Produzione industriale, i numeri di un disastro che non ha precedenti

Dal dopoguerra non s’era mai visto un crollo come quello degli anni scorsi. E con Renzi? L’indice in ventotto mesi è passato da 91,6 a 91,8: l’Italia non riparte
Di Alberto Bagnai
Due elettori mediani commentano il fatto politico del giorno: “Hai visto che scandalo? Poi dicono che c’è la crisi! Ma il problema è che se sò magnatitutto…”. L’amico, sconsolato: “Che ci vuoi fare: ogni popolo ha i politici che si merita…”. Su queste parole i due si congedano, ebbri di assolutoriaautocommiserazione. Ognuno di noi ha assistito a simili siparietti. Qualcuno invece potrebbe essersi perso un fatto che apparentemente non ha nulla a che vedere con quanto precede. Il 5 agosto scorso, alle 12:19, l’Ansa ha twittato: “Istat, economia frena, meglio ultimi mesi”. Frenare, in italiano, significa diminuire la propria velocità. Letto così, il lancio sembrerebbe indicare che l’economia italiana cresca di meno (freni), ma che negli ultimi mesi la situazione stia migliorando (cioè si stia tornando a crescere di più). Nei dati leggiamo che a giugno l’indice della produzione industriale (Ipi) è diminuito dello 0,4%, mentre a maggio la diminuzione era stata dello 0,6%.
L’Ansa ha ragione: la velocità dell’economia italiana è diminuita. Quindi tutto bene? Non me ne voglia l’agenzia di stampa, ma direi di no. Non stiamo andando “meglio” (crescendo di più): stiamo andando “meno peggio” (diminuendo di meno). Non stiamo frenando: stiamo andando amarcia indietro, e questa non è una sfumatura, ma un fallimento epocale.
Renzi è in carica dal febbraio 2014, quando l’indice della produzione industriale era a 91,6. Ventotto mesi dopo l’indice è a 91,8: un aumento dello 0,2%, e questo mentre l’Unione Europea, nostro principale cliente, è ripartita, passando dall’1,4% al 2% di crescita fra 2014 e 2015. Certo, nessuno si aspetta che oggi la produzione industriale possa raddoppiare in un decennio, come al tempo del miracolo economico (fra 1955 e 1965), con un paese da ricostruire. Ma il -18% del decennio 2005-2015 è una catastrofe senza precedenti.
Negli ultimi 64 anni le due annate più infauste per l’Ipi sono state il 2009 (-19%) e il 1975 (-9%). La terza ce l’ha regalata Monti (-6% nel 2012), riportando l’indice ai valori di 26 anni prima (ma questo i media ce l’hanno taciuto, vantando i successi delle “riforme”). Da quando siamo nell’euro, un anno su due è stato in rosso (ci verrebbe un bel titolo, che nessun giornale ha mai scritto).
Le recessioni, naturalmente, ci sono sempre state: il problema è che oggi non ci sono le riprese. Questo non è un caso: è il cambio rigido, che in caso di crisi costringe a tagliare i salari per recuperare competitività. Rendere i lavoratori ricattabili col Jobs act facilita il compito. Incassata questa “riforma” la Confindustria ricambia il favore al governo: i suoi economisti elogiano la riforma costituzionale, con uno studio sbriciolato daMassimiliano Tancioni sul “Menabò di etica ed economia” (cosa che la stampa allineata non credo vi abbia detto). Quanto agli industriali, poverini, loro proprio non arrivano a capire che dipendenti sottopagati sono clienti col braccino corto: distruggere il mercato interno per inseguire quello estero non è una buona idea, e il fallimento di Renzi è tutto in questa frase (che lui non capirebbe, e che chi lo circonda, occupato a mettersi in salvo, non ha tempo di spiegargli).
I danni dell’euro sono ormai conclamati. L’ultimo rapporto sui mercati esteri del Fondo monetario internazionale, pubblicato il 27 luglio, è cristallino: a 17 anni dall’adozione, l’euro è ancora troppo forte di circa il 5% per Italia e Francia, e troppo debole di circa il 15% per la Germania (nessun giornale italiano ve l’ha detto, ma ai francesi ne ha parlato il Figaro). Non a caso il 29 aprile il dipartimento del Tesoro americano ha messo la Germania nella lista dei manipolatori di valute (cosa che avete letto solo qui). I nostri media, però, continuano tetragoni a ripeterci che ci siamo scelti degli ottimi compagni di strada (sarebbero quelli della Volkswagen, per capirci), e che se non ce la facciamo è colpa nostra.
Il grafico è eloquente: gli episodi di contrazione prolungata dell’Ipi sono tre, e coincidono con l’entrata nel Sistema Monetario Europeo (inizio degli anni ’80), con il suo irrigidimento (inizio degli anni ’90) e con l’entrata nell’euro (dal 1999). È naturale che in un paese esportatore come il nostro l’eccessiva rigidità del cambio porti con sé de-industrializzazione. Porta anche accresciuta mobilità dei capitali, che fa molto comodo all’industria finanziaria. Insomma: alle banche.
Come dimostra Luigi Zingales sul blog dell’Università di Chicago, queste controllano in vari modi i giornali, con l’unica eccezione del Fatto Quotidiano (ipse dixit). Sarà per questo che qui ogni tanto trovate notizie non allineate. Torno al punto: per scegliere bene i politici, gli elettori hanno bisogno di informazioni corrette, senza le quali la democrazia non funziona.
Se siamo nei guai, quindi, non è solo per colpa dei politici che ci siamo scelti noi (e che quindi ci meriteremmo), ma anche per colpa dei media che ci hanno scelto le banche (e che forse non ci meritiamo). Non è insomma colpa loro se, bombardati dal messaggio che “va tutto bene”, gli italiani non riescono a scegliere politici che facciano anche i loro interessi, e non solo quelli della finanza internazionale. Parafrasando Brecht: “Sventurata lademocrazia che ha bisogno di blogger”.

