Il Made in Italy sotto i tacchi


Dal Corriere:
http://www.corriere.it/inchieste/reportime/economia/made-italy-sotto-tacchi/38d22b3c-e4c9-11e2-8ffb-29023a5ee012.shtml

"(...) ecco la seconda tappa del Made in Italy: la Riviera del Brenta, tra Venezia e Padova, capitale della scarpe griffate.
Capitale ancora per poco se i nostri marchi continuano a cullarsi sulla convinzione che il mondo non si accorgerà mai del trucco sotto il tacco marchiato Made in Italy. Oggi l’export del prodotto di lusso regge bene alla crisi soprattutto grazie ai mercati emergenti. Basterebbe un po’ di lungimiranza per prevedere che i russi e i cinesi con i portafogli griffati non acquisteranno più il Made in Italy quando scopriranno che stanno pagando per una scritta esclusiva che mente sull’origine della produzione artigianale.
La norma sull’etichettatura europea infatti consente di realizzare all’estero le parti più importanti di qualunque prodotto manifatturiero e le nostre marche prediligono l’Europa dell’est e l’Asia grazie ai bassi costi della manodopera. Anche molte delle griffes francesi si spingono in Serbia, Romania, Cina e Indonesia per poi assemblare nella Riviera del Brenta le parti realizzate all’estero. La legge truffa lo consente. Alle griffes francesi conviene. I loro marchi del lusso, dopo avere comprato gli italiani Gucci, Bottega Veneta, Sergio Rossi e via dicendo, producono soprattutto in quei distretti italiani dell’artigianato che ancora godono di prestigio.
Il discredito che potrebbe colpire quei distretti può penalizzare soltanto il brand più prezioso: il nostroMade in Italy. I politici di casa nostra non hanno difeso l’esclusività della nostra manifattura artigianale quando hanno approvato regolamenti europei sull’etichettatura che consentono di marchiare Made in Italy prodotti realizzati in gran parte all’estero. Sono i responsabili della perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro della piccola e media impresa in favore di quella grande che ha ridotto i costi.
«I dati parlano chiaro», sostiene Matteo Ribon della Cna Federmoda Veneto «il fatturato del settore è lo stesso da dieci anni e la produzione si aggira sempre intorno ai 20 milioni di scarpe l'anno quindi è evidente che a perderci sono gli Italiani, in particolare gli artigiani annientati dalla doppia concorrenza: quella straniera causata dalla delocalizzazione e quella dei Cinesi che lavorano qui nel distretto».
Nel settore pelli calzature dal 2001 al 2012 le imprese individuali cinesi sono aumentate da 30 a 205 mentre hanno chiuso bottega 90 imprese artigiane italiane. I Cinesi hanno sostituito gli Italiani a colpi di concorrenza sleale. Illegalità, sfruttamento della manodopera (spesso in nero) sono alla base di un’inesorabile avanzata dei laboratori cinesi in tutti i distretti del Made in Italy.
La statistica smentisce impietosamente l’ipocrisia dei committenti italiani che fingono di non sapere perché i terzisti cinesi ai quali affidano la propria merce sono così rapidi, flessibili e concorrenziali. Tutte (proprio tutte) le volte che le forze dell’ordine si ricordano di effettuare un controllo nelle aziende “artigianali” cinesi, riscontrano almeno una delle seguenti irregolarità: impiego della manodopera in nero, riduzione in schiavitù di clandestini, violazione delle norme sulla sicurezza dei lavoratori, evasione contributiva e ovviamente fiscale. Avere sempre una mazzetta di soldi in nero sotto il bancone è particolarmente utile.
Le griffes delle scarpe sono state le prime in Italia ad arruolare direttamente terzisti cinesi. Ma non vedono, non sentono e non parlano. Però pagano a prezzo scontato le tomaie, che è poi la parte più artigianale della scarpa. Mentre i prezzi delle loro pregiate scarpe Made in Italy non sono affatto diminuiti. Sono invece drasticamente crollati i posti di lavoro per gli artigiani italiani.
L’Associazione tomaifici terzisti veneti presieduta dall’artigiano Federico Barison riunisce una quarantina di terzisti stanchi di aspettare che i politici regionali, la magistratura e le forze dell’ordine si accorgano della nuova “mala” del Brenta. Un esposto arrivato un anno fa alla Procura della Repubblica di Venezia non ha modificato lo scenario. Un paio di controlli e tutto è rientrato. Stranamente i controlli sono invece aumentati nei confronti degli associati.
Matteo Ribon della Cna denuncia: «Quest'anno ci sono 250 dipendenti di tomaifici e terzisti in cassa integrazione e venti aziende sono a rischio chiusura. Ovviamente solo italiane. Non mi risulta che quelle cinesi facciano richiesta di cassa integrazione».
Nel video registrato con camera nascosta si vedono numerosi operai cinesi intenti a cucire tomaie in un laboratorio della Riviera. Da una verifica è poi risultato che il titolare cinese aveva registrato presso l’ufficio preposto soltanto due dipendenti. Gli altri lavoravano in nero e non è dato sapere se fossero anche clandestini. L’imprenditore cinese cuciva tomaie a metà prezzo per una nota marca italiana che qualche mese prima l’aveva preferito all’artigiano italiano, che in mancanza di lavoro è stato costretto a mettere in cassa integrazione le sue operaie. Un altro costo per la collettività.
Finché non si applicheranno severe sanzioni anche contro i committenti e finché non si farà una norma che disponga la distruzione della merce pregiata trovata nei laboratori irregolari non cambierà niente. Il prestigio del Made in Italy resiste finché i panni sporchi continuano a essere lavati in famiglia. Denunciare è l’unica arma rimasta in mano agli artigiani.
Alle griffes per ora sta andando di lusso perché i cinesi (ricchi) non si sono accorti che potrebbero fare già tutto in casa, arruolando quelli (poveri), soprattutto gli emigrati in Italia per lo più illegalmente. Hanno goduto di dieci anni di impunità per trasformarsi in abili esecutori dell’eccellenza artigianale. Le stesse griffes hanno delocalizzato parte della produzione in Cina esportando le nostre preziose competenze su materiali, macchinari e tecniche di manifattura. Proprio dei maestri."

