Report EFFETTO VALANGA
LA CRISI NON LA DOBBIAMO PAGARE NOI!
This is the fashion blog of Stilinga, a fashion designer who works from home. She is from Rome, Italy and she writes about trends, things she loves to do in Rome and art. Questo è il fashion blog, e non solo, di stilinga (una stilista che lavora da casa - è una stilista-casalinga) e che spesso tra una creazione di moda e l'altra, tra ricerche e fiere, si occupa anche del suo quotidiano e del contesto in cui vive.
Tetsuya Uenobe: an amazing shoe artisan/designer from Japan
Stilinga is glad to presernt a very interesting Japanese shoe artisan and designer: Testuya Uenobe who has presented his orignal handmade sandal collection at the Micam, september 2011.
All his sandals are handmade with love!
Ma cosa accade nell'Acea?
Pare che l'Acea sia al collasso: è difficilissimo ottenere una risposta al numero dedicato alla clientela e di conseguenza è arduo risolvere problemi piuttosto semplici come l'allaccio dell'utenza, manco fossimo sulla luna.
Inoltre, dopo che non si è ricevuta una risposta adeguata alle proprie domande e si è deciso di andare di persona a piazzale Ostiense, per risolvere il problema, si scopre che la fila che ci attende è appena (si fa per dire) di 190 MINUTI!
E benvenuti a Roma!
Pare inoltre che proprio oggi un povero utente/cliente, ma è meglio definirlo CITTADINO, si sia così arrabbiato da aver rotto il vetro di uno sportello.
Evidentemente questo accade se l'ufficio manda ai pesci i propri clienti.
E se questo è l'andazzo burocratico per le cose idiote, figuriamoci per le cose importanti!
Insomma, Roma sta declinando piuttosto male e lo fa purtroppo anche nelle questioni piccole come l'allaccio di una semplice utenza.
SIAMO INDIGNATI! DAVVERO NON SE NE PUO' PIU'. Ma è troppo chiedere di vivere civilmente?
Inoltre, dopo che non si è ricevuta una risposta adeguata alle proprie domande e si è deciso di andare di persona a piazzale Ostiense, per risolvere il problema, si scopre che la fila che ci attende è appena (si fa per dire) di 190 MINUTI!
E benvenuti a Roma!
Pare inoltre che proprio oggi un povero utente/cliente, ma è meglio definirlo CITTADINO, si sia così arrabbiato da aver rotto il vetro di uno sportello.
Evidentemente questo accade se l'ufficio manda ai pesci i propri clienti.
E se questo è l'andazzo burocratico per le cose idiote, figuriamoci per le cose importanti!
Insomma, Roma sta declinando piuttosto male e lo fa purtroppo anche nelle questioni piccole come l'allaccio di una semplice utenza.
SIAMO INDIGNATI! DAVVERO NON SE NE PUO' PIU'. Ma è troppo chiedere di vivere civilmente?
Il concetto di "donna" e Piero Marrazzo
Stilinga è sconcertata da quanto Piero Marrazzo ha rilasciato in un'intervista di Cocita De Gregorio su La Repubblica di oggi, 15.08.11 ed in particolare in merito a questa risposta:
"So che non è bello da sentire e non è facile da dirsi, ma una prostituta è molto rassicurante. È una presenza accogliente che non giudica. I transessuali sono donne all'ennesima potenza, esercitano una capacità di accudimento straordinaria. Mi sono avvicinato per questo a loro. È, tra i rapporti mercenari, la relazione più riposante. Mi scuso per quel che sto dicendo, ne avverto gli aspetti moralmente condannabili, ma è così. Un riposo. Avevo bisogno di suonare a quella porta, ogni tanto, e che quella porta si aprisse".
Cioè per Marrazzo "(...) I transessuali sono donne all'ennesima potenza, esercitano una capacità di accudimento straordinaria.(...)".
Essere donne significa, per Marrazzo e per molti altri uomini ahimè, avere una capacità d'accudimento?
Essere donne vuol dire, per Marrazzo e per molti altri uomini ahimè, essere il "luogo fisico" del "riposo del guerriero"?
Essere donne significa, per Marrazzo e per molti altri uomini ahimè, essere rassicuranti?
Stilinga vorrebbe esporre il suo concetto di essere donna (donna davvero, non trans, non travestita) e si riallaccia alla primissima definizione del dizionario:
"Donna (è) Femmina fisicamente adulta della specie umana".
Appunto fisicamente adulta e appartenente alla specie umana.
Il concetto di donna non è legato per natura a quello di accudimento, semmai lo è in determinati contesti culturali, e non naturali, piuttosto retrogradi e mentalmente conservatori; lo è in quei contesti maschili e machisti in cui la donna risolleva l'uomo dalle fatiche delle battaglie...cioè? cioè roba di 1.000 anni fa.
La donna del 2011, repubblicana ed italiana è una donna che porta a fatica sulle sue spalle le scelte subite di una cultura idiota maschile e dura a morire (ma qui almeno ammazziamola questa mentalità malata) per cui deve smarcarsi dall'essere l'angelo del focolare (immagine proiettata su di lei dalla visione cattolica e pretesca) e cercare semplicemente di essere se stessa: un essere umano con gli stessi sconforti, le stesse paure, le stesse incertezze di coloro che (forse) appartengono alla stessa specie ma sono nati maschi.
In più, la vita è stata preorganizzata per lei, in questo paese aspro (non certo il paese del sole e dei mandolini...), perché ella soffra, e più dei maschi, sul lavoro, nella società, in famiglia ed in casa.
Perché ella abbia, di fatto, meno diritti e se decide di essere madre debba pure sobbarcarsi il peso dell'accudimento al 100%, in quanto qua in Italia non esistono adeguate strutture che la aiutino a vivere decentemente ed inoltre un donna deve, qualora accade, occuparsi anche della generazione che l'ha preceduta sempre in virtù della pessima dimenticanza statale nei suoi confronti.
Ecco chi è una donna italiana, ma forse lo sono tutte le donne del mondo, e Marrazzo parla di trans come donne all'ennesima potenza? perché i trans hanno provato ad occuparsi del lavoro, della casa, dei figli e dei genitori e tutto nello stesso momento? perché le trans sanno quanto è duro il mondo italiano verso le donne?
Stilinga si augura che Marrazzo non voglia più usare il concetto di donna e non voglia tanto meno accostarlo a quello di trans. Lo faccia per carità femminile, sempre che abbia del rispetto per il nostro genere.
Le trans non sono donne, sono trans ed esercitano una professione a pagamento.
Le donne sono altro e non sono retribuite per il loro sincero e spontaneo "accudimento" quando abbiano voglia e possibilità di elargirlo, ed inoltre sono molto di più di una "fonte di riposo": sono creative, intelligenti, spiazzanti e critiche, generose e solidali ma pure carogne e meschine, vendicative e gatte morte, artiste e chirurghe, postine ed insegnanti, imprenditrici e cantanti, insomma sono esseri umani pensanti e Mr Marrazzo farebbe bene ad informarsi un po' meglio su cosa esse pensano, desiderano, vogliono, insomma Stilinga trova che Marrazzo sia un analfabeta del genere umano, dei rapporti umani e con rammarico Stilinga trova che Marrazzo non abbia affatto un'ideologia di sinistra, ma ahimè di estrema destra e anche delle più retrive. E strano che non l'abbia ancora capito finora.
Per Stilinga, Marrazzo farebbe bene a rinchiudersi definitivamente in convento cattolico, in seno alla cultura che lo ha allevato ed erroneamente educato, dove sono tutti maschi e con idee sbagliate su cosa sia e cosa debba fare una donna.
E dire che Stilinga lo ha pure votato!!
"So che non è bello da sentire e non è facile da dirsi, ma una prostituta è molto rassicurante. È una presenza accogliente che non giudica. I transessuali sono donne all'ennesima potenza, esercitano una capacità di accudimento straordinaria. Mi sono avvicinato per questo a loro. È, tra i rapporti mercenari, la relazione più riposante. Mi scuso per quel che sto dicendo, ne avverto gli aspetti moralmente condannabili, ma è così. Un riposo. Avevo bisogno di suonare a quella porta, ogni tanto, e che quella porta si aprisse".
Cioè per Marrazzo "(...) I transessuali sono donne all'ennesima potenza, esercitano una capacità di accudimento straordinaria.(...)".
Essere donne significa, per Marrazzo e per molti altri uomini ahimè, avere una capacità d'accudimento?
Essere donne vuol dire, per Marrazzo e per molti altri uomini ahimè, essere il "luogo fisico" del "riposo del guerriero"?
Essere donne significa, per Marrazzo e per molti altri uomini ahimè, essere rassicuranti?
Stilinga vorrebbe esporre il suo concetto di essere donna (donna davvero, non trans, non travestita) e si riallaccia alla primissima definizione del dizionario:
"Donna (è) Femmina fisicamente adulta della specie umana".
Appunto fisicamente adulta e appartenente alla specie umana.
Il concetto di donna non è legato per natura a quello di accudimento, semmai lo è in determinati contesti culturali, e non naturali, piuttosto retrogradi e mentalmente conservatori; lo è in quei contesti maschili e machisti in cui la donna risolleva l'uomo dalle fatiche delle battaglie...cioè? cioè roba di 1.000 anni fa.
La donna del 2011, repubblicana ed italiana è una donna che porta a fatica sulle sue spalle le scelte subite di una cultura idiota maschile e dura a morire (ma qui almeno ammazziamola questa mentalità malata) per cui deve smarcarsi dall'essere l'angelo del focolare (immagine proiettata su di lei dalla visione cattolica e pretesca) e cercare semplicemente di essere se stessa: un essere umano con gli stessi sconforti, le stesse paure, le stesse incertezze di coloro che (forse) appartengono alla stessa specie ma sono nati maschi.
In più, la vita è stata preorganizzata per lei, in questo paese aspro (non certo il paese del sole e dei mandolini...), perché ella soffra, e più dei maschi, sul lavoro, nella società, in famiglia ed in casa.
Perché ella abbia, di fatto, meno diritti e se decide di essere madre debba pure sobbarcarsi il peso dell'accudimento al 100%, in quanto qua in Italia non esistono adeguate strutture che la aiutino a vivere decentemente ed inoltre un donna deve, qualora accade, occuparsi anche della generazione che l'ha preceduta sempre in virtù della pessima dimenticanza statale nei suoi confronti.
Ecco chi è una donna italiana, ma forse lo sono tutte le donne del mondo, e Marrazzo parla di trans come donne all'ennesima potenza? perché i trans hanno provato ad occuparsi del lavoro, della casa, dei figli e dei genitori e tutto nello stesso momento? perché le trans sanno quanto è duro il mondo italiano verso le donne?
Stilinga si augura che Marrazzo non voglia più usare il concetto di donna e non voglia tanto meno accostarlo a quello di trans. Lo faccia per carità femminile, sempre che abbia del rispetto per il nostro genere.
Le trans non sono donne, sono trans ed esercitano una professione a pagamento.
Le donne sono altro e non sono retribuite per il loro sincero e spontaneo "accudimento" quando abbiano voglia e possibilità di elargirlo, ed inoltre sono molto di più di una "fonte di riposo": sono creative, intelligenti, spiazzanti e critiche, generose e solidali ma pure carogne e meschine, vendicative e gatte morte, artiste e chirurghe, postine ed insegnanti, imprenditrici e cantanti, insomma sono esseri umani pensanti e Mr Marrazzo farebbe bene ad informarsi un po' meglio su cosa esse pensano, desiderano, vogliono, insomma Stilinga trova che Marrazzo sia un analfabeta del genere umano, dei rapporti umani e con rammarico Stilinga trova che Marrazzo non abbia affatto un'ideologia di sinistra, ma ahimè di estrema destra e anche delle più retrive. E strano che non l'abbia ancora capito finora.
Per Stilinga, Marrazzo farebbe bene a rinchiudersi definitivamente in convento cattolico, in seno alla cultura che lo ha allevato ed erroneamente educato, dove sono tutti maschi e con idee sbagliate su cosa sia e cosa debba fare una donna.
E dire che Stilinga lo ha pure votato!!
Le confessioni di Marrazzo di Concita De Gregorio
Le confessioni di Marrazzo
"Perché andavo in via Gradoli"
L'ex governatore del Lazio due anni dopo si racconta. Lo scandalo, le dimissioni, la solitudine. Una confessione: "Ho sbagliato per fragilità, chiedo scusa. Un uomo pubblico deve controllare le sue debolezze". E poi: "Non ero drogato né omosessuale. Ma ricattabile sì. Perché i trans? Sono donne all'ennesima potenza, rassicuranti"
di CONCITA DE GREGORIO
Piero Marrazzo
NEL CORSO di questa intervista, iniziata la sera del primo turno delle amministrative di maggio con le proiezioni che continuamente irrompevano dai cellulari e finita ad agosto a Monterano, borgo abbandonato dove è nata una quercia dentro una chiesa disegnata dal Bernini, Piero Marrazzo ha detto ventiquattro volte "perché io sono il figlio di Joe Marrazzo".
L'ultima volta - era il giorno del congedo di Paolo Ruffini dall'azienda - lo ha detto a proposito della Rai: "Perché io sono entrato per la prima volta alla Rai da bambino per mano a mio padre". Nei primi due incontri, segnati dalla sua estrema diffidenza e in definitiva dal tentativo reciproco di capire se saremmo riusciti a parlare della "cosa", ha raccontato solo della sua famiglia.
Del padre, del padre e poi ancora del padre, per ore. Della madre americana, la cui vita è un romanzo. Delle figlie ragazze, i loro studi. Con grandissima prudenza della moglie Roberta, "certo che la amo ancora, come sempre". In ultimo della loro figlia bambina. Il secondo incontro è finito così, con una lunga pausa alla domanda "come ha raccontato quello che è successo a sua figlia di dieci anni?". Dopo un paio di minuti ha risposto: "Le ho detto che papà è andato alla festa sbagliata". Poi due mesi di silenzio, come se quella frase fosse stato tutto quel che c'era da dire.
Al suo ritorno da un viaggio in Armenia - ha ricominciato a girare documentari per la Rai - ci siamo incontrati di nuovo. Grotta romana di Stigliano, il luogo dove i soldati feriti andavano a recuperare le forze e a curarsi. Catacombe da cui si esce risorti. "Magari funziona", sorride. Una settimana prima otto persone, tra cui tre carabinieri, erano state rinviate a giudizio per tentata estorsione ai suoi danni.
Soddisfatto?
"Come potrei essere soddisfatto? Sono due anni che vivo solo, che non parlo di questo con nessuno, che provo a ritrovare il bandolo della vita. Sono il figlio di Joe Marrazzo, ce la farò. Ce l'ho fatta già. Ma la soddisfazione, mi creda, in questa storia non è contemplata".