Il governo Renzi sa come farsi odiare...

Il governo Renzi sa davvero come darsi la zappa sui piedi e farsi lungamente odiare e disprezzare: dalla questione delle Banche (Etruria in primis e le altre) al papocchio incasinato delle assunzioni dei precari della scuola si apprezza il totale cinismo impastato di cattiveria distillata e gratuita che non solo il capo ma anche tutti i suoi ministri esprimono contro il popolo italiano.

E ci risiamo!

Odiare i cittadini e conterranei porta a ricevere altrettanto odio e desertificazione alle elezioni (il Pd ancora non lo scarica? aspetta l'eutanasia politica?).

Poi se Renzi fosse il portavoce dei poteri occulti (tipo massoneria) allora si deve proprio dirlo: i massoni sono INCAPACI. E si capisce il flop della classe politica al governo del paese.

Ma su tutta la linea: idioti, presuntuosi e ignoranti. Abbagliati solo dalla propria grettezza e avidità.

Meglio che sparisca lui e i suoi sodali, i ministri che sostengono l'insostenibile con arguta vacuità, ammantata di saper fare ma sostanzialmente si  capisce lontano km che non sono all'altezza della situazione.

Pare comunque che la cosa stia disintegrandosi da sola: a breve non parleremo più nè di Matteo nè dei renziani e già  per questo ringraziamo il cielo! Davvero!

Assocalzaturifici: “La Cina non è un’economia di mercato”

da: http://it.fashionmag.com/news/Assocalzaturifici-La-Cina-non-e-un-economia-di-mercato-,715539.html#utm_source=newsletter&utm_medium=email

Assocalzaturifici, l’associazione dei calzaturieri italiani, dice “no” allo Status di Economia di Mercato (MES) alla Cina, che vanificherebbe le difese antidumping dell’Europa. È quanto ribadisce il presidente dell’Associazione, Annarita Pilotti, alla vigilia della riunione a Bruxelles del Collegio dei Commissari dell’Unione. Il vertice, presieduto dal presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, fa seguito al recente Summit bilaterale UE-Cina avvenuto a Pechino e rappresenta un passaggio fondamentale in vista dell’ormai prossima presentazione in sede europea della proposta legislativa che porterà a una decisione definitiva entro dicembre.


“Il rischio per il settore calzaturiero”, ha affermato Annarita Pilotti, che ha inviato una lettera alla Commissione europea e al Consiglio, “è di non potersi più tutelare in modo efficace perché la concessione dello status di economia di mercato alla Cina avrebbe un impatto immediato sull’efficacia degli strumenti europei di difesa commerciale. Un cambiamento di metodologia che accettasse i prezzi e costi cinesi, palesemente distorti data la pesante ingerenza dello stato nell’economia, renderebbe il sistema antidumping dell’Unione europea inefficace a contrastare le pratiche commerciali sleali della Cina”.

