ha voluto smontare, studiando le condizioni di lavoro in Romania, Ucraina, Turchia, Bulgaria, Croazia, Slovacchia, Georgia, Macedonia, Bosnia-Erzegovina e Moldavia. 

Non sorprende che questi Paesi producano principalmente per i marchi europei: l’ONG cita Hugo Boss, Adidas, Zara, H&M e Benetton. E mentre i due giganti sono stati poco colpiti dalla crisi, le condizioni in cui si lavora per Zara e H&M sarebbero in realtà persino peggiorate dal 2008/2009.

A sentire CCC, i salari minimi erogati ai lavoratori del settore tessile raggiungerebbero solo il 14% del salario minimo “di sussistenza” in Bulgaria, Ucraina e Macedonia, e il 36% in Croazia. Oltre agli stipendi, sono anche evidenziati in modo critico i provvedimenti antisociali quasi sempre adottati, soprattutto di fronte al desiderio di costituire dei sindacati. E anche quando riescono a formarsi, queste sigle sindacali non riescono a negoziare aumenti salariali, con le questioni della non retribuzione delle ore di lavoro straordinario o il mancato pagamento dei contributi previdenziali che già da sole danno molto da fare ai loro rappresentanti.


«Attivisti e lavoratori chiedono ai marchi europei di moda di assicurarsi, in una prima fase nell'immediato, che i lavoratori delle regioni studiate ricevano un salario netto di base corrispondente almeno al 60% del salario medio nazionale», scrive l’ONG.

«I prezzi di vendita devono essere calcolati su questa base, consentendo gli aumenti della retribuzione. I marchi devono agire ora e garantire che i lavoratori del tessile-abbigliamento della propria catena di fornitura (che si trovi in Asia o in Europa) ricevano un salario dignitoso».

Matthieu Guinebault (Versione italiana di Gianluca Bolelli)

Calzature in frenata nel 1° trimestre 2014



Calzature in frenata nel 1° trimestre 2014

“Il 2014 si è aperto con un’inversione di rotta rispetto ai buoni risultati del 2013. La competitività delle nostre imprese non basta più. Dopo 7 anni di flessione non si vede ancora una ripresa dei consumi in Italia. Siamo molto penalizzati, inoltre, dai tassi di cambio, con un euro troppo forte”. Questo il quadro pessimista dipinto dal presidente di Assocalzaturifici, Cleto Sagripanti, in occasione dell’assemblea annuale dell’associazione, tenutasi venerdì 6 giugno a Milano.

Foto: Tods.com

Mentre il 2013 si è chiuso con una sostanziale tenuta del comparto sui livelli del 2012, con esportazioni pari a 8,1 miliardi di euro (in crescita del 5,7% sull’anno precedente) e una produzione italiana che vale 7,5 miliardi, i primi mesi del 2014 mostrano dinamiche molto meno brillanti. Nel primo trimestre la produzione del calzaturiero s’iscrive in negativo, calando dello 0,3% in termini di volume rispetto all’analogo periodo del 2013, mentre in termini di valore si prevede una lieve crescita dell’1,5%, indica Assocalzaturifici in una nota.

Si conferma quindi per il 2014 un mercato domestico “totalmente fermo”. “Le esportazioni tuttavia non riescono da sole a compensare il continuo prosciugamento dei consumi interni”, sottolinea l’associazione. Nel primo bimestre l’export delle calzature italiane presenta una crescita moderata in valore del 3,1% (era del +5,5% nel primo bimestre 2012), a fronte di un calo del 2,8% in volume.

Il trend continua ad essere particolarmente negativo, con arretramenti a doppia cifra, nei Paesi dell’Est Europa e dell’ex URSS. La svalutazione del rublo, la stagnazione dell’economia in Russia, cui si aggiungono le tensioni politiche in Ucraina, hanno provocato di fatto un’importante frenata delle esportazioni di calzature italiane verso questi Paesi.

Il totale dell’export per gennaio e febbraio 2014 si attesta a 1,58 miliardi di euro, e il saldo commerciale risulta attivo per 786,3 milioni di euro (+6% rispetto all’analogo periodo del 2013).