Un paio d'ore più tardi ne abbiamo parlato. Avrei solo sei o sette domande, gli ho detto. Cos'è successo davvero quella sera, perché, cosa non si perdona, a chi attribuisce le responsabilità, cosa le è successo nella vita politica e privata in quei mesi, come pensa il futuro, se la politica la tenta ancora o se è una storia finita. Va bene?
"Va bene. Ma solo perché in cima o in coda a queste domande c'è una sola cosa che sento di dover dire. Pubblicamente, alle persone che si sono fidate di me".
Che cosa?
"Che ho sbagliato. Ho fatto un errore. Di questo errore voglio chiedere scusa. Ho sbagliato, scusatemi. Ecco. Solo questo".
Sono passati più di due anni da quel giorno. L'errore è stato andare in via Gradoli, andarci con l'auto di servizio, assumere droga, fidarsi della persona sbagliata, non aver capito, non averlo detto a chi avrebbe potuto, non aver denunciato il ricatto? Di quale errore parla?
"Un errore più grande di tutti questi. Una mia fragilità di fondo, un bisogno privato e così difficile da spiegare, una mia debolezza. Un uomo che assume un incarico pubblico non può avere debolezze. Le deve controllare. Per questo mi sono dimesso, per quanto fossi vittima di un reato come oggi quei rinvii a giudizio dicono. Vittima, non colpevole. Ma l'aspetto giudiziario è secondario: so di non aver commesso reati, di non aver violato alcuna legge. Umanamente però, nei confronti della mia famiglia, e politicamente, verso i miei elettori e la comunità che governavo, ho sbagliato. Così mi sono dimesso".
È andato a far visita a una persona per motivi privati con l'auto di servizio.
"È vero. È stata in molti anni la prima volta che è successo. Avevo sempre usato la mia macchina. Quel giorno ero confuso, stanco, ho avuto un impulso di andare lì subito. Un impulso, ecco un errore grave. C'erano anche ragioni di sicurezza: non avrei mai dovuto muovermi da solo - secondo le regole - e ogni volta che lo facevo era complicatissimo. Quel giorno non ho avuto l'energia di allestire un meccanismo complicato. Ero stanco, volevo andare lì e dimenticare il resto. Ho fatto parcheggiare lontano, ma certo questo non scusa. È stata la prima volta, e naturalmente l'ultima".
C'era della droga nella stanza.
"Non faccio uso di droghe. Mi sarà successo tre o quattro volte nella vita, a distanza di molti anni. Da ragazzo, un paio. Un paio da adulto. Sono pronto a fare l'analisi del capello per dimostrarlo. So che non è un argomento, ma sono certo che moltissimi "insospettabili", anche tra gli attuali miei censori, non potrebbero dire altrettanto. Quel giorno è successo: anche in questo ho sbagliato. Penso al messaggio devastante che ho mandato, soprattutto ai più giovani".
Vedeva abitualmente quella persona? Era come si è scritto "la sua fidanzata"?
"Assolutamente no. Per anni non ho visto nessuno. Mi era capitato in passato di avere rapporti con prostitute, come a volte agli uomini accade - specie se oberati dal dovere di essere all'altezza delle aspettative, pubbliche e private. Ho fatto un intenso lavoro terapeutico in questi anni per capire. Intendo capire le ragioni del mio comportamento".
Un lavoro di analisi?
"Sì. Ho provato a capire attraverso l'analisi, e la parola e l'ascolto, che cosa mi fosse davvero accaduto. Credo di dovere alla terapia molte delle risposte".
Diceva della fatica di essere all'altezza delle aspettative.
"So che non è bello da sentire e non è facile da dirsi, ma una prostituta è molto rassicurante. È una presenza accogliente che non giudica. I transessuali sono donne all'ennesima potenza, esercitano una capacità di accudimento straordinaria. Mi sono avvicinato per questo a loro. È, tra i rapporti mercenari, la relazione più riposante. Mi scuso per quel che sto dicendo, ne avverto gli aspetti moralmente condannabili, ma è così. Un riposo. Avevo bisogno di suonare a quella porta, ogni tanto, e che quella porta si aprisse".
Non c'entra l'omosessualità? Ricorda la battuta del presidente del Consiglio: almeno a me piacciono le donne? Se fosse, lo direbbe?
"La ricordo. Io non sono omosessuale. Non ne faccio un vanto, ma non lo sono. È così. Ho amato solo donne. Moltissimo, e con frequente reciprocità. Dai transessuali cercavo un sollievo legato alla loro femminilità. Il fatto che abbiano attributi maschili è irrilevante nel rapporto, almeno nel mio caso. Non importa, non c'è scambio su quel piano. È il loro comportamento, non la loro fisicità, quello che le rende desiderabili. Ma temo che ogni parola possa suonare come una giustificazione: non è quello che voglio. Quando sei padre le scelte in questo ambito, giuste o sbagliate che siano, se date in pasto alla pubblica opinione fanno male non a te ma ai tuoi figli. È questo che non mi perdonerò mai".
Lei aveva un appuntamento in via Gradoli quella sera?
"Non esattamente. Sono andato per suonare alla porta. Il desiderio è questo: suoni alla porta, e si apre. Poi riposi".
E se l'appartamento fosse stato occupato da altri?
"Sarei andato via".
Un rischio enorme.
"In effetti".
E come spiega allora la trappola. L'orchestrazione, la cocaina, il video?
"Aspettavano che arrivassi. Era successo altre volte. È un giro così. Ho saputo nei mesi successivi che quei cosiddetti rappresentanti dell'ordine erano coinvolti in molti altri episodi. Un sistema. Avrei dovuto accorgermene ma le difese, come le ho spiegato, in quei momenti sono molto basse. Non dimentichi, comunque, che nel mio caso è scattata l'azione giudiziaria solo perché io ho denunciato i fatti. È il nodo centrale: tutto è avvenuto perché ho denunciato, testimoniato. Se non l'avessi fatto nulla sarebbe emerso".
Quanto le costava tutto questo? Come poteva disporre di tanto denaro?
"Sono stato per molti anni un professionista affermato. Non ho accettato la candidatura per motivi economici, sono abituato a vivere del mio. Quello che ho guadagnato è frutto del mio lavoro, ho speso solo soldi miei".
Due persone sono morte: Brenda e il pusher Cafasso. Si è parlato della mano dei Servizi segreti. Si è detto che gli appartamenti di via Gradoli fossero controllati dai servizi.
"L'idea che mi sono fatto è che la dietrologia non aiuta mai a capire. C'è un'inchiesta in corso, bisogna aspettare. I giornali non sempre hanno aiutato la ricerca e la comprensione dei fatti, in questa vicenda. Ho letto in prima pagina sul Corriere un'intervista sulla morte di Brenda che non avevo mai rilasciato".
Quel video girava da mesi.
"Sì, ma nessuno mi stava ricattando. Io l'ho saputo dopo. Ho ricevuto una sola telefonata, non personalmente tra l'altro, molto ambigua. Non ho dato risposta. Non c'era un tentativo di estorsione in corso: se ci fosse stato, le assicuro, lo avrei denunciato mesi prima. Cosa sarebbe cambiato?".
La sua ricandidatura alla Regione, per esempio.
"Non mi sarei mai ricandidato sapendo di essere sotto ricatto. Difatti non è avvenuto".
Berlusconi l'ha avvertita dell'esistenza del video.
"Sì, era il 19 ottobre del 2009".
Cosa le ha detto? Come mai aveva il video?
"Mi ha detto che lo aveva avuto da uno dei suoi giornali a cui era stato offerto. Si è proposto di aiutarmi".
E lei cos'ha pensato? Che volesse aiutarla o tenerla sotto scacco?
"Ho pensato solo che non potevo restare in una posizione di tanta debolezza. Che comunque quella telefonata segnava uno spartiacque. Che non avrei più potuto fare il mio lavoro con la stessa autonomia, responsabilità, libertà. È stato l'inizio della mia decisione di parlare. C'è voluto un po' di tempo, dovevo prima dirlo in famiglia".
Sua moglie non sapeva niente delle sue abitudini, neppure di quelle remote, precedenti al vostro incontro?
"Lei cosa pensa?".
Immagino sia un no. Non ha mai pensato di parlargliene?
"No. Anche questo è stato un errore, di cui non so più come chiederle scusa. Ma è molto complicato, è qualcosa che riguarda davvero le nostre vite private".
Oggi siete separati.
"Purtroppo sì. Sono stati mesi molto duri per lei. Un giorno è persino uscito un articolo di giornale in cui si diceva che ricevevo una transessuale in Regione. Non era vero, non è vero, non l'ho fatto né l'avrei fatto mai. Questa persona è stata probabilmente indotta a dirlo in un tentativo orchestrato da altri di screditarmi anche sul piano della condotta pubblica. Un piano su cui so di non avere macchie. Quando sono andato in Procura a rendere dichiarazioni spontanee sull'episodio mi hanno detto: non c'è alcuna deposizione in proposito, non può dichiarare sul niente".
Lei dice di non avere macchie sul piano della conduzione della Regione. Nei mesi in cui si immaginava che a qualcuno convenisse tenerla sotto ricatto, però, si è molto parlato di alcune sue indulgenze in materia di sanità. Si diceva che Angelucci venisse in Regione in tuta da ginnastica, come fosse a casa sua la domenica, e che la trattasse da padrone.
"Veniva in tuta, è vero. Era un suo problema, non un mio problema. Lo facevo sedere, lo ascoltavo, e poi gli dicevo di no. Ho detto molti no, parlano gli atti per me. La sfido a trovare una singola carta che dimostri un mio trattamento di favore verso gli Angelucci. Non esiste. Al contrario, vedrà. Ho toccato interessi molto consistenti, e non solo a danno dell'imprenditore che lei nomina. La sanità è un territorio esteso, gli interessi sono trasversali. E poi c'è stata la tutela dell'ambiente nelle zone del basso Lazio, gli appetiti dell'edilizia sui parchi, il racket dei rifiuti. A Fondi ho commissariato il mercato ortofrutticolo inquinato dalla camorra e ho fatto saltare le speculazioni urbanistiche intorno al lago dichiarandolo "monumento naturale". Su questo ci sarebbe molto da dire. Ho scontato un isolamento ed un'ostilità assolute, dopo. Bipartisan, si dice in politica".
Si è sentito isolato anche a sinistra?
"Cambiano i caratteri, le modalità private di relazione fra persone. Alcuni sono stati più cortesi e compassionevoli, anche questo può essere umiliante, altri più sferzanti. In sostanza hanno tutti concordato sulla straordinaria opportunità che offriva la mia uscita di scena. Circolavano sondaggi che mostravano come avrei vinto comunque le elezioni. Non me ne sono curato, sono andato via. Avevo sbagliato. Che io sparissi dalla scena pubblica in quel momento - Polverini era la candidata di Fini, ricorda? - faceva comodo e piacere a molti non solo sul piano locale. In ogni caso avevo davvero altro a cui pensare. Per un mese intero sono stato in un convento".
Era Montecassino, da dove ha scritto la lettera al Papa?
"Non ho scritto al Papa. Dopo qualche giorno a Montecassino, e ancora oggi sono grato al Padre Abate e alla comunità monastica per come mi hanno accolto, ho sentito il bisogno di scrivere al cardinal Bertone per spiegare i motivi che mi avevano spinto a chiedere ospitalità. Non erano giorni facili, sapevo quale disagio potevo causare. Il senso di quella lettera era "la mia vita riparte da qui". Ricordo le parole "non posso che sedermi all'ultimo banco". A Montecassino ho ripreso in mano due libri, le confessioni di Sant'Agostino e l'autobiografia di Simenon. Il primo mi ha aiutato a capire che se hai conosciuto il male non devi più nasconderti, devi continuare a guardarlo in faccia. Nella vita di Simenon mi interessava il tema dei sensi di colpa di un padre. Ecco, sono ripartito da questo".
E oggi, che cosa pensa? Tornerebbe in politica? Se ne parla molto.
"Lo so, lo so. So che molti lo temono, anche fra gli "amici". Ho conservato un rapporto straordinario con le persone, con la gente per strada. Mi chiedono sempre, anche stasera - ha visto? - presidente, quando torna? Le persone comuni capiscono benissimo le vicende della vita, sanno distinguere, sanno giudicare e trarre le conseguenze. Sanno anche perdonare, se la colpa è una debolezza e non una frode ai loro danni. Ne sono sicuro, lo so perché lo vedo. La distanza di questa politica dalla vita reale è diventata il vero problema del paese. Hanno paura - tutti, nelle loro blindate stanze - di tutto ciò che è autentico, anche nell'errore. La popolarità, il consenso di chi non sia manovrabile, ricattabile è per loro un pericolo tremendo. È la misura del loro limite. Quelli che si comportano come se avessero un mandato a vita per rappresentare gli altri sono uno dei problemi della nostra politica. Chi governa deve essere chiamato a farlo dai cittadini ed avere la loro fiducia. Parlare di liste civiche, dei protagonismi di questo o quel personaggio in un momento di crisi come questo mi sembra fuori luogo, miope e presuntuoso insieme. Detto questo: da uomo pubblico non ci si dimette".
In che senso?
"Lasci l'incarico, ma non lasci mai il carico di responsabilità che hai agli occhi degli altri. L'ho capito a mie spese. Un giorno Enrico Mentana, col quale avevo lavorato al Tg2, mi ha detto: Piero, è inutile girarci intorno. Ogni uomo pubblico viene ricordato per un episodio e tu sai che lo scandalo è entrato nella memoria collettiva per sempre. È vero, e ho apprezzato la sua franchezza, ma sentivo che c'era qualcosa di più. C'è la vita di un uomo, la vita prima e la vita dopo. Questo la memoria collettiva, per quanto impietosa, non può cancellarlo".
Lei era ricattabile, mi pare che questo resti il punto.
"Ero ricattabile, sì. Infatti è andata com'è andata. Però vorrei che si ricordasse sempre che mi sono dimesso, che era una debolezza privata, che non ho fatto torto a nessuno se non alla mia famiglia. Che la corruzione era in chi avrebbe dovuto proteggerci e non credo alle "mele marce", non posso credere che nessuno vedesse e sapesse tra chi comandava quel nucleo criminale. Che gli interessi enormi che ho toccato sono ancora tutti lì, che le vicende umane sono state devastanti per molti e letali per alcuni. Ma io sono il figlio di Joe Marrazzo, mio padre lo voleva morto la mafia. Ho sbagliato e chiedo scusa, lo chiederei a lui prima che agli altri se fosse qui. Per il futuro vedremo, nessuno di noi può darselo da solo. Sconto il mio errore come è giusto. La vita è davanti".