“Assocalzaturifici ha partecipato attivamente all’inchiesta condotta a Bruxelles dalla CEC, Confederazione Europea della Calzatura, che ha portato nel 2006 all’approvazione del Consiglio dei Ministri UE di misure antidumping contro le importazioni sottocosto da Cina e Vietnam; misure mantenute in vigore sino al 2011”, ha continuato Pilotti. “Con un diverso regolamento non sarebbe stato possibile adottare dazi efficaci. La Commissione deve prendere una posizione chiara contro il riconoscimento del MES al Paese, difendendo la produzione industriale europea e italiana. Ciò anche in considerazione del fatto che la Cina rispetta attualmente solo uno dei cinque criteri economici stabiliti dalla UE per il riconoscimento dello status di economia di mercato”.

Il Parlamento europeo, lo scorso 12 maggio, si è espresso contro il riconoscimento di economia di mercato a Pechino, in una risoluzione approvata a larga maggioranza e dalle principali forze politiche europee.

La posta in gioco, per un settore che si confronta con una domanda interna in calo da otto anni e che fatica a uscire dalla crisi iniziata nel 2008, è molto elevata. In termini di paia di calzature la Cina ha pesato per il 40% del totale delle importazioni italiane nel 2014 e per il 39% nel 2015. Aegis Europe, un’alleanza di oltre 30 associazioni manifatturiere europee, stima la perdita di oltre 300mila posti di lavoro, qualora il mercato comunitario venisse nuovamente inondato di prodotti cinesi sottocosto. L’Italia, oltretutto, sarebbe il paese
più colpito.



Di Laura Galbiati

Tour de France : la MAGLIA GIALLA corre a piedi ! From bicycle to marathon



And the Tour de France was very well organized...from bicycle race it turned to be a marathon, ahahahahahahah

DOMENICO DE MASI: “L’Italia è diventata una Repubblica fondata sugli asini”

