Lavoro femminile, Italia peggio della Grecia ‘Siamo un paese tradizionalista e ingessato’ | Redazione Il Fatto Quotidiano | Il Fatto Quotidiano

Lavoro femminile, Italia peggio della Grecia ‘Siamo un paese tradizionalista e ingessato’ Redazione Il Fatto Quotidiano Il Fatto Quotidiano di Angela Gennaro

Secondo i calcoli della Ue, il tasso di occupazione delle donne senza figli in Italia tra i 25 e i 54 anni è pari al 63,9%. La media dell’Unione è del 75,8%. "Una differenza che si fa abissale - dice Carla Collicelli, vice direttore generale del Censis - quando si parla di giovani e donne".

Anno nuovo, vizi antichi: il 2011 si chiude con la conferma che per occupazione, retribuzione e condizione femminile l’Italia è ancora, in Europa, il fanalino di coda. Lo dice l’Eurostat: il tasso di donne occupate è tra i più bassi dell’Unione. E peggio di noi fa solo Malta.Secondo l’ufficio statistico Ue, il tasso di occupazione delle donne senza figli in Italia tra i 25 e i 54 anni, è pari al 63,9%.

La media dell’Unione è del 75,8%: in Germania il tasso, per la stessa fascia di età, è dell’81,8%. Malta è ferma al 56,6%.

“Siamo un paese così tradizionalista e ingessato”, sospira Carla Collicelli, vice direttore generale del Censis. “Troppo lontano dagli obiettivi europei”.

E la lontananza diviene abissale quando “si parla di giovani e donne”, e se il dato anagrafico viene geolocalizzato al Sud e nelle isole.

Lo ricorda l’Istat proprio in questi giorni: al Sud addirittura il 39% delle ragazze è in cerca di occupazione.

Ancora: nell’Unione a 27, il tasso di occupazione totale di donne e uomini è del 64,2%, con le donne a quota 58,2%. Alla fine del primo semestre 2011, il tasso italiano di occupazione per uomini e donne è del 57,2%, e scende al 46,7% per le sole donne. Anche la Grecia è sopra di noi, con il suo 48,1%.

E la disoccupazione?

In Italia il totale del primo semestre dello scorso anno è dell’8,2%: 7% per gli uomini, 9% per le donne. Al netto del lavoro nero. Non solo: una donna in Italia continua a prendere 1/5 in meno rispetto a un uomo, anche in casi di ruoli analoghi.

“Dipende dai contratti”, dice Carla Collicelli. “Per quelli che prevedono emolumenti aggiuntivi la paga di base non può cambiare, ma assegni, progressione di carriera, promozioni e scatti interni sì”.

La parola chiave è precariato. “I contratti atipici, nei quali si concentrano donne e giovani, rappresentano per il datore di lavoro una valvola di flessibilità in caso di necessità di ridimensionamento dell’attività produttiva”, dice la sociologa.

Per certi versi “permettono l’accesso al lavoro”, per altri ne permettono l’uscita “con altrettanta facilità”. “E non abbiamo trovato soluzioni adeguate”. È il “clou della discriminazione”: la perdita di posti si registra “nella stragrande maggioranza per i giovani e per le donne giovani, sotto i 40 anni”. Per la fascia sopra i 40, invece, “hanno tamponato gli ammortizzatori sociali”. Eppure il Consiglio europeo di Lisbona del 2000 aveva già posto come obiettivo quello di aumentare il tasso di occupazione globale dell’Unione al 70% e il tasso di occupazione femminile a più del 60% entro il 2010.

Una percentuale che vorrebbe dire un aumento del 7% del Pil. Il rischio di povertà dei figli passerebbe dal 22,5% al 2,7% e si avvierebbe un ciclo virtuoso di imprenditoria e occupazione, con l’implementazione di quei servizi di cura per bambini e anziani, cardine della cura ricostituente per l’occupazione femminile italiana.Secondo l’Istat, infatti, l’assenza di servizi di supporto nelle attività di cura costituisce un ostacolo per l’ingresso nel mercato del lavoro di 489mila donne non occupate, cioè dell’11,6%, e per il lavoro a tempo pieno per molte delle 204mila donne occupate part time, ovvero del 14,3%.

In Italia viene destinato solo l’1,4% del Pil a contributi, servizi e detrazioni fiscali per le famiglie: dato ben più basso rispetto a quell’1,8% destinato in ambito Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nei paesi a bassa fertilità.Con i contratti atipici, poi, chi va in maternità difficilmente ritorna al posto di lavoro lasciato prima del lieto evento.

“Ci siamo lasciati alle spalle i tristi episodi del passato, quando accadeva che alle donne assunte venisse richiesto l’impegno di non fare figli per un certo numero di anni”, racconta Carla Collicelli.

Ma oggi “la donna con contratto atipico si trova in una condizione altrettanto spiacevole: sa che se si allontanerà per maternità difficilmente potrà riprendere il proprio posto in seguito”.