Cleto Sagripanti all'assemblea di Assocalzaturifici

Per quel che riguarda l'occupazione, infine, la situazione continua a peggiorare. “Nei primi tre mesi del 2014 nel settore calzaturiero, includendo la componentistica, abbiamo perso lo stesso numero di addetti, circa 1.400 persone, che nell’intero 2013, e hanno chiuso altre 100 imprese”, nota Cleto Sagripanti, che auspica un ritorno della produzione manifatturiera in Europa, diminuita del 12,4% dal 2008 a oggi.

"Nonostante il deficit competitivo che abbiamo, il nostro Paese risulta al secondo posto per numero di imprese che hanno deciso di far rientrare la produzione nel Paese d’origine. Su 194 riallocazioni in Europa, il 41% delle aziende è italiano, solo il 20% è tedesco. Tra tutte le riallocazioni internazionali considerate a livello mondiale, l'abbigliamento e le calzature rappresentano il 21% e sono il primo settore davanti all'elettronica e alla meccanica”, puntualizza il presidente.

La Cina, in particolare, dove avevano delocalizzato la produzione numerose imprese, sta cambiando pelle, con un innalzamento dei salari e una compressione dei profiti delle imprese industriali. Da player manifatturiero sta diventando un mercato di consumo, meno attraente come sede produttiva delle filiere globali.

"Noi crediamo nel reshoring", conclude Cleto Sagripanti, ma perché si attui questo 'ritorno', ci deve essere un contributo da parte della politica, che "deve rimettere al centro la manifattura, con una legge ad hoc che aiuti i distretti e le piccole imprese, per esempio lavorando sui mini-bond, con agevolazioni fiscali per gli investimenti, con la riduzione fiscale su imprese e famiglie, e con la semplificazione della burocrazia".




"Mamma li comunisti: panico a Wall Street" di ilsimplicissimus

da: https://ilsimplicissimus2.wordpress.com/tag/piketty/

Mamma li comunisti: panico a Wall Street

pikettyQualche giorno fa avevo parlato della bomba caduta nel quartier generale del liberismo, con due conferenze dell’economista Thomas Piketty che sia a Washington che ad Harvard aveva contestato alla radice le tesi economiche del pensiero unico. E lo aveva fatto non con intervento estemporaneo, ma presentando una monumentale ricerca – Il Capitale nel XXI° secolo – che attraverso i dati di realtà raccolti durante 15 anni da decine e decine di ricercatori in tutto il mondo, confuta le teorie economiche correnti, scardina i miti con cui esse si accompagnano – come ad esempio quello del merito in una società tornata ad essere immobile o quello del marcato - e infine mostra come tale assetto non produce benessere per tutti, come affermano gli ipocriti, ma solo ricchezza stratosferica per pochi e povertà per molti.

Un ritorno insomma alle società della diseguaglianza e delle oligarchie autoritarie ottenuto grazie all’iniezione di dosi letali di pensiero unico resa grazie ai media ormai generalmente in possesso dei grandi gruppi e condotta con strumenti monetari come in Europa o legislativi sfruttando le paure del nuovo nemico appositamente creato, il terrorismo (o magari la Russia in un sinergico ritorno al passato). 

Inutile dire che la presentazione dell’opera di Piketty ha fatto scalpore, dal momento che è difficile confutarla e riparare lo strappo prodotto sullo sfondo di scena: rappresenta intellettualmente un chiaro segno di svolta. 

Tanto più che i centri di potere economico finanziario stanno producendo il loro massimo sforzo nel convincere le popolazioni europee di una fantomatica ripresa, ricorrendo anche a temporanee elemosine, per evitare intoppi alle cessioni di sovranità al sistema finanziario che si verificherebbero con la sconfitta dei partiti dell’austerità alle europee.