di Antonello Caporale
Se l’Italia è una Repubblica tendenzialmente fondata sugli asini c’è un perché. E l’asineria, i meridionali la chiamano con sentimento “ciucciaggine”, è madre legittima della raccomandazione, ritornata in cattedra con le vicende della famiglia Alfano, il ministro dell’Interno. Domenico De Masi è sociologo di razza e studioso appassionato del nostro vizio capitale.
De Masi, siamo un popolo di raccomandati perché siamo asini?
Se non hai altro metodo per valutare il curriculum suo da quello mio, resta la raccomandazione come unico punto dirimente.
Lei parla di asini di massa al tempo di Internet in cui il sapere è orizzontale, la conoscenza è istantanea.
Io parlo? Metto i numeri sul tavolo. Negli Stati Uniti 94 studenti su 100 che completano il ciclo scolastico proseguono per l’università. In Germania sono 78 su 100. In Italia siamo inchiodati al 36 per cento. E di questa minoranza 22 si fermano alla triennale e 14 proseguono per la laurea magistrale.
Ma perché?
Perché la cultura è disprezzata. Al ministero dell’Università serviva un genio e hanno messo la Gelmini, ora nemmeno ricordo il nome della attuale titolare. E l’idea beceramente produttivistica ha fatto sì che nel Nord-Est i padri spingessero i figli a entrare immediatamente in officina. Tanto il lavoro c’è e si guadagna anche di più.
L’università ha infatti perso valore.
Ma la cultura serve per vivere, Dio santo! Non solo per mangiare. E l’università la facciamo con i piedi. Puoi laurearti negli anni curriculari, o anche farne il doppio o il triplo e nessuno ti chiede nulla, ti dice nulla. Il costo delle tasse universitarie è talmente basso che sembra un parcheggio di oziosi imbelli. Come si fa a non capire che il livello della cultura generale è direttamente proporzionale al livello della partecipazione democratica?
Più sei colto più ti appassioni alla politica.
Washington ha il 49 per cento dei suoi cittadini che sono laureati. Alle elezioni la soglia dei votanti è del 70 per cento. Yuma, e siamo sempre negli Usa, ha l’11 per cento dei suoi cittadini laureati. I votanti si fermano al 30 per cento. Se sei colto hai minori possibilità di essere razzista, di essere violento. Anche la criminalità subisce la dura relazione con la cultura.
Ma se non c’è cultura esiste la raccomandazione.
La vicenda Alfano è spettacolare ma non turba. È dentro lo spirito nazionale, sicuramente è un gene della società meridionale. D’altronde è logico che se non hai altra possibilità di selezionare…
Essendo tutti asini.
L’asineria è la mamma felice della raccomandazione.
La signorina raccomandazione.
L’unico gancio è la conoscenza, intesa come relazione col potente.
Infatti Angelino Alfano si è stupito di tanta curiosità e attenzione nei confronti della propria famiglia. È l’idea che la raccomandazione possa assomigliare a una carezza gentile e non a un peccato mortale.
Ma certo che si stupisce! Il poveretto è dentro la cultura della spintarella. Dove non c’è studio c’è lo spingi spingi.
Siamo fregati.
Abbiamo avuto cattivi maestri e cattivi leader. Vetroni, D’Alema, Bertinotti, Rutelli non sono laureati e sono stati testimonial favolosi che – al fondo –la fatica quotidiana di sbattersi sui libri fosse superflua. Bastava essere intelligenti, avere talento e stop. Ma la cultura media occorrente per una società complessa dev’essere elevata. Altrimenti non la governi.
E noi siamo dentro lo sgoverno.
È la conseguenza diretta della incompetenza di massa.
L’asineria trionferà.
Tempo fa per scrivere un libro che era anche dedicato ai temi dell’Islam ho dovuto documentarmi ed è trascorso un anno. Tempo impiegato a sfogliare, rileggere, scoprire o riscoprire. I mass media chi convocano, chi intervistano? Mi dica perché diavolo io debba ascoltare la Santanchè sull’Islam. Ma cosa ne sa lei? Mi chiedo, anzi lo chiedo a lei che è giornalista: perché vi ostinate a domandare agli incompetenti? Capisco che per essere un bravo pianista devi studiare dieci anni, e invece in dieci giorni puoi anche trasformarti in un perfetto politico, in un serial killer dell’intelligenza. Però noi cittadini, quale delitto abbiamo commesso per essere obbligati quotidianamente a queste flebo di insipienza?
Professore, lei è troppo pessimista.
Fossi stato in Renzi avrei destinato all’università tutti i soldi che ha buttato altrove. Gli 80 euro a famiglia sono costati dieci miliardi? Dieci miliardi all’università. Lei pensi che fuoco ardente, che vigoria intellettuale, che fantastico processo di acculturamento di massa. Dieci miliardi e in dieci anni ci saremmo appaiati ai migliori.
Ma senza asini sarebbero finite anche le raccomandazioni.
Eh già.
E sarebbe stato un bel problema.
Sul punto non posso darle torto.
Da: Il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2016

La deflazione delle clazature prodotta dalle aziende cinesi

E poi dicono che il settore calzature va male!
Ma se alcune aziende cinesi producono scarpe a 1.65 $ al paio, ma di cosa parliamo????

Ripresa rinviata per settore calzature, 2016 difficile

da: http://it.fashionmag.com/news/Ripresa-rinviata-per-settore-calzature-2016-difficile,701138.html#utm_source=newsletter&utm_medium=email

Stenta a ripartire il settore calzaturiero italiano. Dopo un 2015 con risultati inferiori alle attese, anche i primi mesi del 2016 evidenziano infatti un contesto debole e un clima di grande incertezza. E' quanto emerge dal rapporto presentato in occasione dell'assemblea di Assocalzaturifici ad Arese.

Nel dettaglio il settore nel 2015 ha contenuto la flessione dei livelli produttivi (-2,9% in volume, a 191,2 milioni di paia, e -0,5% in valore) nonostante aree di criticità sui mercati esteri e la contrazione della domanda interna (l'ottava consecutiva dal 2008); ha conseguito un nuovo record nel fatturato estero, con aumenti significativi delle vendite in diverse aree di destinazione; ha messo a segno, per la prima volta dal 2011, un incremento nei livelli occupazionali favorito dalle misure di stabilizzazione del Jobs Act (+432 addetti, pari al +0,6%), insufficiente comunque a recuperare la perdita subita nel solo 2014.

Rimbalzo già interrotto a inizio 2016: a fine marzo il numero di addetti risultava sostanzialmente stabile (-48) a fronte della chiusura di 39 imprese. Le ore di cassa integrazione nel primo trimestre sono balzate del 32,4% a 3,5 milioni, più del doppio rispetto ai livelli pre-crisi dell primo trimestre 2008.