(15 agosto 2011) da http://www.repubblica.it/
"Perché andavo in via Gradoli"
L'ex governatore del Lazio due anni dopo si racconta. Lo scandalo, le dimissioni, la solitudine. Una confessione: "Ho sbagliato per fragilità, chiedo scusa. Un uomo pubblico deve controllare le sue debolezze". E poi: "Non ero drogato né omosessuale. Ma ricattabile sì. Perché i trans? Sono donne all'ennesima potenza, rassicuranti"
di CONCITA DE GREGORIO
Piero Marrazzo
NEL CORSO di questa intervista, iniziata la sera del primo turno delle amministrative di maggio con le proiezioni che continuamente irrompevano dai cellulari e finita ad agosto a Monterano, borgo abbandonato dove è nata una quercia dentro una chiesa disegnata dal Bernini, Piero Marrazzo ha detto ventiquattro volte "perché io sono il figlio di Joe Marrazzo".
L'ultima volta - era il giorno del congedo di Paolo Ruffini dall'azienda - lo ha detto a proposito della Rai: "Perché io sono entrato per la prima volta alla Rai da bambino per mano a mio padre". Nei primi due incontri, segnati dalla sua estrema diffidenza e in definitiva dal tentativo reciproco di capire se saremmo riusciti a parlare della "cosa", ha raccontato solo della sua famiglia.
Del padre, del padre e poi ancora del padre, per ore. Della madre americana, la cui vita è un romanzo. Delle figlie ragazze, i loro studi. Con grandissima prudenza della moglie Roberta, "certo che la amo ancora, come sempre". In ultimo della loro figlia bambina. Il secondo incontro è finito così, con una lunga pausa alla domanda "come ha raccontato quello che è successo a sua figlia di dieci anni?". Dopo un paio di minuti ha risposto: "Le ho detto che papà è andato alla festa sbagliata". Poi due mesi di silenzio, come se quella frase fosse stato tutto quel che c'era da dire.
Al suo ritorno da un viaggio in Armenia - ha ricominciato a girare documentari per la Rai - ci siamo incontrati di nuovo. Grotta romana di Stigliano, il luogo dove i soldati feriti andavano a recuperare le forze e a curarsi. Catacombe da cui si esce risorti. "Magari funziona", sorride. Una settimana prima otto persone, tra cui tre carabinieri, erano state rinviate a giudizio per tentata estorsione ai suoi danni.
Soddisfatto?
"Come potrei essere soddisfatto? Sono due anni che vivo solo, che non parlo di questo con nessuno, che provo a ritrovare il bandolo della vita. Sono il figlio di Joe Marrazzo, ce la farò. Ce l'ho fatta già. Ma la soddisfazione, mi creda, in questa storia non è contemplata".
Un paio d'ore più tardi ne abbiamo parlato. Avrei solo sei o sette domande, gli ho detto. Cos'è successo davvero quella sera, perché, cosa non si perdona, a chi attribuisce le responsabilità, cosa le è successo nella vita politica e privata in quei mesi, come pensa il futuro, se la politica la tenta ancora o se è una storia finita. Va bene?
"Va bene. Ma solo perché in cima o in coda a queste domande c'è una sola cosa che sento di dover dire. Pubblicamente, alle persone che si sono fidate di me".
Che cosa?
"Che ho sbagliato. Ho fatto un errore. Di questo errore voglio chiedere scusa. Ho sbagliato, scusatemi. Ecco. Solo questo".
Sono passati più di due anni da quel giorno. L'errore è stato andare in via Gradoli, andarci con l'auto di servizio, assumere droga, fidarsi della persona sbagliata, non aver capito, non averlo detto a chi avrebbe potuto, non aver denunciato il ricatto? Di quale errore parla?
"Un errore più grande di tutti questi. Una mia fragilità di fondo, un bisogno privato e così difficile da spiegare, una mia debolezza. Un uomo che assume un incarico pubblico non può avere debolezze. Le deve controllare. Per questo mi sono dimesso, per quanto fossi vittima di un reato come oggi quei rinvii a giudizio dicono. Vittima, non colpevole. Ma l'aspetto giudiziario è secondario: so di non aver commesso reati, di non aver violato alcuna legge. Umanamente però, nei confronti della mia famiglia, e politicamente, verso i miei elettori e la comunità che governavo, ho sbagliato. Così mi sono dimesso".
È andato a far visita a una persona per motivi privati con l'auto di servizio.
"È vero. È stata in molti anni la prima volta che è successo. Avevo sempre usato la mia macchina. Quel giorno ero confuso, stanco, ho avuto un impulso di andare lì subito. Un impulso, ecco un errore grave. C'erano anche ragioni di sicurezza: non avrei mai dovuto muovermi da solo - secondo le regole - e ogni volta che lo facevo era complicatissimo. Quel giorno non ho avuto l'energia di allestire un meccanismo complicato. Ero stanco, volevo andare lì e dimenticare il resto. Ho fatto parcheggiare lontano, ma certo questo non scusa. È stata la prima volta, e naturalmente l'ultima".
C'era della droga nella stanza.
"Non faccio uso di droghe. Mi sarà successo tre o quattro volte nella vita, a distanza di molti anni. Da ragazzo, un paio. Un paio da adulto. Sono pronto a fare l'analisi del capello per dimostrarlo. So che non è un argomento, ma sono certo che moltissimi "insospettabili", anche tra gli attuali miei censori, non potrebbero dire altrettanto. Quel giorno è successo: anche in questo ho sbagliato. Penso al messaggio devastante che ho mandato, soprattutto ai più giovani".
Vedeva abitualmente quella persona? Era come si è scritto "la sua fidanzata"?
"Assolutamente no. Per anni non ho visto nessuno. Mi era capitato in passato di avere rapporti con prostitute, come a volte agli uomini accade - specie se oberati dal dovere di essere all'altezza delle aspettative, pubbliche e private. Ho fatto un intenso lavoro terapeutico in questi anni per capire. Intendo capire le ragioni del mio comportamento".
Un lavoro di analisi?
"Sì. Ho provato a capire attraverso l'analisi, e la parola e l'ascolto, che cosa mi fosse davvero accaduto. Credo di dovere alla terapia molte delle risposte".
Diceva della fatica di essere all'altezza delle aspettative.
"So che non è bello da sentire e non è facile da dirsi, ma una prostituta è molto rassicurante. È una presenza accogliente che non giudica. I transessuali sono donne all'ennesima potenza, esercitano una capacità di accudimento straordinaria. Mi sono avvicinato per questo a loro. È, tra i rapporti mercenari, la relazione più riposante. Mi scuso per quel che sto dicendo, ne avverto gli aspetti moralmente condannabili, ma è così. Un riposo. Avevo bisogno di suonare a quella porta, ogni tanto, e che quella porta si aprisse".
Non c'entra l'omosessualità? Ricorda la battuta del presidente del Consiglio: almeno a me piacciono le donne? Se fosse, lo direbbe?
"La ricordo. Io non sono omosessuale. Non ne faccio un vanto, ma non lo sono. È così. Ho amato solo donne. Moltissimo, e con frequente reciprocità. Dai transessuali cercavo un sollievo legato alla loro femminilità. Il fatto che abbiano attributi maschili è irrilevante nel rapporto, almeno nel mio caso. Non importa, non c'è scambio su quel piano. È il loro comportamento, non la loro fisicità, quello che le rende desiderabili. Ma temo che ogni parola possa suonare come una giustificazione: non è quello che voglio. Quando sei padre le scelte in questo ambito, giuste o sbagliate che siano, se date in pasto alla pubblica opinione fanno male non a te ma ai tuoi figli. È questo che non mi perdonerò mai".
Lei aveva un appuntamento in via Gradoli quella sera?
"Non esattamente. Sono andato per suonare alla porta. Il desiderio è questo: suoni alla porta, e si apre. Poi riposi".
E se l'appartamento fosse stato occupato da altri?
"Sarei andato via".
Un rischio enorme.
"In effetti".
E come spiega allora la trappola. L'orchestrazione, la cocaina, il video?
"Aspettavano che arrivassi. Era successo altre volte. È un giro così. Ho saputo nei mesi successivi che quei cosiddetti rappresentanti dell'ordine erano coinvolti in molti altri episodi. Un sistema. Avrei dovuto accorgermene ma le difese, come le ho spiegato, in quei momenti sono molto basse. Non dimentichi, comunque, che nel mio caso è scattata l'azione giudiziaria solo perché io ho denunciato i fatti. È il nodo centrale: tutto è avvenuto perché ho denunciato, testimoniato. Se non l'avessi fatto nulla sarebbe emerso".
Quanto le costava tutto questo? Come poteva disporre di tanto denaro?
"Sono stato per molti anni un professionista affermato. Non ho accettato la candidatura per motivi economici, sono abituato a vivere del mio. Quello che ho guadagnato è frutto del mio lavoro, ho speso solo soldi miei".
Due persone sono morte: Brenda e il pusher Cafasso. Si è parlato della mano dei Servizi segreti. Si è detto che gli appartamenti di via Gradoli fossero controllati dai servizi.
"L'idea che mi sono fatto è che la dietrologia non aiuta mai a capire. C'è un'inchiesta in corso, bisogna aspettare. I giornali non sempre hanno aiutato la ricerca e la comprensione dei fatti, in questa vicenda. Ho letto in prima pagina sul Corriere un'intervista sulla morte di Brenda che non avevo mai rilasciato".
Quel video girava da mesi.
"Sì, ma nessuno mi stava ricattando. Io l'ho saputo dopo. Ho ricevuto una sola telefonata, non personalmente tra l'altro, molto ambigua. Non ho dato risposta. Non c'era un tentativo di estorsione in corso: se ci fosse stato, le assicuro, lo avrei denunciato mesi prima. Cosa sarebbe cambiato?".
La sua ricandidatura alla Regione, per esempio.
"Non mi sarei mai ricandidato sapendo di essere sotto ricatto. Difatti non è avvenuto".
Berlusconi l'ha avvertita dell'esistenza del video.
"Sì, era il 19 ottobre del 2009".
Cosa le ha detto? Come mai aveva il video?
"Mi ha detto che lo aveva avuto da uno dei suoi giornali a cui era stato offerto. Si è proposto di aiutarmi".
E lei cos'ha pensato? Che volesse aiutarla o tenerla sotto scacco?
"Ho pensato solo che non potevo restare in una posizione di tanta debolezza. Che comunque quella telefonata segnava uno spartiacque. Che non avrei più potuto fare il mio lavoro con la stessa autonomia, responsabilità, libertà. È stato l'inizio della mia decisione di parlare. C'è voluto un po' di tempo, dovevo prima dirlo in famiglia".
Sua moglie non sapeva niente delle sue abitudini, neppure di quelle remote, precedenti al vostro incontro?
"Lei cosa pensa?".
Immagino sia un no. Non ha mai pensato di parlargliene?
"No. Anche questo è stato un errore, di cui non so più come chiederle scusa. Ma è molto complicato, è qualcosa che riguarda davvero le nostre vite private".
Oggi siete separati.
"Purtroppo sì. Sono stati mesi molto duri per lei. Un giorno è persino uscito un articolo di giornale in cui si diceva che ricevevo una transessuale in Regione. Non era vero, non è vero, non l'ho fatto né l'avrei fatto mai. Questa persona è stata probabilmente indotta a dirlo in un tentativo orchestrato da altri di screditarmi anche sul piano della condotta pubblica. Un piano su cui so di non avere macchie. Quando sono andato in Procura a rendere dichiarazioni spontanee sull'episodio mi hanno detto: non c'è alcuna deposizione in proposito, non può dichiarare sul niente".
Lei dice di non avere macchie sul piano della conduzione della Regione. Nei mesi in cui si immaginava che a qualcuno convenisse tenerla sotto ricatto, però, si è molto parlato di alcune sue indulgenze in materia di sanità. Si diceva che Angelucci venisse in Regione in tuta da ginnastica, come fosse a casa sua la domenica, e che la trattasse da padrone.
"Veniva in tuta, è vero. Era un suo problema, non un mio problema. Lo facevo sedere, lo ascoltavo, e poi gli dicevo di no. Ho detto molti no, parlano gli atti per me. La sfido a trovare una singola carta che dimostri un mio trattamento di favore verso gli Angelucci. Non esiste. Al contrario, vedrà. Ho toccato interessi molto consistenti, e non solo a danno dell'imprenditore che lei nomina. La sanità è un territorio esteso, gli interessi sono trasversali. E poi c'è stata la tutela dell'ambiente nelle zone del basso Lazio, gli appetiti dell'edilizia sui parchi, il racket dei rifiuti. A Fondi ho commissariato il mercato ortofrutticolo inquinato dalla camorra e ho fatto saltare le speculazioni urbanistiche intorno al lago dichiarandolo "monumento naturale". Su questo ci sarebbe molto da dire. Ho scontato un isolamento ed un'ostilità assolute, dopo. Bipartisan, si dice in politica".
Si è sentito isolato anche a sinistra?
"Cambiano i caratteri, le modalità private di relazione fra persone. Alcuni sono stati più cortesi e compassionevoli, anche questo può essere umiliante, altri più sferzanti. In sostanza hanno tutti concordato sulla straordinaria opportunità che offriva la mia uscita di scena. Circolavano sondaggi che mostravano come avrei vinto comunque le elezioni. Non me ne sono curato, sono andato via. Avevo sbagliato. Che io sparissi dalla scena pubblica in quel momento - Polverini era la candidata di Fini, ricorda? - faceva comodo e piacere a molti non solo sul piano locale. In ogni caso avevo davvero altro a cui pensare. Per un mese intero sono stato in un convento".
Era Montecassino, da dove ha scritto la lettera al Papa?
"Non ho scritto al Papa. Dopo qualche giorno a Montecassino, e ancora oggi sono grato al Padre Abate e alla comunità monastica per come mi hanno accolto, ho sentito il bisogno di scrivere al cardinal Bertone per spiegare i motivi che mi avevano spinto a chiedere ospitalità. Non erano giorni facili, sapevo quale disagio potevo causare. Il senso di quella lettera era "la mia vita riparte da qui". Ricordo le parole "non posso che sedermi all'ultimo banco". A Montecassino ho ripreso in mano due libri, le confessioni di Sant'Agostino e l'autobiografia di Simenon. Il primo mi ha aiutato a capire che se hai conosciuto il male non devi più nasconderti, devi continuare a guardarlo in faccia. Nella vita di Simenon mi interessava il tema dei sensi di colpa di un padre. Ecco, sono ripartito da questo".
E oggi, che cosa pensa? Tornerebbe in politica? Se ne parla molto.
"Lo so, lo so. So che molti lo temono, anche fra gli "amici". Ho conservato un rapporto straordinario con le persone, con la gente per strada. Mi chiedono sempre, anche stasera - ha visto? - presidente, quando torna? Le persone comuni capiscono benissimo le vicende della vita, sanno distinguere, sanno giudicare e trarre le conseguenze. Sanno anche perdonare, se la colpa è una debolezza e non una frode ai loro danni. Ne sono sicuro, lo so perché lo vedo. La distanza di questa politica dalla vita reale è diventata il vero problema del paese. Hanno paura - tutti, nelle loro blindate stanze - di tutto ciò che è autentico, anche nell'errore. La popolarità, il consenso di chi non sia manovrabile, ricattabile è per loro un pericolo tremendo. È la misura del loro limite. Quelli che si comportano come se avessero un mandato a vita per rappresentare gli altri sono uno dei problemi della nostra politica. Chi governa deve essere chiamato a farlo dai cittadini ed avere la loro fiducia. Parlare di liste civiche, dei protagonismi di questo o quel personaggio in un momento di crisi come questo mi sembra fuori luogo, miope e presuntuoso insieme. Detto questo: da uomo pubblico non ci si dimette".