Così la reazione liberista, incapace di dare una risposta razionale a Piketty, si è espressa attraverso una desolante accusa di marxismo venuta dal Wall Street Journal e ripresa poi dai media delle colonie, compreso il Corriere della Sera, organo ufficiale della massima comun reazione del sistema politico italiano

Nessuna analisi e nessun ragionamento, ma solo l’evocazione del nome di Marx per segnalare agli incliti della finanza e ai colti del grande fratello i confini di appartenenza.

Del resto i dati di realtà sono difficili da contestare e lo stesso Paul Krugman sostiene che il Piketty panic che si è impadronito degli ideologi del pensiero unico deriva semplicemente dalla loro mancanza di idee

Figuriamoci dunque l’imbarazzo di quelli che avevano esaltato Renzi perché non aveva letto Marx (come se poi avesse letto Adam Smith, Bentham, Weber, Keynes o un qualunque manuale scolastico di economia politica : non risulta infatti siano stati pubblicati sull’albo di Topolino).

Ma in questa esplosione di panico e di fascino (le prenotazioni del Capitale nel XXI° secolo sono andate alle stelle) c’è qualcosa di più: il libro è come una liberazione da una cappa. 

Piketty non è marxista,  è definito tale solo da chi non sopporta che alcun dogma del liberismo venga messo in discussione, ma non sa come replicare: la costruzione è intellettualmente così fragile, posticcia, così chiaramente di natura politica, che anche a grattarne un po’ di malta rischia di cadere rovinosamente trascinando a fondo anche chi ha costruito nome e fortuna suonando ottusamente l’organetto. E lo si vede anche da queste reazioni: il solo accenno all’eguaglianza rende tout court marxisti, quindi comunisti, quindi nemici da additare alle vittime opportunamente addestrate a farlo e a colpevolizzarsi. 

Di certo quell’1% che detiene la metà della ricchezza mondiale e quegli 85 super ricchi che guadagnano come 3 miliardi e mezzo di persone, non amano che se ne parli. E lo si capisce: con quello che hanno speso per costruirsi un alibi che avesse la parvenza della scienza, adesso rischiano di essere messi a nudo.

L'internazionale neoliberista contro Thomas Piketty e al storia delle diseguaglianze sociali

da:http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/05/31/perche-hanno-paura-delle-idee-di-piketty51.html?ref=search

Perché hanno paura delle idee di Piketty

di Federico Rampini

Thomas Piketty è il Nemico Pubblico da abbattere. L'Internazionale neoliberista si mobilita per demolire un economista francese semi-sconosciuto (al pubblico di massa) fino all'altroieri. 

Dal Wall Street Journal al Financial Times, gli organi più autorevoli del pensiero unico mercatista, è un crescendo di attacchi contro lo studioso parigino, "colpevole" di aver messo le diseguaglianze sociali al centro dell'attenzione nella comunità scientifica.

Il Financial Times ha messo al lavoro per settimane una task force di economisti e giornalisti. La loro missione: scovare errori nel saggio Il Capitale nel X-XI secolo , il monumentale studio che Piketty ha dedicato alle diseguaglianze nel capitalismo degli ultimi due secoli. 

Gli attacchi pubblicati dal Financial Times — e rintuzzati dall'economista francese con una risposta molto dettagliata, ripres a dal New York Times — lasciano interdetti e perplessi per la loro futilità. Se non fosse che quelle accuse lasciano intuire ben altro; l'accanimento contro Piketty sembra una resa dei conti, il tentativo di mettere a tacere una voce scomoda screditandola sotto il profilo scientifico. 

Il nucleo sostanziale delle 600 pagine di Piketty è questo: il capitalismo è stato accompagnato da diseguaglianze estreme dalla Rivoluzione francese fino alla prima guerra mondiale; è seguito un periodo di relativo livellamento dei patrimoni e dei redditi fra le classi sociali nel XX secolo (compreso il trentennio "glorioso" dopo la seconda guerra mondiale); infine negli ultimi trent'anni le disparità hanno ripreso a salire a livelli estremi. 