Nel 2015 l'export si è attestato a 207,6 milioni di paia (-3,4%), per un valore di circa 8,66 miliardi di euro (+3,2%). I flussi verso l'Unione Europea, dove sono dirette sette scarpe su dieci esportate, sono scesi del 3,7% in quantità, restando stabili in valore, con andamento contrastante nei due storici mercati di riferimento: recupero in Germania (+1,9% valore e +7% volume); battuta d'arresto in Francia.

I mercati extra-Ue hanno mostrato più di un affanno, registrando nell'insieme un calo in quantità (-2,8%) e una crescita in valore meno rilevante rispetto al passato (+6,7%). Tra i mercati con segno positivo si sono distinti gli Usa (+17% in valore e +6,4% quantità), diventati il secondo sbocco estero in valore. Per quanto concerne i flussi in entrata in Italia, le importazioni sono rimaste sui livelli del 2014 (327,9 milioni di paia, -0,5%), con una crescita però del 9,2% in valore. L'attivo della bilancia commerciale, in calo del 2,7%, ha superato i 4,1 miliardi di euro.

Nel primo bimestre 2016, stenta ancora la ripresa del mercato interno (-1,3% quantità, -3,7% valore), mentre debolezza economica e criticità finanziarie penalizzano l'export soprattutto di fascia medio alta e lusso. Resta attivo ma in calo dell'1,2% il saldo commerciale a 676,2 milioni.

Stilinga ha visto cose che voi umani non potete sapere...

Stilinga ha visto a piazza Barberini, in pieno centro storico romano, arrivare un bus fantasma: vuoto, tutto scuro, senza numero, nè sul display esterno, nè stampato su carta -come usa solitamente- appiccicata sul vetro davanti, nulla, solo l'autista.

E gli astanti, alla fermata, hanno fatto capannello, l'hanno fermato indicando con le mani e una volta aperte le porte hanno parlato con l'autista per sapere di che linea si trattasse.

Il fatto è piuttosto sorprendente perché pareva che il mezzo pubblico spuntasse ex novo dal nulla, vergine, senza fermate alle spalle, incredibile.

Poi improvvisamente l'autista ha deciso che l'autobus, che stava guidando, forse doveva o poteva essere il 61, proprio quello proveniente da Balsamo Crivelli. E allora ha illuminato la fronte del bestione e ha fatto sapere al mondo di che linea si trattasse.

Ma la cosa assai strana è che Piazza Barberini, direzione Villa Borghese/ Washington sulla palina è la 27a/28a fermata!

Quindi ci si chiede cosa abbia fatto il dipendente dell'Atac fino al momento in cui ha deciso di dare un numero al mezzo di ferro sgangherato che conduceva.

Boh!

Possibile che l'ABC sia utopia nella capitale?
O forse era una forma di sciopero selvaggio?

Certamente l'operatore non aveva il senso del valore del lavoro che fa. Mancanza di senso piuttosto diffusa recentemente e  che unita alla trascuratezza in cui sono sprofondati quasi tutti i dipendenti pubblici producono il disastro chiamato Roma, capitale d'Italia.

Il Fmi boccia il neoliberismo: stop austerity e controllo sugli investimenti


di M. Ricci
da: http://www.repubblica.it/economia/rubriche/eurobarometro/2016/06/04/news/liberismo_liberalizzazioni_austerity-141253461/

Per chi è convinto che le idee contino e, alla fine, abbiano influenza sulla realtà, è una storia di grande fascino. Serve a capire gli ultimi 30 anni e anche i prossimi. È il resoconto della lotta della più grande istituzione economica mondiale - il Fmi - con se stessa e la sua eredità sul tema più importante: le strategie per coltivare l'economia globale.

C'è un filo che lega Reagan, la Thatcher, le liberalizzazioni e le privatizzazioni degli anni '80, la resurrezione della destra contro l'egemonia socialdemocratica postbellica e il "Washington Consensus", il pacchetto di dottrine che, facendo perno sul Fmi, sarà adottato, con l'etichetta Neoliberalismo, nella crisi asiatica del '98: privatizzazioni, liberalizzazioni, austerità, bilanci in ordine, rilancio dell'export con recuperi di competitività (cioè taglio dei salari), ricerca della fiducia dei mercati internazionali, mantenendo aperto il paese ai flussi e deflussi di capitali. Piú o meno è la ricetta applicata ancora in Europa, dopo il 2008, dalla Grecia alla Spagna.