In che senso?
"Lasci l'incarico, ma non lasci mai il carico di responsabilità che hai agli occhi degli altri. L'ho capito a mie spese. Un giorno Enrico Mentana, col quale avevo lavorato al Tg2, mi ha detto: Piero, è inutile girarci intorno. Ogni uomo pubblico viene ricordato per un episodio e tu sai che lo scandalo è entrato nella memoria collettiva per sempre. È vero, e ho apprezzato la sua franchezza, ma sentivo che c'era qualcosa di più. C'è la vita di un uomo, la vita prima e la vita dopo. Questo la memoria collettiva, per quanto impietosa, non può cancellarlo".
Lei era ricattabile, mi pare che questo resti il punto.
"Ero ricattabile, sì. Infatti è andata com'è andata. Però vorrei che si ricordasse sempre che mi sono dimesso, che era una debolezza privata, che non ho fatto torto a nessuno se non alla mia famiglia. Che la corruzione era in chi avrebbe dovuto proteggerci e non credo alle "mele marce", non posso credere che nessuno vedesse e sapesse tra chi comandava quel nucleo criminale. Che gli interessi enormi che ho toccato sono ancora tutti lì, che le vicende umane sono state devastanti per molti e letali per alcuni. Ma io sono il figlio di Joe Marrazzo, mio padre lo voleva morto la mafia. Ho sbagliato e chiedo scusa, lo chiederei a lui prima che agli altri se fosse qui. Per il futuro vedremo, nessuno di noi può darselo da solo. Sconto il mio errore come è giusto. La vita è davanti".
(15 agosto 2011) da http://www.repubblica.it/
design competitions are the way to get free design job at no cost!
These horrible crisis days are the days of getting free design work without paying designers:
there are many web sites where companies such as important sport/fashion brands decide to create a design competition, (not for designers, but for themself!) with prizes, etc, etc, and in reality they get tons of free design work for nothing!
I do not understand why these huge names of sport, fashion and footwear company do not use their own designers, since they must have some to go on!
So maybe the head hunters made a bad work while they presented candidates to the above mentioned companies? or what? when a designer is hired he/she decides not to create anything?
And most of all PLEASE UNEMPLOYED DESIGNERS DO NOT WASTE TIME WITH THESE USELESS COMPETITIONS! BETTER FIND A REAL JOB!
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il menù dei senatori! Scandalosi prezzi solo per la casta!
Ecco il menù super stracciato per i senatori della Repubblica Italiana.
Di privilegio in privilegio a spese nostre...
da http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2011/08/11/pop_menu-senato-ristorante.shtml
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Bennett & Collins the shoe boutique in Killyleagh
These amazing creations are all handmade: bags and shoes and can be ordered at Bennett&Collins
in Killyleagh, Northen Ireland.This shoe boutique follows the client from the initial idea to the delivery of the items, since the products are bespoke and handmade in Italy and England.
E' normale che le borse affondino...
E' normale che le borse affondino: in questi anni solo la disoccupazione è in crescita assieme con la delocalizzazione.
L'affondamento quotidiano dell'economia internazionale, gli scontri di Londra, le rivolte nel nord Africa, etc., etc. sono sintomi della stessa malattia poco e malissimo affrontata e governata: la globalizzazione.
Strano che i capitalisti, i capitani d'azienda, i manager abbiano pensato che la fabbrica del mondo cinese non avrebbe intaccato le fortezze economiche USA ed europee.
Ma, e questo è gravissimo, delocalizzare significa lasciare macerie sociali nei paesi di provenienza che si sono impoveriti e (attenzione) hanno smesso di comprare (con quali soldi? visto che se si è in cassa integrazione o peggio, a zero euro o zer dollari e allora non c'è proprio lo stimolo ad acquistare?) e se il mondo occidentale smette di consumare (la robaccia economica e usa e getta prodotta in fretta da lavoratori asiatici, dell'est, africani, etc.etc. sfruttatissimi e senza quasi diritti), la globalizzazione si impalla.
Del resto non c'è mercanzia che tenga: la qualità è scomparsa e lo stimolo, ammesso che ci siano i soldi per "consumare" è incenerito.
La cosa bislacca è che i papaveri teorici dell'economia e appunto coloro che hanno sostenuto la delocalizzazione e la globalizzazione non si siamo immaginati la macelleria sociale che determinavano nel mondo occidentale che ora giustamente non ha possibilità di continuare a consumare.
L'affondamento quotidiano dell'economia internazionale, gli scontri di Londra, le rivolte nel nord Africa, etc., etc. sono sintomi della stessa malattia poco e malissimo affrontata e governata: la globalizzazione.
Strano che i capitalisti, i capitani d'azienda, i manager abbiano pensato che la fabbrica del mondo cinese non avrebbe intaccato le fortezze economiche USA ed europee.
Ma, e questo è gravissimo, delocalizzare significa lasciare macerie sociali nei paesi di provenienza che si sono impoveriti e (attenzione) hanno smesso di comprare (con quali soldi? visto che se si è in cassa integrazione o peggio, a zero euro o zer dollari e allora non c'è proprio lo stimolo ad acquistare?) e se il mondo occidentale smette di consumare (la robaccia economica e usa e getta prodotta in fretta da lavoratori asiatici, dell'est, africani, etc.etc. sfruttatissimi e senza quasi diritti), la globalizzazione si impalla.
Del resto non c'è mercanzia che tenga: la qualità è scomparsa e lo stimolo, ammesso che ci siano i soldi per "consumare" è incenerito.
La cosa bislacca è che i papaveri teorici dell'economia e appunto coloro che hanno sostenuto la delocalizzazione e la globalizzazione non si siamo immaginati la macelleria sociale che determinavano nel mondo occidentale che ora giustamente non ha possibilità di continuare a consumare.
Appello a Piero Marrazzo
Stilinga volge una preghiera/appello a Pietro Marrazzo, in quanto recentemente ha ipotizzato di "scendere" nuovamente in campo (politico), ecco che l'appello è proprio dovuto e necessario:
Caro Marrazzo,
non credo d'essere l'unica
se le chiedo di evitare la discesa nel politico andazzo,
molto fummo colpiti dalla sua vicenda che forse lei non sa,
ma fu accolta come cosa orrenda,
e non per la questione trans, di cui non discutiamo la scelta,
ma per averci celato la sua vera natura,
molto di più l'avremmo rispettata se da subito avesse detto:
"amo i trans" e noi non saremmo davvero caduti dal pero,
né ci saremmo scomposti,
basta sapere le cose e forse avrebbe avuto anche più voti,
ma quando subito dopo la scoperta innovativa,
lei decise di chiedere umilmente scusa al papa
enorme fu il boato che nella nostra testa risuovana,
forte lo stordimento che saliva:
"Al papa? Ma al papa re?"
se non erro siamo stati noi elettori laziali e repubblicani ad eleggerla
e non il papa...
e a noi scusi tanto signor Marrazzo, ma a noi non chiede scusa?
è forse troppo avvisarla che qua è ancora una repubblica?
La ringrazio e spero capisca la nostra richiesta,
per favore si faccia da parte e abbia per una volta testa!
Caro Marrazzo,
non credo d'essere l'unica
se le chiedo di evitare la discesa nel politico andazzo,
molto fummo colpiti dalla sua vicenda che forse lei non sa,
ma fu accolta come cosa orrenda,
e non per la questione trans, di cui non discutiamo la scelta,
ma per averci celato la sua vera natura,
molto di più l'avremmo rispettata se da subito avesse detto:
"amo i trans" e noi non saremmo davvero caduti dal pero,
né ci saremmo scomposti,
basta sapere le cose e forse avrebbe avuto anche più voti,
ma quando subito dopo la scoperta innovativa,
lei decise di chiedere umilmente scusa al papa
enorme fu il boato che nella nostra testa risuovana,
forte lo stordimento che saliva:
"Al papa? Ma al papa re?"
se non erro siamo stati noi elettori laziali e repubblicani ad eleggerla
e non il papa...
e a noi scusi tanto signor Marrazzo, ma a noi non chiede scusa?
è forse troppo avvisarla che qua è ancora una repubblica?
La ringrazio e spero capisca la nostra richiesta,
per favore si faccia da parte e abbia per una volta testa!
La vita dissipata degli "onorevoli" (?) a Roma
Da La Repubblica
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/noi-onorevoli-e-nullafacenti/2156856//1
'Noi, onorevoli e nullafacenti'di Emiliano Fittipaldi.
Un parlamentare accompagna L'Espresso nei privilegi di Montecitorio.
Ecco la prima puntata del suo racconto: dove ci spiega che si lavora pochissimo, si comprano auto scontate e per viaggiare si sceglie sempre Alitalia, che è la più cara, tanto paga lo Stato e così si accumulano punti per portare la famiglia in vacanza
(21 luglio 2011) Carlo Monai è l'unico, dopo sette tentativi andati a vuoto, che ha accettato di raccontare a "l'Espresso" com'è cambiata la sua vita da quando è entrato nella casta. E' un avvocato di Cividale del Friuli, ex consigliere regionale e oggi deputato dell'Idv al primo mandato parlamentare. Uno dei peones, a tutti gli effetti.
Uno coraggioso, direbbe qualcuno, visto che ha deciso di metterci la faccia e guidarci come novello Virgilio nella bolgia di indennità, vitalizi, doppi incarichi, regali, sconti e privilegi in cui sguazzano politici di ogni risma. Un paradiso per pochi, un inferno per le tasche dei contribuenti italiani, stressati da quattro anni di crisi economica e da una Finanziaria lacrime e sangue che chiederà ulteriori sacrifici. «Per tutti, ma non per noi», chiarisce Monai. «I costi della politica sono stati ridotti di pochissimo, e alcuni sprechi sono immorali. Non possiamo chiedere rinunce agli elettori se per primi non tagliamo franchigie e sperperi».
L'incontro è al bar La Caffettiera, martedì mattina, davanti a Montecitorio. Difficile ottenere un appuntamento di lunedì. «Noi siamo a Roma da martedì al giovedì sera», spiega. «Ma in questa legislatura pare che stiamo facendo peggio che mai: spesso lavoriamo due giorni a settimana, e il mercoledì già torniamo a casa. Nel 2010 e nel 2011 l'aula non è mai stata convocata di venerdì. Le sembra possibile?».
Anche in commissione l'assenteismo è da record. «Su una quarantina di membri, se ce ne sono una decina presenti è grasso che cola. Io credo che lo stipendio che prendiamo sia giusto, ma a condizione che l'impegno sia reale. Se il mio studio fosse aperto quanto la Camera, avrei davvero pochi clienti».
La busta paga di Monai è identica a quella dei suoi colleghi: l'indennità netta è di 5.486,58 euro, a cui bisogna aggiungere una diaria di 3.503,11 euro. Per ogni giorno di assenza la voce viene decurtata di 206 euro, ma solo per le sedute in cui si svolgono le votazioni. E se quel giorno hai proprio altro da fare, poco male: basta essere presenti anche a una votazione su tre, e il gettone di presenza è assicurato ugualmente. Lo stipendio è arricchito con il rimborso spese forfettario per garantire il rapporto tra l'eletto e il suo collegio (3.690 euro al mese), e gli emolumenti che coprono le uscite per trasporti, spese di viaggio e telefoni (altri 1.500 all'incirca). In tutto, oltre 14 mila euro al mese netti. Ai quali molti suoi colleghi con galloni possono aggiungere altre indennità di carica.
Monai inizia il suo viaggio. «Non bisogna essere demagogici. Parliamo solo di fatti. Partiamo dagli assistenti parlamentari: molti non li hanno. Visto che le spese non vanno documentate, preferiscono intascarsi altri 3.690 euro destinati ai portaborse e fare tutto da soli. Altri colleghi per risparmiare si mettono insieme e ne pagano uno che fa il triplo lavoro».
Ecco così svelata la sproporzione tra il numero dei deputati (630) e i contratti in corso per i segretari (230). «Non c'è più tanto nero come qualche anno fa. Anche un altro mito va sfatato: la Camera non ci regala cellulari, come molti credono, ma ogni deputato può avere altri 3.098 euro l'anno per pagare le telefonate. La Telecom ci offre poi dei contratti, chiamati "Tim Top Business Class", destinati a deputati e senatori. Per i computer? Abbiamo un plafond di altri 1.500 euro». Anche quand'era in consiglio regionale del Friuli le telefonate non erano un problema: «La Regione copriva tutto. Se non ti fai scrupoli puoi spendere quanto vuoi. Lo sa che lì c'è pure un indennizzo forfettario per l'utilizzo della propria macchina? Per chi vive fuori Trieste, 1.800 euro in più al mese. Tutti prendevano il treno regionale, e si intascavano la differenza». Portandosi a casa solo grazie a questa voce lo stipendio di un operaio specializzato.
Già. I trasporti gratis sono un must dei politici. Monai elenca i vantaggi di cui può usufruire. «Il precario che su Internet ha svelato gli sconti che ci fa la Peugeot s'è dimenticato che anche altre case offrono benefit simili: ho ricevuto offerte dalla Fiat, dalla Mercedes, dalla Renault. Dal 10 al 25 per cento in meno. Credo che lo facciano per una questione di marketing».
Ogni parlamentare ha una tessera che gli consente di non pagare l'autostrada, i treni e gli aerei (sempre prima classe) e le navi, in modo da potersi spostare liberamente sul territorio nazionale. «Tutto gratis, anche se devo andare al compleanno della nonna», chiosa l'onorevole. «Dovrebbero essere pagati solo i viaggi legati al nostro incarico pubblico».
Oltre a questi soldi è previsto un ulteriore rimborso mensile per taxi e varie che va, a secondo della distanza tra l'abitazione e l'aeroporto, da 1.007 a 1.331 euro al mese. Questa è una cosa nota. Pochi sanno però che quasi tutti i deputati, per comprare i biglietti aerei, fanno riferimento esclusivamente all'agenzia americana (con sede in Minnesota) Carlson Wagonlit. «A loro noi chiediamo sempre di volare con Alitalia, che è la più cara di tutte. Nessuno ci vieterebbe, però, di scegliere compagnie low cost».
I politici se ne guardano bene: da un lato il prezzo di un biglietto low cost lo devi anticipare tu (mentre con Alitalia anticipa il Parlamento), dall'altro perderesti i punti per la carta fedeltà "Millemiglia". «I punti li giriamo a mogli e figli, ma in genere i deputati li usano per andare gratis all'estero: perché tranne qualche missione coordinata con il presidente della commissione», ragiona Monai, «i viaggi all'estero dobbiamo pagarceli di tasca nostra».