Il S.I.A.N. dell'Asl Roma C: un ente utile solo a chi ci lavora... per lo stipendio!

A cosa serve il S.I.A.N. ?

A nulla! solo ai dipendenti per prendersi lo stipendio e fare finta d'essere impegnati!

In seguito all'articolo del Salvagente intitolato  "Epatite A e frutti di bosco: l'allarme si estende"  di Lorenzo Misuraca ed in seguito al ricovero di una mia amica per Epatite A ,  oggi mi sono recata  con lei  presso il S.I.A.N. della asl Roma C  per fare analizzare il contenuto di una busta aperta di Frutti di Bosco prodotti da Green Ice spa e denominati "Bosco Buono", Lotto 13059, in modo da capire se anche quel lotto era contaminato ed in caso, evitare la diffusione dell'Epatite A anche a Roma.


Presso tale struttura, dopo aver insistito per quasi un'ora, veniamo a conoscenza che nè l'Arpa Lazio e tanto meno l'Istituto zooprofilattico  (contattati telefonicamente dalla dott.ssa Saba Minielli) sono in grado di svolgere le analisi.

L'incontro con la dottoressa e con il suo braccio destro è stato quanto meno kafkiano: ci hanno detto che per accogliere la denuncia serve lo scontrino fiscale d'acquisto del prodotto (comprato ad aprile 2013 presso un supermercato famoso a Roma), anche se ogni prodotto ha il codice a barre; che il prodotto doveva essere integro, quindi una persona il virus l'ha contratto consumando un prodotto chiuso! e che comunque gli avvocati dell'azienda produttrice avrebbero rigettato la denuncia adducendo le motivazioni appena riportate o addirittura che il virus dipendeva dal  surgelatore casalingo...

In sostanza il S.I.A.N. non ha accolto la  richiesta della mia amica e ci domandiamo a cosa serva tale ente, se di fatto non ascolta e non tutela la cittadinanza! E magari intanto l'epatite A si diffonde!

Frutti di bosco congelati ed epatite A

Da:  http://www.ilsalvagente.it/Sezione.jsp?titolo=Epatite+A+e+frutti+di+bosco%3A+l'allarme+si+estende+(video)&idSezione=21301

L'inchiesta del salvagente in edicola. Colpita l'Italia del Nord. I cibi a rischio.

Lorenzo Misuraca
Un aumento del 70% di casi rispetto al 2012. Prodotti ritirati dal mercato, indagini in corso e richiesta a tutti gli istituti zooprofilattici di analizzare partite e partite di alimenti sospetti. L’epatite A dopo aver mobilitato mezza Europa ora allarma anche le autorità italiane.  E la storia di quello che è diventato un allerta europeo la racconta in dettaglio il Salvagente di questa settimana (in vendita in edicola o in versione sfogliabile e in pdf sul nostro negozio on line, numero 23/2013), facendo i nomi dei primi prodotti richiamati dagli scaffali e ricostruendo una vicenda diventata da “codice rosso” lo scorso 23 maggio, quando il ministero della Salute ha emanato una circolare con cui invitava tutte le Asl a monitorare i casi di malattia segnalati e “avviare indagini sul territorio nazionale per identificare l’esistenza di possibili casi autoctoni correlati e le potenziali fonti di infezione”.