Per questo, ogni ripensamento è interessante. Ma l'articolo che tre dei piú importanti economisti del Fondo hanno appena pubblicato su una delle riviste ufficiali del Fmi, "F&D", è piú di un ripensamento. Il titolo "Neoliberalism: Oversold?" - che un romano potrebbe liberamente tradurre: il neoliberalismo é una sòla? - non tradisce
il testo. Anche se gli autori escludono di voler realizzare un riesame complessivo del Washington Consensus, siamo di fronte ad un picconamento di due pilastri del neoliberalismo.

Il movimento dei capitali, anzitutto: fiducia dei mercati o no, gli investimenti diretti vanno bene, quelli finanziari e speculativi possono essere dannosi e, se occorre, vanno rigidamente controllati. Poi, l'austerità: difficile vederne i benefici in termini di impulso alla crescita. Balzano agli occhi, invece, i costi in termini di ineguaglianze crescenti. E l'ineguaglianza colpisce il livello e la sostenibilità della crescita. L'austeritá può essere inevitabile per paesi con un alto livello di debiti, ma non vuol dire che vada bene per tutti. Assicurarsi la benevolenza dei mercati, dimostrando di fare sul serio nel voler ridurre il debito ha costi superiori ai benefici. Di solito, il Pil scende, la disoccupazione aumenta, in media, di 0,6 punti. Chi può spenda.

A Berlino hanno capito benissimo di chi parlava l'articolo e devono aver protestato, costringendo l'attuale capo economista del Fmi, Maurice Obstfeld a intervenire sul sito del Fondo, in un difficile esercizio di equilibrismo, per prendere le distanze da quello che dice nell'articolo Jonathan Ostry, che è il suo vice, senza smentirlo direttamente. D'altra parte, Ostry dice cose che i ricercatori del Fondo suggeriscono da tempo, anche se da scranni inferiori delle gerarchie. Piú pressante sarebbe capire se quanto i cervelli del Fondo rimuginano arriverà prima o poi a influenzare le scelte degli operativi, ad esempio sul caso Grecia.

Qui, però, va riconosciuto al Fondo di essere l'unico ad aver ammesso le proprie colpe nella gestione della crisi greca e nel lasciare che l'austeritá piegasse quell'economia al di là del - probabilmente - sostenibile. Si aspetta ancora un mea culpa analogo da Bruxelles e da Francoforte. E il Fondo ne ha anche tratto le ragionevoli conseguenze. Chiedendo che, del costo degli errori, si facciano carico anche coloro che li hanno determinati, cioè i creditori (dalla Ue ai governi) accettando un taglio dei debiti. Certo, sarebbe simpatico se, coerentemente, gli operativi del Fmi annunciassero di volersi comportare allo stesso modo con i crediti del Fondo verso Atene. L'Fmi non ha altro modo per riconciliarsi con se stesso.

Riforma per la casta, non per gli italiani di Maurizio Viroli - Il Fatto Quotidiano - 20 maggio 2016



La casta politica italiana, una delle più corrotte e ignoranti del mondo occidentale, diventerà ancora più forte e arrogante, e i cittadini ancora più impotenti e asserviti, se coloro che andranno a votare al referendum di ottobre approveranno la riforma costituzionale di Renzi-Boschi-Verdini.

Per capirlo è sufficiente riflettere sul fatto che il primo e più evidente cambiamento che la riforma introduce è togliere ai cittadini una parte importante del potere sovrano che la Costituzione riconosce loro: il potere di eleggere i membri del Senato della Repubblica. Saranno i consiglieri regionali, componenti a pieno titolo di quella casta che ci raccontano di voler abbattere, che si impadroniranno di quel potere. Ci raccontano anche che questa vera e propria espropriazione di sovranità è attenuata dall’art. 2, quinto comma, del testo della riforma: “La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”.

Il dato inequivocabile è che a scegliere i senatori non saranno più i cittadini, ma i consiglieri regionali e, di conseguenza, la casta sarà ancora più potente di prima e più protetta dalle leggi, poiché un buon numero dei suoi adepti elevato al rango di senatore, sarà tutelato grazie all’immunità parlamentare. Se poi leggiamo attentamente l’art. 2, potremo notare un florilegio di asinerie, da quella giuridica di inserire una norma che riguarda l’elezione dei futuri senatori nel contesto di un comma che riguarda la durata del mandato, a quella politica e intellettuale di inserire in Costituzione una frase vaga come “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”.