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/noi-onorevoli-e-nullafacenti/2156856//1
'Noi, onorevoli e nullafacenti'di Emiliano Fittipaldi.
Un parlamentare accompagna L'Espresso nei privilegi di Montecitorio.
Ecco la prima puntata del suo racconto: dove ci spiega che si lavora pochissimo, si comprano auto scontate e per viaggiare si sceglie sempre Alitalia, che è la più cara, tanto paga lo Stato e così si accumulano punti per portare la famiglia in vacanza
(21 luglio 2011) Carlo Monai è l'unico, dopo sette tentativi andati a vuoto, che ha accettato di raccontare a "l'Espresso" com'è cambiata la sua vita da quando è entrato nella casta. E' un avvocato di Cividale del Friuli, ex consigliere regionale e oggi deputato dell'Idv al primo mandato parlamentare. Uno dei peones, a tutti gli effetti.
Uno coraggioso, direbbe qualcuno, visto che ha deciso di metterci la faccia e guidarci come novello Virgilio nella bolgia di indennità, vitalizi, doppi incarichi, regali, sconti e privilegi in cui sguazzano politici di ogni risma. Un paradiso per pochi, un inferno per le tasche dei contribuenti italiani, stressati da quattro anni di crisi economica e da una Finanziaria lacrime e sangue che chiederà ulteriori sacrifici. «Per tutti, ma non per noi», chiarisce Monai. «I costi della politica sono stati ridotti di pochissimo, e alcuni sprechi sono immorali. Non possiamo chiedere rinunce agli elettori se per primi non tagliamo franchigie e sperperi».
L'incontro è al bar La Caffettiera, martedì mattina, davanti a Montecitorio. Difficile ottenere un appuntamento di lunedì. «Noi siamo a Roma da martedì al giovedì sera», spiega. «Ma in questa legislatura pare che stiamo facendo peggio che mai: spesso lavoriamo due giorni a settimana, e il mercoledì già torniamo a casa. Nel 2010 e nel 2011 l'aula non è mai stata convocata di venerdì. Le sembra possibile?».
Anche in commissione l'assenteismo è da record. «Su una quarantina di membri, se ce ne sono una decina presenti è grasso che cola. Io credo che lo stipendio che prendiamo sia giusto, ma a condizione che l'impegno sia reale. Se il mio studio fosse aperto quanto la Camera, avrei davvero pochi clienti».
La busta paga di Monai è identica a quella dei suoi colleghi: l'indennità netta è di 5.486,58 euro, a cui bisogna aggiungere una diaria di 3.503,11 euro. Per ogni giorno di assenza la voce viene decurtata di 206 euro, ma solo per le sedute in cui si svolgono le votazioni. E se quel giorno hai proprio altro da fare, poco male: basta essere presenti anche a una votazione su tre, e il gettone di presenza è assicurato ugualmente. Lo stipendio è arricchito con il rimborso spese forfettario per garantire il rapporto tra l'eletto e il suo collegio (3.690 euro al mese), e gli emolumenti che coprono le uscite per trasporti, spese di viaggio e telefoni (altri 1.500 all'incirca). In tutto, oltre 14 mila euro al mese netti. Ai quali molti suoi colleghi con galloni possono aggiungere altre indennità di carica.
Monai inizia il suo viaggio. «Non bisogna essere demagogici. Parliamo solo di fatti. Partiamo dagli assistenti parlamentari: molti non li hanno. Visto che le spese non vanno documentate, preferiscono intascarsi altri 3.690 euro destinati ai portaborse e fare tutto da soli. Altri colleghi per risparmiare si mettono insieme e ne pagano uno che fa il triplo lavoro».
Ecco così svelata la sproporzione tra il numero dei deputati (630) e i contratti in corso per i segretari (230). «Non c'è più tanto nero come qualche anno fa. Anche un altro mito va sfatato: la Camera non ci regala cellulari, come molti credono, ma ogni deputato può avere altri 3.098 euro l'anno per pagare le telefonate. La Telecom ci offre poi dei contratti, chiamati "Tim Top Business Class", destinati a deputati e senatori. Per i computer? Abbiamo un plafond di altri 1.500 euro». Anche quand'era in consiglio regionale del Friuli le telefonate non erano un problema: «La Regione copriva tutto. Se non ti fai scrupoli puoi spendere quanto vuoi. Lo sa che lì c'è pure un indennizzo forfettario per l'utilizzo della propria macchina? Per chi vive fuori Trieste, 1.800 euro in più al mese. Tutti prendevano il treno regionale, e si intascavano la differenza». Portandosi a casa solo grazie a questa voce lo stipendio di un operaio specializzato.
Già. I trasporti gratis sono un must dei politici. Monai elenca i vantaggi di cui può usufruire. «Il precario che su Internet ha svelato gli sconti che ci fa la Peugeot s'è dimenticato che anche altre case offrono benefit simili: ho ricevuto offerte dalla Fiat, dalla Mercedes, dalla Renault. Dal 10 al 25 per cento in meno. Credo che lo facciano per una questione di marketing».
Ogni parlamentare ha una tessera che gli consente di non pagare l'autostrada, i treni e gli aerei (sempre prima classe) e le navi, in modo da potersi spostare liberamente sul territorio nazionale. «Tutto gratis, anche se devo andare al compleanno della nonna», chiosa l'onorevole. «Dovrebbero essere pagati solo i viaggi legati al nostro incarico pubblico».
Oltre a questi soldi è previsto un ulteriore rimborso mensile per taxi e varie che va, a secondo della distanza tra l'abitazione e l'aeroporto, da 1.007 a 1.331 euro al mese. Questa è una cosa nota. Pochi sanno però che quasi tutti i deputati, per comprare i biglietti aerei, fanno riferimento esclusivamente all'agenzia americana (con sede in Minnesota) Carlson Wagonlit. «A loro noi chiediamo sempre di volare con Alitalia, che è la più cara di tutte. Nessuno ci vieterebbe, però, di scegliere compagnie low cost».
I politici se ne guardano bene: da un lato il prezzo di un biglietto low cost lo devi anticipare tu (mentre con Alitalia anticipa il Parlamento), dall'altro perderesti i punti per la carta fedeltà "Millemiglia". «I punti li giriamo a mogli e figli, ma in genere i deputati li usano per andare gratis all'estero: perché tranne qualche missione coordinata con il presidente della commissione», ragiona Monai, «i viaggi all'estero dobbiamo pagarceli di tasca nostra».
Amy Winehouse - Love is a Losing Game
This is a tribute to the great voice and passion of this unfortunate and delicate soul.
La politica di casta in Italia
Da Il Fatto Quotidiano
“Mediocracy”, la dura legge della Casta
Uno studio inedito sui meccanismi di selezione dei parlamentari rivela perché abbiamo la peggiore classe politica di sempre: la più ignorante, la più vecchia, la più assente e la più pagata al mondo
La più vecchia, la più assenteista, la più costosa tra i paesi sviluppati. E insieme, la meno istruita e preparata nella storia della Repubblica. In altre parole “la più mediocre classe politica che l’Italia abbia avuto dal 1948”. Niente meno. Questo giudizio, durissimo, non arriva da una poltrona rossa di Ballarò o da uno SpiderTruman della rete ma è la convinzione di un economista italiano di fama mondiale che si è posto un problema: capire perché l’insieme dei parlamentari italiani si trasformi “matematicamente” nella casta. E ce l’ha fatta. Antonio Merlo, direttore del dipartimento di Economia della University of Pennsylvania, ha scoperto la formula della “mediocrazia” (leggi l’intervista a Merlo)”, cioè della propensione tutta italiana a far sedere in Parlamento non i migliori ma gli “unfit to lead”, gli inadatti a governare, per usare una celebre frase usata dall’Economist per definire Berlusconi. Ilfattoquotidiano.it ha potuto leggere in anteprima questo workpaper inedito che farà discutere ben oltre gli ambienti accademici. Si chiama appunto “mediocracy” e termina con un modello di calcolo che potrà diventare un simbolo per chi vuole cambiare le cose:
Guardatela bene, anche senza capirla. La si potrebbe perfino appendere dietro alla scrivania o stampare su t-shirt, come la legge di gravità. Perché questa, signori e signore, è la legge della casta italiana. Dentro c’è tutto: c’è il berlusconismo, ci sono le leggi ad personam, il conflitto di interessi, i privilegi, i faccendieri, la corruzione. Risponde con i numeri alle domande che assillando gli italiani: chi abbiamo mandato in parlamento? Perché lavora per i propri privilegi e non per noi? Perché guadagna tanto e rende poco? Perché tutti votano le leggi utili a uno solo? A cosa servono gli affaristi nella politica?
Ebbene il risultato dei calcoli complessi fatti da Merlo confermano che l’Italia ha bisogno di una rivoluzione istituzionale e non di qualche taglio, di un intervento urgente sulla legge elettorale perché quella attuale (il sistema elettorale proporzionale a liste chiuse) incentiva “in modo perverso” i partiti a selezionare “non i migliori candidati possibili ma i più mediocri, i cosiddetti yesman, utili ad assecondare il partito e il capo e a votare compatti anche quello che un cittadino intellettualmente onesto mai voterebbe”. Ecco perché secondo Merlo “i provvedimenti indicati nella bozza di riforma di Calderoli vanno sicuramente nella direzione giusta ma rischiano di restare un “contentino” senza una riforma istituzionale del sistema politico”.
In ogni caso, da oggi, l’espressione “era meglio la Prima Repubblica” non è più un modo di dire. E’ una certezza matematica. Costruita mettendo nero su bianco una serie di variabili come l’età, il livello di istruzione, il tasso di crescita delle indennità parlamentari, i tassi di assenteismo dei nostri “eletti”.
In pratica un sistema di coordinate che descrive puntualmente quella fuga in avanti della casta rispetto al Paese reale e da quello che avviene in altre nazioni. In Italia c’è una sorta di regno autonomo della mediocrazia, dove in sessant’anni le retribuzioni dei governanti sono cresciute del 1.185% con una media annua del 10%, mentre quelle dei governati solo di qualche punto percentuale. Dove i governati hanno sudato per garantire ai figli un’istruzione universitaria mentre tra i governanti il numero di laureati scendeva drasticamente. Di questo passo, si arriverà presto al paradosso che il corpo degli eletti sarà meno istruito dei suoi stessi elettori, suggellando così il definitivo trionfo della mediocrazia.
I PIU’ VECCHI E MENO ISTRUITI
Chi siede alla Camera e al Senato oggi è più vecchio. Prima del 92-94 si entrava in Parlamento con un’età media di 44,7 anni contro i 48,1 della Seconda. Oggi la media è 50 anni. Decisamente il Paese con la classe politica più vecchia d’Europa e che tende ancora a restare in Parlamento di più sganciandosi dalla tendenza delle altre nazioni a rinnovare la classe dirigente puntando su eletti mediamente più giovani. Il tasso di ricambio in Parlamento, calcolato come la proporzione dei nuovi entranti nel periodo 1953-2008, si è attestato intorno al 40 per cento. Nella II Legislatura (1953-58) era stata del 37,6 per cento, mentre aveva raggiunto la quota minima del 26,3% nella VIII Legislatura (1979- 1983). Nella XII Legislatura (1994-1996), che ha segnato l’inizio della Seconda Repubblica, il tasso di ricambio è balzato al 69,5 per cento e da allora si è mantenuto costante attorno al 45-50 per cento.
Il raffronto tra retribuzioni e tassi di istruzione è scioccante: le indennità parlamentari sono cresciute del 10% l’anno mentre la quota di laureati è scesa dello 0,5% annuo.
* Fonte: The Ruling Class (Edizioni Egea – Università Bocconi 2010) – A. Merlo, V. Galasso, M. Landi, A. Mattozzi
IGNORANTI IN AUTO BLU
Più vecchi e tuttavia meno preparati. La percentuale dei nuovi eletti con una laurea è significativamente diminuita nel corso del tempo con un brusco crollo nel passaggio tra la prima e la seconda Repubblica: dal 91,4% nella I Legislatura, al 64,6% all’inizio della XV Legislatura. In pratica la casta è riuscita ad andare contro la tendenza nazionale che, negli stessi anni, ha visto aumentare sensibilmente la quota di popolazione istruita. Di questo passo, si arriverà al paradosso che il corpo degli eletti sarà meno istruito dei suoi stessi elettori.
ASSENTEISTI SI’, MA STRAPAGATI
Vecchi, impreparati ma meglio pagati di tutti. A dispetto della qualità del ceto politico in picchiata, le indennità parlamentari sono schizzate alle stelle sganciandosi da quanto accadeva nel resto del Paese. In Italia l’indennità parlamentare annua, in termini reali (misurata in euro del 2005), è aumentata da 10.712 euro nel 1948 a 137.691 euro nel 2006, il che significa un aumento medio del 9,9 per cento all’anno e un incremento totale di 1.185,4 per cento (negli Stati Uniti l’incremento annuale è stato dell’1,5 per cento e l’incremento totale del 58 per cento!).
Entrare nel Parlamento Italiano conviene sempre: i redditi totali dei deputati nel primo anno di attività in Parlamento aumentano del 77% rispetto a quelli dell’anno precedente. Dal 1985 al 2004, in Italia il mestiere del Parlamentare è stato particolarmente redditizio. Infatti, il reddito reale annuale di un parlamentare è cresciuto tra 5 e 8 volte più del reddito reale annuale medio di un operaio, tra 3,8 e 6 volte quello di un impiegato, e tra 3 e 4 volte quello di un dirigente. Dalla fine degli anni 90’, il 25% dei parlamentari guadagna un reddito extraparlamentare annuale che e’ superiore al reddito della maggioranza dei dirigenti.
Interessante anche l’effetto deteriore sulla partecipazione derivante dal possibilità di cumulare reddito privato professionale e indennità di carica. Ogni singolo anno trascorso in Parlamento incrementa i redditi addizionali all’indennità parlamentare del 4,2 per cento nel primo anno in Parlamento. Questo spiega anche lo scarso impegno degli eletti in aula: i calcoli dicono che in media ogni 10mila euro di extra reddito riduce la partecipazione in Parlamento dell’1%.
IL BERLUSCONISMO: L’INIZIO DELLA FINE
Ultima riflessione riguarda le date del declino di tutti gli indici che si possono considerare “positivi” nella definizione della classe politica e la crescita costante di quelli che si possono definire “negativi”. L’andamento delle curve relative a età, istruzione, assenteismo e indennità presenta uno snodo netto tra il 92 e il 94. Da allora ogni linea segue una tendenza diversa e contraria rispetto al passato, peggiorativa rispetto ai livelli di qualità della Prima Repubblica. “Allora – ragiona Merlo – sulle ceneri di Tangentopoli nasceva il partito di Silvio Berlusconi che ha reclutato una classe dirigente diversa dal passato proponendo al posto della rappresentanza politica del Paese il modello privatistico dello stato-azienda. Da allora le leggi ad personam si sono moltiplicate, i mali atavici dell’assenteismo e degli alti costi della politica si sono acuiti e il Paese è arretrato economicamente. L’insieme di queste spinte divergenti ha contribuito ad alimentare la mediocracy, la forma di governo che non premia i migliori e non fa cadere i peggiori”.