 Tutto inizia il 30 aprile, con un frullato

A dire il vero, spiega il settimanale dei consumatori, la potenziale fonte d’infezione si conosceva già da almeno quasi un mese. Per la precisione dal 30 aprile, data in cui la Danimarca aveva indicato come responsabile dell’incremento anomalo di casi di epatite A (che poi avevano interessato anche Finlandia, Norvegia e Svezia) uno “smothie” (un frullato) a base di frutti di bosco congelati. Passano i giorni e al ministero della Salute italiana si accorgono che anche qui qualcosa non va: troppe segnalazioni, soprattutto da zone della Penisola storicamente poco soggette all’epatite A (il Centro-nord). 

Dall'Est e dal Canada

Scattano le prime misure per evitare ulteriori allargamenti dell’epidemia. È la storia che in questi giorni sta agitando le autorità e il mercato alimentare italiano, anche se fuori dalla luce dei riflettori di stampa e tv. Al centro di analisi e sguardi sospetti i frutti di bosco congelati provenienti da Bulgaria, Polonia, Serbia e Canada (su questi è scattato il sistema di allerta rapido comunitario Rasff).

Ritiri nella Gdo

E i primi “colpevoli” sono apparsi subito tra i prodotti lavorati dalle aziende italiane se è vero, come risulta al Salvagente, che alcune aziende e alcune grandi catene alimentari come Coop hanno già ritirato dei prodotti a rischio dalla circolazione.

Il primo lotto sequestrato: scadevano nel 2015

La circolare del ministero della Salute indica alcuni lotti a rischio di frutti di bosco congelati, da ritirare dal commercio. In particolare, il lotto con codice L13036, con scadenza 02/2015, secondo quanto riferito a ilSalvagente.it, porta dritto a una torta guarnita con “misto di frutti di bosco”, in confezione da 200 grammi, commercializzati da un’azienda alimentare di Padova (Asiago Food) che vende al dettaglio, all’ingrosso, e si occupa di catering. Nonostante lo stop, non è da escludere che alcune di queste confezioni fossero già state vendute. E trattandosi di prodotti surgelati, potrebbero non essere ancora state consumate.

Il ritiro in Alto Adige

Stessa sorte, secondo Giovanni D’Agata, presidente e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, è toccata alla  “Miscela di frutti di bosco surgelati Bosco Buono”, lotto 13015, confezionato dalla ditta Green Ice SpA, ritirata dall’assessorato alla Sanità della Provincia autonoma di Bolzano il 31 maggio.

La Coop sospende l'utilizzo di frutti di bosco

Nel frattempo, anche la Coop è corsa ai ripari. Spiega Maurizio Zucchi, direttore qualità dell’azienda, al Salvagente: “Abbiamo ritirato due prodotti dalla vendita: uno è la confezione misto frutti di bosco congelati della ditta Boscoreale, corrispondente al lotto L13036. L’altro prodotto, sempre frutti di bosco congelati, lo abbiamo ritirato per precauzione. Abbiamo anche sospeso temporaneamente l’utilizzo di frutti di bosco per i nostri prodotti di pasticcieria e svolto delle analisi sulla torta surgelata Coop, che hanno dato esito negativo alla presenza di virus”.

Yogurt, gelati, pasticcini

La questione però è tutt’altro che chiusa. I frutti di bosco congelati vengono usati per tanti altri prodotti in commercio: yogurt, frullati, pasticcini, gelati. Una quantità enorme di preparazioni alimentari sulle quali è scattato il controllo degli stessi produttori. Lo conferma al Salvagente l’Unilever, azienda che possiede tra gli altri i marchi Algida e Carte d’Or: “Come azienda alimentare responsabile stiamo conducendo appropriate verifiche. In questo momento, non abbiamo alcuna evidenza di criticità riguardanti i nostri prodotti”.

L'incremento dei casi da diversi mesi

Quello che preoccupa è che l’incremento dei casi è iniziato da diversi mesi, almeno da settembre, a quanto riporta la dottoressa Anna Rita Ciccaglione dell’Iss al salvagente. Un periodo lungo che aumenta i rischi di contagio.

Le analisi partite in ritardo

Le domande del Salvagente, a questo punto sono diverse e poco rassicuranti.
Perché il ministero della Salute non si è mosso prima? E perché se la circolare con cui allerta le Asl è del 23 maggio, solo dopo 8 giorni, secondo quanto appreso dal Salvagente, sono arrivate sui tavoli degli istituti zooprofilattici sperimentali di diverse zone d’Italia le disposizioni per avviare analisi su torte e frutti di bosco congelati? Ancora: perché solo quelli, escludendo gelati e altri cibi che usano ingredienti del genere? 

Senza armi

Il rischio degli effetti di una sottovalutazione del problema sono tanti. E questa volta i consumatori hanno poche armi per difendersi. Non troveranno nelle confezioni dei gelati, o dello yogurt, o delle torte surgelate l’indicazione dei lotti di frutti di bosco utilizzati. Difficile scegliere, se non affidandosi ai controlli esterni. E, una volta tanto, a una comunicazione pubblica più rapida ed efficace.