Se supponiamo che quella congrega nota sotto il nome di minoranza Pd, Bersani in testa, sia composta da persone sagge e leali alla Costituzione, è un mistero come abbiano potuto accettare di votare in favore della riforma. Pare che abbiano interpretato l’oscuro inciso che sopra ho riportato come una ferma difesa del principio della sovranità popolare. Dovrebbero vergognarsi.

La riforma offende non soltanto il principio solenne che la sovranità appartiene al popolo; offende anche la dignità dei cittadini ai quali dice esplicitamente: “Quegli ingenui dei Costituenti pensavano che foste così intelligenti e maturi da potervi scegliere i rappresentanti, e invece non lo siete affatto. Avete bisogno di qualcuno che scelga per voi, dunque vi togliamo, con il vostro permesso, si capisce, questo inutile fardello che voi non siete in grado di sostenere. Ringraziateci per il tempo e la seccatura che vi permettiamo di risparmiare”.

Grazie alla riforma Renzi-Boschi-Verdini, non varrà più l’aureo principio che i membri del Parlamento sono lì per rappresentare la nazione, cioè per tutelare, sostenere e promuovere gli interessi legittimi della comunità dei cittadini. 

L’art. 67 della nostra Costituzione afferma infatti che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. 

Grazie alla riforma “ciascun membro della Camera dei deputati rappresenta la Nazione”; i membri del Senato sono soltanto “rappresentativi delle istituzioni territoriali” e il Senato collettivamente, “rappresenta le istituzioni territoriali”. Se le parole hanno un senso c’è una bella differenza fra “essere rappresentativi” e “rappresentare”, ma non pretendiamo troppo dai solerti riformatori. E passi pure l’autentico orrore giuridico e politico di avere dei senatori minori che nondevono rappresentare la nazione ma deliberano su questioni di rilevanza nazionale e addirittura sulle leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali. Il punto che voglio sottolineare è che una parte della casta è sollevata da un dovere e premiata con un potere che prima non aveva. Non c’è che dire, è una sconfitta solenne.

È sconcertante e deprimente pensare che se vincerà il sì, sarà proprio perché la maggioranza degli italiani che si recheranno alle urne si sarà fatta beffare ancora una volta e avrà creduto all’evidente menzogna che la riforma serva a indebolire la casta. Sarà l’ennesima dimostrazione di quanto sia facile ingannare i popoli, e quello italiano più di altri, e convincerli a mettersi da soli le catene.

Possibile che almeno una volta ogni tanto gli italiani non riescano a riconquistare la loro dignità di persone e di cittadini e si stanchino di essere presi in giro e trattati da minorati mentali? Possibile che non si rendano conto che il vero modo di indebolire la casta e cambiare l’Italia è votare NO?

Usa: Gap chiude 75 negozi, S&P taglia rating a BB+

da: http://it.fashionmag.com/news/Usa-Gap-chiude-75-negozi-S-P-taglia-rating-a-BB-,695049.html#utm_source=newsletter&utm_medium=email

Messo sotto pressione per rilanciare le sue attività dopo uno scivolone prolungato delle vendite, Gap ha annunciato la chiusura entro l'anno fiscale 2016 di 75 negozi soprattutto all'estero inclusi tutti i 53 punti vendita a marchio Old Navy in Giappone. La misura comporterà costi per 300 milioni di dollari, una perdita di vendite annuali di 250 milioni ma nel lungo termine permetterà risparmi per 275 milioni all'anno e un miglioramento dei margini di quasi il 2%.
Come se non bastasse, l'azienda non ha confermato i target finanziari per l'intero anno fiscale che aveva fornito a febbraio. Poco dopo l'annuncio dato da Gap, S&P ha tagliato il rating del gruppo di abbigliamento a BB+ da BBB-; l'outlook è stabile.

Il ridimensionamento in Giappone di Gap rappresenta una marcia indietro: nel 2012 il gruppo aveva scelto proprio quella asiatica come prima nazione in cui espandere Old Navy, allora il principale motore delle vendite dell'azienda con sede a San Francisco (California). Ora le ambizioni di crescita di questo brand "saranno ancorate al Nord America", ha spiegato Gap in una nota in cui si spiega che "il Giappone resta un mercato importante per il portafoglio di Gap, con una presenza continua forte di oltre 200 negozi a marchio Gap e Banana Republic". Nell'ultimo anno fiscale Gap contava 3.721 negozi in 51 Paesi.