“Mediocracy”, la dura legge della Casta
Uno studio inedito sui meccanismi di selezione dei parlamentari rivela perché abbiamo la peggiore classe politica di sempre: la più ignorante, la più vecchia, la più assente e la più pagata al mondo
La più vecchia, la più assenteista, la più costosa tra i paesi sviluppati. E insieme, la meno istruita e preparata nella storia della Repubblica. In altre parole “la più mediocre classe politica che l’Italia abbia avuto dal 1948”. Niente meno. Questo giudizio, durissimo, non arriva da una poltrona rossa di Ballarò o da uno SpiderTruman della rete ma è la convinzione di un economista italiano di fama mondiale che si è posto un problema: capire perché l’insieme dei parlamentari italiani si trasformi “matematicamente” nella casta. E ce l’ha fatta. Antonio Merlo, direttore del dipartimento di Economia della University of Pennsylvania, ha scoperto la formula della “mediocrazia” (leggi l’intervista a Merlo)”, cioè della propensione tutta italiana a far sedere in Parlamento non i migliori ma gli “unfit to lead”, gli inadatti a governare, per usare una celebre frase usata dall’Economist per definire Berlusconi. Ilfattoquotidiano.it ha potuto leggere in anteprima questo workpaper inedito che farà discutere ben oltre gli ambienti accademici. Si chiama appunto “mediocracy” e termina con un modello di calcolo che potrà diventare un simbolo per chi vuole cambiare le cose:
Guardatela bene, anche senza capirla. La si potrebbe perfino appendere dietro alla scrivania o stampare su t-shirt, come la legge di gravità. Perché questa, signori e signore, è la legge della casta italiana. Dentro c’è tutto: c’è il berlusconismo, ci sono le leggi ad personam, il conflitto di interessi, i privilegi, i faccendieri, la corruzione. Risponde con i numeri alle domande che assillando gli italiani: chi abbiamo mandato in parlamento? Perché lavora per i propri privilegi e non per noi? Perché guadagna tanto e rende poco? Perché tutti votano le leggi utili a uno solo? A cosa servono gli affaristi nella politica?
Ebbene il risultato dei calcoli complessi fatti da Merlo confermano che l’Italia ha bisogno di una rivoluzione istituzionale e non di qualche taglio, di un intervento urgente sulla legge elettorale perché quella attuale (il sistema elettorale proporzionale a liste chiuse) incentiva “in modo perverso” i partiti a selezionare “non i migliori candidati possibili ma i più mediocri, i cosiddetti yesman, utili ad assecondare il partito e il capo e a votare compatti anche quello che un cittadino intellettualmente onesto mai voterebbe”. Ecco perché secondo Merlo “i provvedimenti indicati nella bozza di riforma di Calderoli vanno sicuramente nella direzione giusta ma rischiano di restare un “contentino” senza una riforma istituzionale del sistema politico”.
In ogni caso, da oggi, l’espressione “era meglio la Prima Repubblica” non è più un modo di dire. E’ una certezza matematica. Costruita mettendo nero su bianco una serie di variabili come l’età, il livello di istruzione, il tasso di crescita delle indennità parlamentari, i tassi di assenteismo dei nostri “eletti”.
In pratica un sistema di coordinate che descrive puntualmente quella fuga in avanti della casta rispetto al Paese reale e da quello che avviene in altre nazioni. In Italia c’è una sorta di regno autonomo della mediocrazia, dove in sessant’anni le retribuzioni dei governanti sono cresciute del 1.185% con una media annua del 10%, mentre quelle dei governati solo di qualche punto percentuale. Dove i governati hanno sudato per garantire ai figli un’istruzione universitaria mentre tra i governanti il numero di laureati scendeva drasticamente. Di questo passo, si arriverà presto al paradosso che il corpo degli eletti sarà meno istruito dei suoi stessi elettori, suggellando così il definitivo trionfo della mediocrazia.
I PIU’ VECCHI E MENO ISTRUITI
Chi siede alla Camera e al Senato oggi è più vecchio. Prima del 92-94 si entrava in Parlamento con un’età media di 44,7 anni contro i 48,1 della Seconda. Oggi la media è 50 anni. Decisamente il Paese con la classe politica più vecchia d’Europa e che tende ancora a restare in Parlamento di più sganciandosi dalla tendenza delle altre nazioni a rinnovare la classe dirigente puntando su eletti mediamente più giovani. Il tasso di ricambio in Parlamento, calcolato come la proporzione dei nuovi entranti nel periodo 1953-2008, si è attestato intorno al 40 per cento. Nella II Legislatura (1953-58) era stata del 37,6 per cento, mentre aveva raggiunto la quota minima del 26,3% nella VIII Legislatura (1979- 1983). Nella XII Legislatura (1994-1996), che ha segnato l’inizio della Seconda Repubblica, il tasso di ricambio è balzato al 69,5 per cento e da allora si è mantenuto costante attorno al 45-50 per cento.
Il raffronto tra retribuzioni e tassi di istruzione è scioccante: le indennità parlamentari sono cresciute del 10% l’anno mentre la quota di laureati è scesa dello 0,5% annuo.
* Fonte: The Ruling Class (Edizioni Egea – Università Bocconi 2010) – A. Merlo, V. Galasso, M. Landi, A. Mattozzi
IGNORANTI IN AUTO BLU
Più vecchi e tuttavia meno preparati. La percentuale dei nuovi eletti con una laurea è significativamente diminuita nel corso del tempo con un brusco crollo nel passaggio tra la prima e la seconda Repubblica: dal 91,4% nella I Legislatura, al 64,6% all’inizio della XV Legislatura. In pratica la casta è riuscita ad andare contro la tendenza nazionale che, negli stessi anni, ha visto aumentare sensibilmente la quota di popolazione istruita. Di questo passo, si arriverà al paradosso che il corpo degli eletti sarà meno istruito dei suoi stessi elettori.
ASSENTEISTI SI’, MA STRAPAGATI
Vecchi, impreparati ma meglio pagati di tutti. A dispetto della qualità del ceto politico in picchiata, le indennità parlamentari sono schizzate alle stelle sganciandosi da quanto accadeva nel resto del Paese. In Italia l’indennità parlamentare annua, in termini reali (misurata in euro del 2005), è aumentata da 10.712 euro nel 1948 a 137.691 euro nel 2006, il che significa un aumento medio del 9,9 per cento all’anno e un incremento totale di 1.185,4 per cento (negli Stati Uniti l’incremento annuale è stato dell’1,5 per cento e l’incremento totale del 58 per cento!).
Entrare nel Parlamento Italiano conviene sempre: i redditi totali dei deputati nel primo anno di attività in Parlamento aumentano del 77% rispetto a quelli dell’anno precedente. Dal 1985 al 2004, in Italia il mestiere del Parlamentare è stato particolarmente redditizio. Infatti, il reddito reale annuale di un parlamentare è cresciuto tra 5 e 8 volte più del reddito reale annuale medio di un operaio, tra 3,8 e 6 volte quello di un impiegato, e tra 3 e 4 volte quello di un dirigente. Dalla fine degli anni 90’, il 25% dei parlamentari guadagna un reddito extraparlamentare annuale che e’ superiore al reddito della maggioranza dei dirigenti.
Interessante anche l’effetto deteriore sulla partecipazione derivante dal possibilità di cumulare reddito privato professionale e indennità di carica. Ogni singolo anno trascorso in Parlamento incrementa i redditi addizionali all’indennità parlamentare del 4,2 per cento nel primo anno in Parlamento. Questo spiega anche lo scarso impegno degli eletti in aula: i calcoli dicono che in media ogni 10mila euro di extra reddito riduce la partecipazione in Parlamento dell’1%.
IL BERLUSCONISMO: L’INIZIO DELLA FINE
Ultima riflessione riguarda le date del declino di tutti gli indici che si possono considerare “positivi” nella definizione della classe politica e la crescita costante di quelli che si possono definire “negativi”. L’andamento delle curve relative a età, istruzione, assenteismo e indennità presenta uno snodo netto tra il 92 e il 94. Da allora ogni linea segue una tendenza diversa e contraria rispetto al passato, peggiorativa rispetto ai livelli di qualità della Prima Repubblica. “Allora – ragiona Merlo – sulle ceneri di Tangentopoli nasceva il partito di Silvio Berlusconi che ha reclutato una classe dirigente diversa dal passato proponendo al posto della rappresentanza politica del Paese il modello privatistico dello stato-azienda. Da allora le leggi ad personam si sono moltiplicate, i mali atavici dell’assenteismo e degli alti costi della politica si sono acuiti e il Paese è arretrato economicamente. L’insieme di queste spinte divergenti ha contribuito ad alimentare la mediocracy, la forma di governo che non premia i migliori e non fa cadere i peggiori”.
Voli blu è spreco record
Io volo blu ma paghi tu (l'Espresso - 7 luglio 2011)
Voli blu, è spreco record
di Gianluca Di Feo – 30 giugno 2011
A parte i nuovi giocattoli del Cavaliere, ci sono più di trenta aerei a disposizione del governo, sempre a spese nostre. Hanno fatto 8.500 ore di volo nel 2010, il massimo di sempre: per soddisfare ogni capriccio di ministri, viceministri e sottosegretari. Ecco tutti i numeri della vergogna. Il regalo potrebbe venire consegnato a fine settembre, giusto in tempo per festeggiare il suo settantacinquesimo compleanno: un dono coi fiocchi, degno dell'anniversario speciale. Anche perché a pagarlo saranno tutti gli italiani, che hanno contribuito ad acquistare il nuovo elicottero presidenziale di Silvio Berlusconi. Alla faccia dei tagli e del rigore, sulla pista di Ciampino atterrerà uno sfavillante Agusta-Westland Aw-139 con interni in pelle e optional hi-tech: la nuova ammiraglia del trasporto di Stato. Un gioiello potente, silenzioso, sicuro e lussuoso che offre a cinque passeggeri il meglio del meglio, dall'aria condizionata agli schermi al plasma. E il Papi One non resterà solo: confermando la passione del Cavaliere per le gemelle emersa dall'inchiesta sul bunga bunga, nel giro di qualche mese sarà raggiunto da una seconda fuoriserie dei cieli. Un altro Aw-139, con lo stesso sfarzo e qualche poltrona in più per addolcire le trasferte di governo con lo staff di consiglieri (e spesso segretarie molto particolari). La coppia di macchine dovrebbe costare intorno ai 50 milioni di euro, ma il contratto è stato abilmente nascosto nei bilanci, come accade per tutta la contabilità dei jet di Stato diventati il privilegio supremo della politica.
Potersi imbarcare sugli aerei blu è lo status symbol numero uno, con la corsa di ministri e sottosegretari a prenotare decolli illimitati. Nel 2010 lo stormo che si occupa delle trasferte governative ha bruciato quasi 8.500 ore di volo, segnando un nuovo record dello spreco di denaro pubblico: è come se ci fosse stato un velivolo sempre in cielo, notte e giorno, senza sosta per un intero anno. Un viaggio ininterrotto lungo 365 giorni: quanto basta per andare su Marte e tornare indietro. Un paragone ridicolo? Anche i nostri politici spesso ordinano missioni assurde: «Per due volte un membro dell'esecutivo ha preteso un jet che lo portasse da Milano Linate a Milano Malpensa. Il Falcon è partito da Roma Ciampino, è atterrato a Linate per caricare l'autorità e ha compiuto la trasferta di cinque minuti per poi rientrare nella capitale. Una spesa senza senso solo per assecondare i capricci di un ministro», racconta a "l'Espresso" un alto ufficiale dell'Aeronautica.
La manovra che riesce meglio ai ministri è proprio quella che ogni weekend li fa atterrare accanto a casa. Mentre il costo di questi sfizi d'alta quota resta un mistero, protetto dai burocrati di casta. Il valore commerciale delle ore di volo - ossia quello che si pagherebbe per noleggiare gli stessi aerei da una compagnia privata - è di oltre 100 milioni di euro l'anno. Ma sull'amministrazione pubblica pesano soltanto carburante, ricambi e manutenzione per un totale che dovrebbe comunque superare i 60 milioni.
Non solo: i politici viaggiano due volte a sbafo. Palazzo Chigi si dimentica di rimborsare le somme spese dall'Aeronautica. E non si tratta di cifre secondarie: lo studio della Fondazione Icsa, il più importante think tank italiano di questioni strategiche, mostra un debito di ben 250 milioni di euro. L'analisi presentata dal generale Leonardo Tricarico, ex comandante dell'aviazione ed ex consigliere di Berlusconi, evidenzia come in un decennio la presidenza del Consiglio si sia lasciata alle spalle una montagna di quattrini anticipati dai militari per le trasferte ufficiali e le gite dell'esecutivo. Solo lo scorso anno l'Aeronautica si è accollata 25 milioni di euro per i viaggi a scrocco; nel 2009 sono stati 23 milioni e nel 2008 altri 20, quasi tutti sborsati dopo il ritorno di Silvio al potere. Il primato risale al vecchio esecutivo del Cavaliere, con i 30 milioni regalati nel 2004 per i decolli frenetici della campagna elettorale delle Europee che videro il trionfo del centrodestra.
Ma queste somme rappresentano soltanto una parte dello sperpero alimentato dagli habitué dei voli blu: sono l'extra dell'extra. Ogni dicembre la Difesa preventiva uno stanziamento molto frugale per l'anno successivo, assecondando i buoni propositi di Giulio Tremonti: per il 2011 sono stati ipotizzati 4 milioni. Una cifra beffarda, che basta appena per qualche mese di combustibile. Così a giugno si rifanno i calcoli e si cerca di ripianare le fatture per lo sfrecciare dei politici alati. Che sono più veloci dei fondi e si lasciano una scia di euro bruciati oltre tutti i limiti. Nel 2009 ci sono state 1.963 "missioni di Stato": più di cinque al giorno, includendo sabati e domeniche. Un attivismo impressionante, proseguito nel primo trimestre 2010 con altre 486 spedizioni. Impossibile decifrare quale sia stata la spesa globale: si ritiene che nell'ultimo decennio abbia superato di gran lunga gli 800 milioni.