Anche perché una oligarchia di privilegiati — in particolare i top manager — hanno "fatto secessione" dal resto della società, conquistandosi il potere di auto-determinare i propri compensi senza alcun nesso con la loro produttività reale. Tesi doppiamente scomoda. Sia perché individua cause precise dietro le diseguaglianze. Sia perché dimostra che queste non sono affatto inevitabili. 

Gli "errori" che il Financial Times pretende di aver individuato sono marginali e contestabili. Il quotidiano sostiene ad esempio che Piketty avrebbe dovuto usare statistiche sulla tassa patrimoniale svedese del 1920 anziché del 1908; oppure contesta alcune stime sul "differenziale di mortalità" in Francia. 

La difesa argomentata di Piketty si avvale del fatto che il suo studio non è un exploit individuale: ci hanno lavorato più di trenta economisti di vari continenti, da 15 anni, inclusi docenti di Berkeley, California. 

Il libro viene accompagnato da sterminate appendici di dati archiviate online per non appesantire oltremodo la lettura. La vera notizia è proprio questo accanimento. Cosa c'è dietro? La gelosia è uno dei possibili moventi visto che Piketty si è imposto come un fenomeno da star-system che non ha precedenti nella "scienza triste" (come viene definita l'economia): invitato da Barack Obama per un incontro coi consiglieri della Casa Bianca; poi dai due Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz a New York, infine da Harvard. 

Il suo libro è in vetta alle classifiche negli Stati Uniti. Ma l'ostilità verso Piketty ha motivazioni più profonde. Il francese non è sconosciuto negli ambienti accademici. Enfant prodige della sua disciplina, brillante matematico, insegnava al prestigioso Massachusetts Institute of Technology quando era ventenne. Poi fece un affronto imperdonabile: voltò le spalle alle università americane e tornò a lavorare in Francia. Con due accuse pesanti: criticando gli economisti Usa per la loro "deriva matematica" (modelli sempre più complessi e sempre meno attinenti ai problemi reali), ed anche per i loro latenti conflitti d'interessi. Quest'ultima accusa venne lanciata, a livello divulgativo, anche dal celebre documentario Inside Job: con nomi e cognomi di illustri economisti arricchiti grazie a consulenze per i big di Wall Street, l'industria petrolifera, ecc.

Il Financial Times è un ottimo giornale, ma non ha mai preso le distanze dall'ideologia neoliberista, neppure dopo il disastro sistemico del 2008. Il mercato è (quasi) sempre la soluzione dei nostri problemi, a leggere i suoi editoriali. Le energie che oggi il Financial Times dispiega per demolire Piketty, non le ha dedicate con la stessa intensità e coerenza a individuare tutti gli errori della scienza economica neoclassica e liberale degli ultimi trent'anni. 

In questo il Financial Times e il Wall Street si accodano ad un comportamento omertoso che accomuna gran parte degli economisti: una scienza colpevole di tanti danni e incredibilmente avara di autocritiche. Piketty ironizza sul fatto che «secondo il Financial Times l'Inghilterra di oggi sarebbe una società più egualitaria di quanto lo sia stata la Svezia» nel periodo di massima redistribuzione sotto governi socialdemocratici. Una tesi che contraddice l'evidenza empirica e sbeffeggia il buonsenso comune

Un altro economista controcorrente, l'australiano David Gruen, ha descritto in questi termini il comportamento dell'establishment neoliberista alla vigilia del disastro sistemico del 2008: «È come se sul Titanic, avviato alla collisione finale contro l'iceberg, tutti quelli che avrebbero potuto e dovuto avvistare il disastro, fossero rimasti chiusi dentro una cabina senza oblò, impegnati a disegnare una nuova nave meravigliosa, fatta per un mare senza iceberg». 

Un grande intellettuale inglese scomparso, Tony Judt, ricordava quel che fu l'austerity del dopoguerra: la ricchezza e il reddito in Gran Bretagna vennero redistribuiti con una fiscalità progressiva che oggi sembrerebbe da esproprio. La quota del patrimonio nazionale detenuta dall'1% dei più ricchi era scesa brutalmente, dal 56% del 1938 al 43% nel 1954. Il 13% di ricchezza redistribuita è un'operazione "livellatrice" di rara potenza. Ben diversa dal segno sociale dell'austerity di oggi. Tutto questo accadde in un'economia capitalistica, che seppe poi sprigionare il boom degli anni Sessanta. 