In paesi come ed esempio il Belgio, la presenza di molte scuole materne permette all’occupazione femminile di rimanere invariata in caso di uno o due figli.

“Da noi invece il welfare è spostato totalmente sulle pensioni e su una sanità nella media che comincia a scricchiolare con liste di attesa drammatiche per la diagnostica”, spiega la sociologa.

Il tutto “mentre le famiglie affrontano problemi di casa, asilo nido, supporti economici, servizi”.

In Italia l’11% dei bambini va al nido, privato o pubblico. In Emilia la percentuale sale al 25,2%, in Sicilia non supera il 5,1%. “Un asilo pubblico costa 8700 euro a bambino all’anno”, racconta la Collicelli. “Un privato 7500”.

In alcuni casi i comuni danno alle famiglie un contributo per la retta: ma non è la regola. Secondo l’Istat, la percentuale di occupate è del 58,5% per le donne con un figlio di meno di 15 anni, e del 54% quando i figli sono due.

Se poi i figli sono tre o più, la percentuale precipita al 33,3%. E “se si ha in casa un anziano con handicap sono guai”. Anche nelle regioni più avanzate, dove “si fa fatica a dare un’assistenza adeguata, che sgravi la famiglia”. O meglio: figlie, mogli, sorelle.“All’inizio della mia carriera, il concetto di quota rosa mi ripugnava”, conclude Carla Collicelli. “Arrivata a questo punto sono favorevole: i tempi sono maturi per proporre di applicare criteri di proporzionalità di genere rispetto alla composizione della categoria”.

D’altro canto era il 1932 quando in Italia è arrivata la prima donna in un consiglio di amministrazione di un’azienda quotata. 80 anni dopo le donne sono 150: il 6% del totale. Lì dove si decide, ancora oggi, “sono tutti uomini, e in età avanzata”, dice la vice direttrice del Censis.

Ricetta per risolvere la crisi italiana ed europea

Stilinga ha letto molti articoli di giornali in queste feste natalizie e si è convinta che la ricetta (per lo più vecchia nella sua testa: è da un pezzo che Stilinga ha partorito e cresciuto tale visione/osservazione) per risolvere la crisi economica italiana ed europea (soprattutto dell'Europa meridionale) è far ripartire la produzione italiana ed europea, a detrimento dell'economia che esporta maggiormente da noi: quella cinese.

Di fatto, in questi ultimi decenni, che sono stati caratterizzati dalla "globalizzazione" (in realtà la nostra nazione ed il continente europeo in particolare è stato colpito dalla sola nuda e cruda "cinesizzazione"), si sono aumentate le importazioni cinesi (causa delocalizzazione sfrenata delle aziende italiane ed europee in Asia) e si è illuso il popolo italiano ed europeo che la patria - fabbrica del mondo sarebbe stato il luogo utopistico ove vendere montagne di prodotti autoctoni, dove un mercato di oltre un miliardo di persone non aspetterebbe altro che comprare prodotti italiani ed europei.

Insomma, una vera e grassa bugia.

Tale miliardo e passa di gente cinese, o almeno, la maggior parte di questa massa di potenziali acquirenti non sbarca manco il lunario e come può permettersi di comprare prodotti italiani ed europei? che ormai sono realizzati dai loro connazionali in Cina ed in Italia?

La cinesizzazione ha ucciso migliaia di posti di lavoro in tutto il Mediterraneo, arricchendo pochi ed impoverendo moltissimi, e ha invaso lo stesso con prodotti ad obsolescenza programmata ed ora le Erinni economiche devastano quello che resta, con speculazione e spread che vola, in quanto l'Europa di fatto a livello politico non esiste.

Allora la ricetta è: produrre tutto (dagli zampironi alle scarpe, dai pomodori ai prodotti tecnologici, etc., etc.) ma, proprio tutto qua in Italia, in Europa.

Promuovere per legge il rilancio dei distretti industriali e crearne di nuovi, istituire la filiera corta, il km zero dalla carta, alla frutta, dalla plastica alla verdura per far risorgere il LOCAL e ammazzare il rincaro sui prodotti, in quanto il carburante per trasportarli è alle stelle (ma poi perchè la merce non viaggia su ferro?).

Assicurare la piena occupazione alla forza lavorativa attiva italiana ed europea, aumenterebbe le entrate fiscali, la crescita e potremmo finalmente permetterci (qua da noi, in questo paese crudele e arrogante) anche il sussidio minimo di cittadinanza per diventare finalmente civili.

Altrimenti il pericolo è il collasso dell'Italia (dove vivere ora - ma pure ieri- è una lotta alla sopravvivenza, un perdersi nella burocrazia bizantina, un arrabbiarsi continuo, una dannazione infernale).

Allora cosa aspettiamo?

Licenziamenti falso problema di Luciano Gallino

"Licenziamenti falso problema” (Luciano Gallino).


C´è una realtà sotto gli occhi di milioni di italiani, che essi vedono e patiscono ogni giorno.

L´industria italiana sta perdendo i pezzi.