Oltre ai dieci jet extralusso del 31 stormo (3 Airbus e 7 Falcon), vengono destinati ai voli dei sottosegretari e dei ministri quasi venti Piaggio P180, le "Ferrari dei cieli" con motori a turboelica. Invece quello degli elicotteri invece era un tasto dolente per i baroni volanti. Il vecchio Sikorsky presidenziale, con sobrie poltrone di pelle e interni di radica, a Silvio non piaceva proprio: troppo rumoroso, senza comfort, niente tv né musica. E' in servizio da oltre 25 anni e per quanto il presidente Obama usi lo stesso modello, il nostro premier non c'è mai voluto salire: va bene per il papa, come navetta tra il Vaticano e Castel Gandolfo, non per il Papi. E forse quell'icona della Madonna nel salotto di bordo che veglia sui passeggeri - voluta da Karol Wojtyla - non si addice all'allegra comitiva femminile che spesso accompagna il Cavaliere. Così Berlusconi è ricorso al "ghe pensi mi": ha continuato a volare con il suo elicottero privato, un Agusta Aw139 della flotta Fininvest, spazioso, comodoso e con gadget hi-tech. Il mezzo è del Biscione, ma dal 2008 le spese le ha pagate la presidenza del Consiglio, ossia i cittadini: ogni spostamento è diventato volo di Stato a carico nostro.
La questione però è stata affrontata e risolta, in gran segreto. Il governo ha comprato due Aw139 ancora più moderni, più lussuosi e più ricchi di optional di quello del Biscione. Tutto in silenzio, forse per non suscitare le ire di Tremonti. Un anno fa, il ministro Elio Vito, rispondendo ad alcune interrogazioni parlamentari presentate dopo un articolo de "l'Espresso" sull'aumento del budget per i voli blu, disse sibillinamente: «Di quei fondi, 31,3 milioni sono destinati a investimenti». Che significa? Mistero. Il bilancio della Difesa 2011 ha poi magnificato il taglio alle spese per le trasvolate ministeriali: «Ben 33 milioni in meno, con una riduzione del 90 per cento». Miracolo: la casta ha deciso di rimanere con i piedi per terra? Assolutamente no. La postilla mimetizzata in un allegato spiega l'arcano: «C'è un decremento a seguito del completamento del programma di acquisizione di due elicotteri per il trasporto di Stato». Ecco la risposta: nessuna economia, ma un investimento in benessere del premier. Il prezzo finale dovrebbe essere vicino ai 50 milioni, perché gli elicotteri avranno anche dotazioni speciali di sicurezza. Il primo andrà al premier, il secondo servirà anche per Benedetto XVI: saranno il Papi One e il Papa One. Ma a guadagnarci sarà soprattutto Silvio, che potrà vendere l'elicottero Fininvest: quando nel 2008 è tornato a Palazzo Chigi ha ceduto il suo Airbus personale, visto che quello presidenziale era più bello e totalmente gratuito. Tanto a pagare ci pensano i cittadini.
IL GENERALE CAMPORINI: OBBEDIAMO, MA CHE SPRECO
«In una vecchia legislatura i presidenti delle Camere erano entrambi milanesi, ma ogni lunedì mattina l'Aeronautica doveva mandare due aerei per portarli a Roma: uno decollava da Linate alle 7, l'altro alle 7.30. I due non gradivano viaggiare insieme e noi non potevamo davvero imporgli di farlo. Certo, così di sicuro non si economizzavano le risorse». Il generale Vincenzo Camporini ormai non si scandalizza più: nella sua vita d'ufficiale - prima pilota, poi comandante dell'Aeronautica e infine di tutte le forze armate - ha visto decollare migliaia di voli di Stato. «Mai però missioni che fossero formalmente illegittime. Quando riceviamo un ordine dalla presidenza del Consiglio noi militari dobbiamo solo obbedire. E anche l'imbarco di familiari o di altre persone, nel caso di decolli autorizzati, alla fine non rappresenta un aumento di costo. Il problema è soprattutto di opportunità: in un momento di crisi e di tagli ci sono molti voli che lasciano perplessi».
Il generale adesso ha presentato il dossier della Fondazione Icsa in cui si evidenziano i 250 milioni di euro spesi per queste missioni nell'ultimo decennio e mai pagati da Palazzo Chigi. «E' una situazione molto critica. Ci sono anni in cui all'Aeronautica viene rimborsato solo un quinto dei fondi usati per le trasferte del governo, ma quando viene chiesto di far partire un jet non possiamo dire di no e bisogna trovare le risorse. Così per fare volare i Falcon dei ministri dobbiamo tenere fermi gli aerei che poi vengono chiamati a svolgere missioni operative per la difesa dei confini o in Afghanistan o come in questi mesi in Libia: siamo costretti a rinunciare all'addestramento dei piloti o alla manutenzione dei velivoli». Camporini spiega che il carburante è il costo minore: gli aerei devono rispettare le revisioni programmate e hanno sempre un costo. «Ricordo che dopo le polemiche per la trasferta al Gran Premio di Monza di Rutelli e Mastella, i politici non volevano usare più l'Airbus presidenziale: era troppo vistoso e temevano scandali. Allora tutti chiedevano il più piccolo Falcon che non dava nell'occhio. Ma anche se restavano negli hangar, quegli Airbus erano un costo». Per l'alto ufficiale però questo è solo un capitolo di una situazione della Difesa che attende una riforma, razionalizzando tutto. «E rinunciando alle spese inopportune, soprattutto quando si può usare un volo Alitalia invece che il jet di Stato».
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/voli-blu-e-spreco-record/2154813
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/voli-blu-e-spreco-record/2154813//1
Voli blu, è spreco record
di Gianluca Di Feo – 30 giugno 2011
A parte i nuovi giocattoli del Cavaliere, ci sono più di trenta aerei a disposizione del governo, sempre a spese nostre. Hanno fatto 8.500 ore di volo nel 2010, il massimo di sempre: per soddisfare ogni capriccio di ministri, viceministri e sottosegretari. Ecco tutti i numeri della vergogna. Il regalo potrebbe venire consegnato a fine settembre, giusto in tempo per festeggiare il suo settantacinquesimo compleanno: un dono coi fiocchi, degno dell'anniversario speciale. Anche perché a pagarlo saranno tutti gli italiani, che hanno contribuito ad acquistare il nuovo elicottero presidenziale di Silvio Berlusconi. Alla faccia dei tagli e del rigore, sulla pista di Ciampino atterrerà uno sfavillante Agusta-Westland Aw-139 con interni in pelle e optional hi-tech: la nuova ammiraglia del trasporto di Stato. Un gioiello potente, silenzioso, sicuro e lussuoso che offre a cinque passeggeri il meglio del meglio, dall'aria condizionata agli schermi al plasma. E il Papi One non resterà solo: confermando la passione del Cavaliere per le gemelle emersa dall'inchiesta sul bunga bunga, nel giro di qualche mese sarà raggiunto da una seconda fuoriserie dei cieli. Un altro Aw-139, con lo stesso sfarzo e qualche poltrona in più per addolcire le trasferte di governo con lo staff di consiglieri (e spesso segretarie molto particolari). La coppia di macchine dovrebbe costare intorno ai 50 milioni di euro, ma il contratto è stato abilmente nascosto nei bilanci, come accade per tutta la contabilità dei jet di Stato diventati il privilegio supremo della politica.
Potersi imbarcare sugli aerei blu è lo status symbol numero uno, con la corsa di ministri e sottosegretari a prenotare decolli illimitati. Nel 2010 lo stormo che si occupa delle trasferte governative ha bruciato quasi 8.500 ore di volo, segnando un nuovo record dello spreco di denaro pubblico: è come se ci fosse stato un velivolo sempre in cielo, notte e giorno, senza sosta per un intero anno. Un viaggio ininterrotto lungo 365 giorni: quanto basta per andare su Marte e tornare indietro. Un paragone ridicolo? Anche i nostri politici spesso ordinano missioni assurde: «Per due volte un membro dell'esecutivo ha preteso un jet che lo portasse da Milano Linate a Milano Malpensa. Il Falcon è partito da Roma Ciampino, è atterrato a Linate per caricare l'autorità e ha compiuto la trasferta di cinque minuti per poi rientrare nella capitale. Una spesa senza senso solo per assecondare i capricci di un ministro», racconta a "l'Espresso" un alto ufficiale dell'Aeronautica.
La manovra che riesce meglio ai ministri è proprio quella che ogni weekend li fa atterrare accanto a casa. Mentre il costo di questi sfizi d'alta quota resta un mistero, protetto dai burocrati di casta. Il valore commerciale delle ore di volo - ossia quello che si pagherebbe per noleggiare gli stessi aerei da una compagnia privata - è di oltre 100 milioni di euro l'anno. Ma sull'amministrazione pubblica pesano soltanto carburante, ricambi e manutenzione per un totale che dovrebbe comunque superare i 60 milioni.
Non solo: i politici viaggiano due volte a sbafo. Palazzo Chigi si dimentica di rimborsare le somme spese dall'Aeronautica. E non si tratta di cifre secondarie: lo studio della Fondazione Icsa, il più importante think tank italiano di questioni strategiche, mostra un debito di ben 250 milioni di euro. L'analisi presentata dal generale Leonardo Tricarico, ex comandante dell'aviazione ed ex consigliere di Berlusconi, evidenzia come in un decennio la presidenza del Consiglio si sia lasciata alle spalle una montagna di quattrini anticipati dai militari per le trasferte ufficiali e le gite dell'esecutivo. Solo lo scorso anno l'Aeronautica si è accollata 25 milioni di euro per i viaggi a scrocco; nel 2009 sono stati 23 milioni e nel 2008 altri 20, quasi tutti sborsati dopo il ritorno di Silvio al potere. Il primato risale al vecchio esecutivo del Cavaliere, con i 30 milioni regalati nel 2004 per i decolli frenetici della campagna elettorale delle Europee che videro il trionfo del centrodestra.
Ma queste somme rappresentano soltanto una parte dello sperpero alimentato dagli habitué dei voli blu: sono l'extra dell'extra. Ogni dicembre la Difesa preventiva uno stanziamento molto frugale per l'anno successivo, assecondando i buoni propositi di Giulio Tremonti: per il 2011 sono stati ipotizzati 4 milioni. Una cifra beffarda, che basta appena per qualche mese di combustibile. Così a giugno si rifanno i calcoli e si cerca di ripianare le fatture per lo sfrecciare dei politici alati. Che sono più veloci dei fondi e si lasciano una scia di euro bruciati oltre tutti i limiti. Nel 2009 ci sono state 1.963 "missioni di Stato": più di cinque al giorno, includendo sabati e domeniche. Un attivismo impressionante, proseguito nel primo trimestre 2010 con altre 486 spedizioni. Impossibile decifrare quale sia stata la spesa globale: si ritiene che nell'ultimo decennio abbia superato di gran lunga gli 800 milioni.
Oltre ai dieci jet extralusso del 31 stormo (3 Airbus e 7 Falcon), vengono destinati ai voli dei sottosegretari e dei ministri quasi venti Piaggio P180, le "Ferrari dei cieli" con motori a turboelica. Invece quello degli elicotteri invece era un tasto dolente per i baroni volanti. Il vecchio Sikorsky presidenziale, con sobrie poltrone di pelle e interni di radica, a Silvio non piaceva proprio: troppo rumoroso, senza comfort, niente tv né musica. E' in servizio da oltre 25 anni e per quanto il presidente Obama usi lo stesso modello, il nostro premier non c'è mai voluto salire: va bene per il papa, come navetta tra il Vaticano e Castel Gandolfo, non per il Papi. E forse quell'icona della Madonna nel salotto di bordo che veglia sui passeggeri - voluta da Karol Wojtyla - non si addice all'allegra comitiva femminile che spesso accompagna il Cavaliere. Così Berlusconi è ricorso al "ghe pensi mi": ha continuato a volare con il suo elicottero privato, un Agusta Aw139 della flotta Fininvest, spazioso, comodoso e con gadget hi-tech. Il mezzo è del Biscione, ma dal 2008 le spese le ha pagate la presidenza del Consiglio, ossia i cittadini: ogni spostamento è diventato volo di Stato a carico nostro.
La questione però è stata affrontata e risolta, in gran segreto. Il governo ha comprato due Aw139 ancora più moderni, più lussuosi e più ricchi di optional di quello del Biscione. Tutto in silenzio, forse per non suscitare le ire di Tremonti. Un anno fa, il ministro Elio Vito, rispondendo ad alcune interrogazioni parlamentari presentate dopo un articolo de "l'Espresso" sull'aumento del budget per i voli blu, disse sibillinamente: «Di quei fondi, 31,3 milioni sono destinati a investimenti». Che significa? Mistero. Il bilancio della Difesa 2011 ha poi magnificato il taglio alle spese per le trasvolate ministeriali: «Ben 33 milioni in meno, con una riduzione del 90 per cento». Miracolo: la casta ha deciso di rimanere con i piedi per terra? Assolutamente no. La postilla mimetizzata in un allegato spiega l'arcano: «C'è un decremento a seguito del completamento del programma di acquisizione di due elicotteri per il trasporto di Stato». Ecco la risposta: nessuna economia, ma un investimento in benessere del premier. Il prezzo finale dovrebbe essere vicino ai 50 milioni, perché gli elicotteri avranno anche dotazioni speciali di sicurezza. Il primo andrà al premier, il secondo servirà anche per Benedetto XVI: saranno il Papi One e il Papa One. Ma a guadagnarci sarà soprattutto Silvio, che potrà vendere l'elicottero Fininvest: quando nel 2008 è tornato a Palazzo Chigi ha ceduto il suo Airbus personale, visto che quello presidenziale era più bello e totalmente gratuito. Tanto a pagare ci pensano i cittadini.
IL GENERALE CAMPORINI: OBBEDIAMO, MA CHE SPRECO
«In una vecchia legislatura i presidenti delle Camere erano entrambi milanesi, ma ogni lunedì mattina l'Aeronautica doveva mandare due aerei per portarli a Roma: uno decollava da Linate alle 7, l'altro alle 7.30. I due non gradivano viaggiare insieme e noi non potevamo davvero imporgli di farlo. Certo, così di sicuro non si economizzavano le risorse». Il generale Vincenzo Camporini ormai non si scandalizza più: nella sua vita d'ufficiale - prima pilota, poi comandante dell'Aeronautica e infine di tutte le forze armate - ha visto decollare migliaia di voli di Stato. «Mai però missioni che fossero formalmente illegittime. Quando riceviamo un ordine dalla presidenza del Consiglio noi militari dobbiamo solo obbedire. E anche l'imbarco di familiari o di altre persone, nel caso di decolli autorizzati, alla fine non rappresenta un aumento di costo. Il problema è soprattutto di opportunità: in un momento di crisi e di tagli ci sono molti voli che lasciano perplessi».