Piketty risulta insopportabile alle poderose armate del neoliberismo, perché lui non è un neomarxista, non è un pensatore utopico e radicale. Dimostra che un capitalismo meno diseguale è possibile, perché in realtà è già esistito. 


Se questo è Van Rompuy!


da: http://www.quieuropa.it/van-rompuy-gaffe-rivelatoria-al-premio-carlomagno/
Carlo Magno e Van Rompuy – Un accostamento anacronistico               
Bruxelles, Aquisgrana – 
 Nelle ultime ore ad Aquisgrana è stato consegnato il "Premio Carlomagno"
 Sbalorditivo l'intervento del premiato di turno, il Presidente del Consiglio UE  Herman Van Rompuy: "L'Ue cambi rotta subito: è urgente ed essenziale che sia anche protettiva, non solo degli affaristi, ma anche degli impiegati e dei lavoratori, non solo quelli con i diplomi e che sanno le lingue ma di tutti i cittadini". 
Lo ha detto, anzi confessato candidamente, Van Rompuy, a coronamento della cerimonia.
Insomma una gaffe ciclopica nella quale il nominato amico dei poteri forti e dell'élite social-comunista e liberal-capitalista ha – suo malgrado – ammesso l'evidenza: cioè che fino ad ora l'UE – per estensione - è stata complice degli affaristi e degli speculatori, contro i popoli e la giustizia. 
Insomma, detto da noi comuni mortali ha un peso… Ma riconosciuto da un "semi-dio" illuminato parte integrante del sistema, come Van Rompuy, ne ha assolutamente un altro. 
A sgombrare il campo da eventuali equivoci anti-europeisti ed a ricordare a tutti che il 57% degli europei non-votanti alle europee non sono "saggi" ma squinternati "populisti" ci aveva pensato poco prima, in apertura della cerimonia, Enrico Letta, secondo il quale "l'onda populista è montata, ma nei grandi paesi, come Germania e Italia sventola la bandiera dell'europeismo". Come dire: l'iconografia è potere, e il potere ce l'abbiamo noi!

da: http://frontediliberazionedaibanchieri.it/2014/05/gaffe-van-rompuy-europa-protegga-i-lavoratori-non-gli-affaristi-video.html

Gaffe Van Rompuy: “Europa protegga i lavoratori, non gli affaristi” 


Praticamente ha confessato che fino ad oggi si proteggevano gli affaristi, la finanza ed i banksters. 
Claudio Marconi

AQUISGRANA – “L‘Europa cambi rotta: protegga i lavoratori e non solo gli affaristi”: a dirlo non è un’euroscettico Nigel Farage o Marine Le Pen, ma niente meno che Herman Van Rompuy, dal 1° dicembre del 2009 presidente del Consiglio Europeo. 
“L’Ue cambi rotta subito: è “urgente” ed “essenziale” che sia “anche protettiva”, “non solo degli affaristi, ma anche degli impiegati” e “dei lavoratori”, “non solo quelli con i diplomi e che sanno le lingue ma di tutti i cittadini”,  ha detto Van Rompuy ricevendo il più importante premio europeo, il ‘Carlo Magno 2014′. 
Si è rivolto anche ai rappresentanti di Moldavia e Georgia, complimentandosi con il loro coraggio nel percorrere la via dell’associazione all’Unione Europea.