Nei tre mesi chiusi il 30 aprile scorso, corrispondenti al primo trimestre fiscale, Gap ha registrato profitti pari a 127 milioni di dollari, o 32 centesimi per azione, in calo dai 239 milioni, o 56 centesimi per azione, dello stesso periodo dello scorso anno.
I ricavi sono scesi a 3,44 miliardi da 3,66 miliardi. Le vendite nei negozi aperti da almeno un anno hanno registrato una contrazione del 5%, peggio del -4% visto nello stesso periodo del 2015.

Burberry si concentra sulle borse e i prodotti di base per invertire il calo degli utili

da: http://it.fashionmag.com/news/Burberry-si-concentra-sulle-borse-e-i-prodotti-di-base-per-invertire-il-calo-degli-utili,694978.html#utm_source=newsletter&utm_medium=email

Il marchio di lusso britannico Burberry ha comunicato di voler ridurre l'ampiezza della propria gamma di prodotti e di volersi concentrare maggiormente sulle borse, cercando di ripensare i contorni della propria attività dopo che il suo profitto annuale è sceso. Il tutto anche a causa di un contesto di mercato difficile, che anche quest'anno non mostra segnali di miglioramento.

Burberry, che ha perso più di un terzo del suo valore di mercato negli ultimi 12 mesi (il suo titolo in Borsa è diminuito del 37%, per la precisione), ha indicato che il suo obiettivo è di raggiungere almeno 100 milioni di sterline (pari a 144 milioni di dollari e 129 milioni di euro) di risparmi annui entro il 2019, senza scendere però nei dettagli di questi efficientamenti. Solo 20 milioni di sterline di risparmi saranno però ottenuti nell'anno in corso.

Come parte di questo piano, il marchio, nato 160 anni fa in Inghilterra e famoso per i suoi trench con le fodere a scacchi, ha detto che eliminerà il 15-20% dei prodotti singoli che fanno parte di più linee nel corso del prossimo anno.

Burberry ha anche fatto sapere che i suoi designer si concentreranno di più sulle borse, area di prodotti a più rapida crescita e dai maggiori margini rispetto all'abbigliamento, e nella quale è in ritardo rispetto a rivali come Louis Vuitton e Prada.

Christopher Bailey, che ricopre congiuntamente gli incarichi di CEO e direttore dello stile, ha dichiarato di essere "impegnato nella realizzazione dei cambiamenti necessari" per Burberry. Ma ha aggiunto: “Sono consapevole che ci stiamo imbarcando in questo progetto nel momento in cui il nostro comparto si trova ad affrontare sfide significative".

Come i suoi competitor del settore del lusso, Burberry è stato colpito da un rallentamento delle vendite a Hong Kong e nella Cina continentale, mentre i suoi flagship store delle capitali europee sono stati disertati da molti turisti cinesi dopo gli attacchi terroristici dello scorso anno a Parigi.

Il marchio britannico non riesce poi ad essere altrettanto bravo dei suoi rivali nelle basi del commercio al dettaglio, ha detto Bailey. Le sue vendite per metro quadro di circa 1.600 euro all'anno sono pari a circa un terzo di quanto ottiene Louis Vuitton, e sono anche significativamente al di sotto di Prada e Moncler, secondo gli analisti di UBS.

Si rende quindi necessario un aumento della produttività dei negozi, che Burberry intende ottenere modificando le gamme dei suoi articoli tenendo in considerazione i gusti delle clientele locali, migliorando il servizio clienti, portando la formazione del personale ad un livello superiore e cambiando i layout dei negozi per mettere in evidenza in modo più semplice le sue linee di prodotti più “facili”.

La società ha presentato il suo piano di rilancio dopo la segnalazione di un calo del 10% dell'utile adjusted ante imposte per 421 milioni di sterline nell'esercizio chiuso a fine marzo, sostanzialmente in linea con le previsioni degli analisti.

Burberry ha poi aumentato il suo dividendo per l'intero anno del 5%, a 37 pence, e ha comunicato che riacquisterà fino a 150 milioni di sterline di azioni a partire da quest'anno.

Il brand inglese ha anche indicato di avere prospettive poco rosee per l'esercizio in corso attendendosi profitti proiettati verso la parte inferiore delle previsioni di mercato, che variano dai 375 ai 449 milioni di sterline, e che saranno più ponderate per il secondo semestre rispetto allo scorso anno.

Versione italiana di Gianluca Bolelli; fonte: Reuters

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