Lo dicono, più ancora che i media nazionali, che si debbono per forza concentrare sui casi più eclatanti, la miriade di Tg regionali e di giornali locali. Non ce n´è uno, da settimane, che non rechi in prima pagina l´allarme per un´impresa del luogo che sta per chiudere. Da Varese a Palermo, dal Cuneese al Friuli, da Ancona a Cagliari. Per tal via sono già scomparsi centinaia di migliaia di posti di lavoro; altrettanti rischiano di seguirli nel prossimo anno.

Nessun settore sembra salvarsi.

Sono in crisi l´auto (ovviamente Fiat: 550.000 vetture prodotte in Italia nel 2010, un quarto rispetto a vent´anni fa) e l´aerospazio (vari siti di Alenia); la costruzione di grandi navi, di cui l´Italia fu leader mondiale (almeno sei siti di Fincantieri) e gli elettrodomestici (Merloni di Fabriano e Nocera Umbra); la microelettronica (ST-Microelectronics a Catania) e il trasporto navale di container (Mct di Gioia Tauro); la siderurgia (Ilva a Taranto) e la chimica (Montefibre a Venezia, Petrolchimico e Vinyls a Porto Torres). Si potrebbe continuare per un paio di pagine. Sono anche crisi, tutte, accompagnate da forti perdite di posti di lavoro nell´indotto e nei servizi, poiché è pur sempre l´industria il settore da cui proviene la maggior domanda di essi.

Di fronte a una simile realtà, ed alla inettitudine dimostrata al riguardo dal precedente governo, ci si poteva aspettare che il governo nuovo aprisse una robusta discussione con sindacati, industriali, manager, esperti del settore, per vedere se si trova il modo o di rilanciare rapidamente le industrie in crisi, o di svilupparne di nuove affinché assorbano il maggior numero di disoccupati presenti e futuri.

Invece no.

Il governo apre un tavolo di discussione per decidere quali riforme introdurre sul mercato del lavoro al fine di renderlo più flessibile. Ed i sindacati, anziché ribattere che il problema primo e vitale è quello di creare lavoro, accettano di discutere sul come riformare le norme d´ingresso e di uscita da un mercato che intanto rischia una contrazione senza precedenti. Il che equivale a chiedere all´orchestra, tutti insieme, di suonare il valzer preferito mentre la nave è in vista dell´iceberg che la porterà a fondo. Fondo che in questo caso si chiama una durissima recessione, con milioni di disoccupati di lunga durata.

Dinanzi a una simile disconnessione dalla realtà di ambedue le controparti non restano che due strade. Una è arcibattuta: se mai c´è stato in passato un frammento di evidenza empirica comprovante che una maggior flessibilità in uscita accresce il numero degli occupati, a causa della crisi economica in atto tale affermazione è ancora più illusoria.

Le imprese non assumono perché non ricevono ordinativi.

In molti casi è chiaro che è colpa loro. La grande cantieristica, per citare un caso paradigmatico, conta ancora nel mondo numerose società che producono ogni anno decine di navi d´ogni genere, dalle petroliere ecologiche ai trasporti adatti alle autostrade del mare. Non avendo saputo riconvertirsi, i cantieri di Fincantieri si ritrovano ora con zero commesse.

Davvero si può pensare che se gli facilitassero i licenziamenti individuali essi assumerebbero folle di lavoratori?

Un altro argomento che occorre pur ripetere è che il proposito di far assumere come lavoratori dipendenti un buon numero di precari è decisamente apprezzabile.

Ma se il contratto di breve durata che caratterizza le occupazioni atipiche si riproduce nell´area dei nuovi contratti perché questi implicano la possibilità di licenziare il nuovo assunto, anche senza giusta causa, per un periodo che addirittura supera di molto l´attuale durata media dei contratti atipici, la precarietà cambierà di pelle giuridica, ma resterà tal quale nella realtà.

Le imprese che in questi anni sono ricorse a milioni di contratti di breve durata in forza della legge 30/2003, allo scopo precipuo di adattare la forza lavoro in carico all´andamento degli ordinativi, useranno il periodo di prova, di apprendistato o come si voglia chiamarlo, lungo addirittura tre anni e più, per perseguire il medesimo scopo.

Duole dire che anche le proposte di un potenziamento degli ammortizzatori sociali, sponsorizzato in specie dal Pd, appare arretrato di fronte alla realtà della disoccupazione ed alle sue cause.

Certo, se si ritiene che non ci siano alternative, come diceva la signora Thatcher, meglio un sussidio che non la miseria.

Ma creare nuovi posti di lavoro in realtà non costerebbe molto di più, immaginazione politica ed economica aiutando.

E un lavoro stabile e remunerato intorno o poco sotto alla media salariale è una soluzione che molti preferirebbero rispetto a sette od ottocento euro di sussidio percepito magari per anni, ma senza la possibilità di ritrovare un lavoro. Oltre ad essere, in tema di difesa delle competenze professionali e della coesione sociale, assai più efficace.



Da La Repubblica del 05/01/2012.