140 idioti del Bilderberg ancora si incontrano!


da: http://www.repubblica.it/economia/2014/05/28/news/bilderberg_copenhagen_fiat_monti-87490149/?ref=fbpr

Il club Bilderberg si riunisce a Copenaghen: quattro gli italiani nel giro dei potenti

Alla 62esima riunione del gruppo, in Danimarca dal 29 maggio al primo giugno, parteciperanno Franco Bernabè, John Elkann, Mario Monti e Monica Maggioni. Tra i temi sul tavolo l'ondata anti euro guidata dal paese ospitante, il peso crescente di Putin con l'asse tra Russia e Cina e la privacy. Arrestati due giornalisti



MILANO -  E' il vertice internazionale più esclusivo del mondo. Quest'anno la 62esima riunione del gruppo Bilderberg, dal 29 maggio al primo giugno, verrà ospitata dalla Danimarca, al Marriot Hotel di Copenaghen. Un incontro meno lussuoso rispetto a quello dello scorso anno: allora nella campagna inglese dell'Hertofordshire una normale stanza doppia del Grove Hotel costava dalle 400 sterline in su, quest'anno basteranno 230 euro. Una scelta di più basso profilo, probabilmente legata anche al fatto che la Danimarca è il cuore della rivolta antieuropesta lanciata da Morten Messerschmidt che alle ultime europee ha preso il 27% dei consensi.

Dallo scorso anno il club si è dotato dell'ufficio stampa con la pubblicazione dei partecipanti agli incontri e la pubblicazione dei macro temi di discussione. Resta però difficile vedere chi entra ed esce dall'albergo: la polizia ha predisposto un cordone di sicurezza a tre metri dall'albergo - interamente riservato per l'occasione per tenere lontani i curiosi e soprattutto i giornalisti (ne sono già stati arrestati due che nel bar dell'hotel hanno provato a intervistare gli organizzatori). E se le spese organizzative sono a carico dei membri danesi del Club (pagano sempre i membri del direttivo del paese ospitante), quelle per la sicurezza sono a carico dei contribuenti: lo scorso anno il governo inglese spese 1,8 milioni di sterline, facendo infuriare l'opinione pubblica.

Di certo vi hanno preso parte tutti i membri dell'elite internazionale.
In passato si è scoperto che i convenuti comprendevano Henry Kissinger, il principe Carlo, Peter Mandelson, lord Carrington, David Cameron, la regina Beatrice d'Olanda, per fare qualche nome. Negli ultimi anni i nobili sono sempre meno a favore dei grandi della finanza: da Bill Gates e Henry Kravis di Kkr, da Eric Schmidt di Google al Generale Petraeus. Gli italiani non mancano mai, ma quest'anno saranno solo quattro:  Franco Bernabè, John Elkann, Mario Monti e Monica Maggioni. Lo scorso anno erano stati sette: Franco Bernabé, Lilli Gruber, Mario Monti, Enrico Tommaso Cucchiani, Gianfelice Rocca, Alberto Nagel ed Emanuele Ottolenghi .

Impossibile, quindi, sapere di cosa si discuterà nelle specifico. Il programma viene pubblicato solo dopo le riunioni, ma gli argomenti si ripetono: probabilmente quest'anno il gruppo parlerà di come arginare il potere crescente di Putin, già nel mirino da un paio di edizioni, e dell'asse Russia-Cina. Di certo si affronterà anche l'ondata anti euro rappresentata oltre che dai danesi, da Grillo, Le Pen e la Lega Nord. Secondo alcuni si parlerà anche di privacy: un paradosso per il club più segreto del mondo. Ancora di più se a discuterne ci sono i vertici di Google e Facebook che sulla mancanza di privacy hanno creato degli imperi.

Insomma, abbastanza per alimentare le teorie del complotto: "Cosa ci fanno 140 persone chiuse in un albergo per un fine settimana?". Decidono i destini del mondo, sostengono i detrattori. "Mettono attorno a un tavolo gli uomini più potenti della Terra per discutere off the records dello stato del mondo e per promuovere il dialogo tra Europa e Stati Uniti", recita il sito del gruppo.

E Stilinga pensa che le 140 persone che vogliono decidere per il mondo sono dei falliti e dei miserevoli. Sono 140 capocchie contro oltre 7 miliardi di abitanti. Ma che si diranno? E' più importante quanto si dicono i miliardi di persone che vivono qui e ora sulla terra che non questi poveretti presi dalla loro boria e completamente inutili per l'uminità.