Il generale adesso ha presentato il dossier della Fondazione Icsa in cui si evidenziano i 250 milioni di euro spesi per queste missioni nell'ultimo decennio e mai pagati da Palazzo Chigi. «E' una situazione molto critica. Ci sono anni in cui all'Aeronautica viene rimborsato solo un quinto dei fondi usati per le trasferte del governo, ma quando viene chiesto di far partire un jet non possiamo dire di no e bisogna trovare le risorse. Così per fare volare i Falcon dei ministri dobbiamo tenere fermi gli aerei che poi vengono chiamati a svolgere missioni operative per la difesa dei confini o in Afghanistan o come in questi mesi in Libia: siamo costretti a rinunciare all'addestramento dei piloti o alla manutenzione dei velivoli». Camporini spiega che il carburante è il costo minore: gli aerei devono rispettare le revisioni programmate e hanno sempre un costo. «Ricordo che dopo le polemiche per la trasferta al Gran Premio di Monza di Rutelli e Mastella, i politici non volevano usare più l'Airbus presidenziale: era troppo vistoso e temevano scandali. Allora tutti chiedevano il più piccolo Falcon che non dava nell'occhio. Ma anche se restavano negli hangar, quegli Airbus erano un costo». Per l'alto ufficiale però questo è solo un capitolo di una situazione della Difesa che attende una riforma, razionalizzando tutto. «E rinunciando alle spese inopportune, soprattutto quando si può usare un volo Alitalia invece che il jet di Stato».
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/voli-blu-e-spreco-record/2154813
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/voli-blu-e-spreco-record/2154813//1
La rivolta degli schiavi che fa tremare la Cina. Tra gli schiavi del Guangdong rivolta nella fabbrica del mondo
La rivolta degli schiavi che fa tremare la Cina. Tra gli schiavi del Guangdong rivolta nella fabbrica del mondo
24 giugno 2011
ZENGCHENG NEL centro della capitale mondiale dell' industria tessile, simbolo del «sistema Cina», c' è un cartello spaccato sull' asfalto. Dice «Servire il Popolo» ed è tra gli slogan storici del partito comunista cinese.
Le rivolte da settimane scuotono la seconda potenza economica del pianeta. Da qualche giorno sembrano represse, ma l' icona spezzata della propaganda post-maoista è ancora qui, non rimossa, sulla strada.
È sorprendente che qualcuno a Zengcheng abbia avuto il coraggio di abbattere pubblicamente il verbo sacro della propaganda. Ancora più strano è però che la polizia e l' esercito del Guangdong, schierati per far cessare con le cattive le sommosse, abbiano dimenticato in mostra cocci tanto imbarazzanti.
Sono la testimonianza delle due Cine che dopo trent' anni si fronteggiano al primo avviso di rallentamento della crescita. La prima è quella ufficiale, in preda all' esaltazione rossa e patriotticamente arruolata per celebrare il 90º anniversario della fondazione del partito-Stato.
La seconda è quella sociale, consumata dalla delusione delle promesse del capitalismo comunista e collettivamente mobilitata per conquistare diritti altrove riconosciuti dalle democrazie.
Il Guangdong è l' epicentro dello scontro e non è un caso se il vento delle rivolte di massa si è alzato dalla cassaforte del miracolo cinese. Il "motore del Sud" negli ultimi cinque anni è cresciuto a una media record del 12,4%. Per i prossimi cinque ha dovuto ridimensionare le stime all' 8%, proiettando l' ombra dell' incertezza su una frenata nazionale al 7%. La regione-fabbrica produce però l' 11% del Pil cinese e un terzo delle esportazioni: per questo il messaggio che il "Guangdong non è felice", bruciante smentita della campagna "Felice Guangdong" lanciata a gennaio dal governatore Wang Yang, agita il potere di Pechino.
La crisi, nell' appiglio estremo della resistenza economica globale, non è del resto scoppiata l' altra settimana, quando decine di distretti industriali sono stati messi a ferro e fuoco.
A Shenzhen il colosso Foxconn da un anno è minato dai suicidi in serie degli operai.I primi scioperi di successo sono scoppiati poco lontano, nelle catene di montaggio delocalizzate della Honda. A Meishan, da lunedì, 4 mila operaie di una fabbrica di borse, che produce per i marchi più esclusivi del pianeta, sono in sciopero contro turni da 12 ore al giorno per 100 euro di paga mensile.
Può dunque apparire anomalo che l' attentissimo governo centrale di Pechino, impegnato nella transizione del potere dal 2012, si sia lasciato sfuggire il controllo della spina dorsale della sua legittimazione. Una settimana di guerriglia urbana, dilagata nello Zhejiang, nell' Hubei e nel Jiangxi, in Cina non si vedeva della rivoluzione di Mao.
L' allarme è però scattato dalla constatazione che non solo il Guangdong non è più felice. Alla colonna meridionale dell' industria si è aggiunta quella delle materie prime, con la grande rivolta del Nord, nella Mongolia Interna delle miniere. E si aggiungono Shanghai ad Est, dove la Borsa non smette di scendere da mesie manca l' energia elettrica per affrontare l' estate, e infine a Ovest anche Chongqing, considerata la nuova frontiera dello sviluppo hi-tech. Qui, stando alla propaganda, le cose vanno a gonfie vele.
Nel Far West defiscalizzato dell' Impero migliaia di capannoni e di grattacieli sono invece deserti, 32 milioni di abitanti vivono intossicati e solo il pugno di ferro di Bo Xilai, principino nascente del partito, frena lo strapotere mafioso delle triadi. Al fallimento dell' "Happy Guangdong", sconvolto dalle nascoste sommosse operaie, corrisponde così il trionfo delle "Lezioni di entusiasmo rosso", esportate da Chongqing per le nuove masse di inarrestabili migranti. Tra i due poli cinesi della produzione e della propaganda non si gioca però solo la sfida tra Wang Yange Bo Xilai, tesi a contendersi l' egemonia nel prossimo Politburo.
Lungo tale rotta, tra le canzoni della bandiera rossa e le sassate delle tute blu, si decide il destino della nazione candidata a guidare il mondo nel secolo contemporaneo. I tremila dirigenti comunisti e gli ottanta milioni di iscritti al partito applaudono al kolossal sulla fondazione del Pcc e si disputano due milioni di copiee duecento titoli sul proprio successo, «regalo sontuoso per il compleanno nazionale». I 280 milioni di migranti interni e i 540 milioni di operai iniziano invece a non accettare più «lo schiavismo di Stato» e a lottare per conquistare «una vita con meno armonia e più dignità».
Solo ora si comincia così a intuire l' inquietudine di Pechino davanti alla minaccia di una Rivoluzione dei Gelsomini, messa in scena a fine gennaio. Il Guangdong, Chongqing, Shanghai e la Mongolia Interna, i quattro poli dell' ascesa cinese, sono sconvolti da crisi locali, ma compongono il quadro di una medesima emergenza nazionale: il passaggio della Cina da un sistema economico fondato sulle esportazioni ad uno basato sul consumo interno e la sua mutazione sociale da universo agricolo a galassia di megalopoli. Zengcheng è un concentrato esplosivo anche di questo azzardo. Nell' ultimo anno, dopo l' aumento degli stipendi medi a 187 euro al mese, il 34% delle aziende ha chiuso e su 818mila residenti, gli immigrati hanno sfondato la soglia di 502mila.
Se l' Occidente avesse proseguito al galoppo, il prodigio dell' Oriente avrebbe potuto riprodursi. Il meccanismo invece s' è inceppato.
A Ovest sono calati gli ordini e saliti i debiti, ad Est si sfoltiscono le fabbriche ed esplode l' inflazione. Affinché il disagio economico muti in dissenso politico e i molti tumulti in una rivoluzione, mancano le forze capaci di sintetizzare un' opposizione. In tutto il Paese appare però evidente la nascita di un blocco sociale accomunato da un' ostilità al potere sconosciuta da decenni. Operai schiavizzati, contadini espropriati, neolaureati disoccupati, colletti bianchi indebitati, migranti senza diritti, anziani senza welfare, dissidenti incarcerati, gruppi etnici colonizzati e aspiranti candidati indipendenti perseguitati, formano un' inedita massa a-ideologica decisa a non festeggiare il prossimo genetliaco della nomenclatura rossa.
La Cina scala posizioni all' estero, ma si scopre corrosa da sotterranee debolezze interne: salari inaccettabili, inflazione fuori controllo, prezzi alimentari alle stelle, insufficienza energetica, disoccupazione in crescita, esplosione del divario tra ricchi e poveri, funzionari corrotti, polizia incline agli abusi, costo degli immobili insostenibile, servizi sociali inesistenti.
I nipoti di Mao Zedong si svegliano così avversari dei figli di Deng Xiaoping e una classe dirigente invecchiata si rivela idonea a negare libertà, ma inadeguata a convertire la violenza in salute della crescita. Il partito prende atto che novant' anni, senza riforme strutturali, più che il traguardo di una longevità politica sono il capolinea di un autoritarismo. Giorni fa, mentrei leader di Pechino rivolgevano enigmatici appelli a «migliorare la gestione sociale», un documento della Banca centrale del Popolo ha rivelato che nell' ultimo decennio 18mila funzionari sono scappati all' estero con 90 miliardi di euro e che le proteste di massa sono passate da 9 a 180mila.
L' invincibile partito si autocelebra per succedere a se stesso, compra debiti e ideali stranieri, finge di liberare Ai Weiwei e lascia in cella centinaia di intellettuali indipendenti.
L' infinita e silenziosa Cina è al contrario scossa come mai dopo il 1949e il 1989.A Guangzhou, per individuare gli insorti, le autorità hanno dovuto offrire ai delatori 500 euro e il permesso di residenza. Non era mai successo: un piccolo tesoro in cambio di un grande colpevole. Non è solo che il Guangdongè tutt' altro che "happy": è che Pechino, risolvendo Mao in un ritratto, scopre di non essere più nel cuore dei cinesi. E che a Zengcheng il cartello "Servire il Popolo" può rimanere rotto, davanti ad auto e negozi bruciati. - GIAMPAOLO VISETTI
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/06/24/la-rivolta-degli-schiavi-che-fa-tremare.html
24 giugno 2011
ZENGCHENG NEL centro della capitale mondiale dell' industria tessile, simbolo del «sistema Cina», c' è un cartello spaccato sull' asfalto. Dice «Servire il Popolo» ed è tra gli slogan storici del partito comunista cinese.
Le rivolte da settimane scuotono la seconda potenza economica del pianeta. Da qualche giorno sembrano represse, ma l' icona spezzata della propaganda post-maoista è ancora qui, non rimossa, sulla strada.
È sorprendente che qualcuno a Zengcheng abbia avuto il coraggio di abbattere pubblicamente il verbo sacro della propaganda. Ancora più strano è però che la polizia e l' esercito del Guangdong, schierati per far cessare con le cattive le sommosse, abbiano dimenticato in mostra cocci tanto imbarazzanti.
Sono la testimonianza delle due Cine che dopo trent' anni si fronteggiano al primo avviso di rallentamento della crescita. La prima è quella ufficiale, in preda all' esaltazione rossa e patriotticamente arruolata per celebrare il 90º anniversario della fondazione del partito-Stato.
La seconda è quella sociale, consumata dalla delusione delle promesse del capitalismo comunista e collettivamente mobilitata per conquistare diritti altrove riconosciuti dalle democrazie.
Il Guangdong è l' epicentro dello scontro e non è un caso se il vento delle rivolte di massa si è alzato dalla cassaforte del miracolo cinese. Il "motore del Sud" negli ultimi cinque anni è cresciuto a una media record del 12,4%. Per i prossimi cinque ha dovuto ridimensionare le stime all' 8%, proiettando l' ombra dell' incertezza su una frenata nazionale al 7%. La regione-fabbrica produce però l' 11% del Pil cinese e un terzo delle esportazioni: per questo il messaggio che il "Guangdong non è felice", bruciante smentita della campagna "Felice Guangdong" lanciata a gennaio dal governatore Wang Yang, agita il potere di Pechino.
La crisi, nell' appiglio estremo della resistenza economica globale, non è del resto scoppiata l' altra settimana, quando decine di distretti industriali sono stati messi a ferro e fuoco.
A Shenzhen il colosso Foxconn da un anno è minato dai suicidi in serie degli operai.I primi scioperi di successo sono scoppiati poco lontano, nelle catene di montaggio delocalizzate della Honda. A Meishan, da lunedì, 4 mila operaie di una fabbrica di borse, che produce per i marchi più esclusivi del pianeta, sono in sciopero contro turni da 12 ore al giorno per 100 euro di paga mensile.
Può dunque apparire anomalo che l' attentissimo governo centrale di Pechino, impegnato nella transizione del potere dal 2012, si sia lasciato sfuggire il controllo della spina dorsale della sua legittimazione. Una settimana di guerriglia urbana, dilagata nello Zhejiang, nell' Hubei e nel Jiangxi, in Cina non si vedeva della rivoluzione di Mao.
L' allarme è però scattato dalla constatazione che non solo il Guangdong non è più felice. Alla colonna meridionale dell' industria si è aggiunta quella delle materie prime, con la grande rivolta del Nord, nella Mongolia Interna delle miniere. E si aggiungono Shanghai ad Est, dove la Borsa non smette di scendere da mesie manca l' energia elettrica per affrontare l' estate, e infine a Ovest anche Chongqing, considerata la nuova frontiera dello sviluppo hi-tech. Qui, stando alla propaganda, le cose vanno a gonfie vele.
Nel Far West defiscalizzato dell' Impero migliaia di capannoni e di grattacieli sono invece deserti, 32 milioni di abitanti vivono intossicati e solo il pugno di ferro di Bo Xilai, principino nascente del partito, frena lo strapotere mafioso delle triadi. Al fallimento dell' "Happy Guangdong", sconvolto dalle nascoste sommosse operaie, corrisponde così il trionfo delle "Lezioni di entusiasmo rosso", esportate da Chongqing per le nuove masse di inarrestabili migranti. Tra i due poli cinesi della produzione e della propaganda non si gioca però solo la sfida tra Wang Yange Bo Xilai, tesi a contendersi l' egemonia nel prossimo Politburo.
Lungo tale rotta, tra le canzoni della bandiera rossa e le sassate delle tute blu, si decide il destino della nazione candidata a guidare il mondo nel secolo contemporaneo. I tremila dirigenti comunisti e gli ottanta milioni di iscritti al partito applaudono al kolossal sulla fondazione del Pcc e si disputano due milioni di copiee duecento titoli sul proprio successo, «regalo sontuoso per il compleanno nazionale». I 280 milioni di migranti interni e i 540 milioni di operai iniziano invece a non accettare più «lo schiavismo di Stato» e a lottare per conquistare «una vita con meno armonia e più dignità».
Solo ora si comincia così a intuire l' inquietudine di Pechino davanti alla minaccia di una Rivoluzione dei Gelsomini, messa in scena a fine gennaio. Il Guangdong, Chongqing, Shanghai e la Mongolia Interna, i quattro poli dell' ascesa cinese, sono sconvolti da crisi locali, ma compongono il quadro di una medesima emergenza nazionale: il passaggio della Cina da un sistema economico fondato sulle esportazioni ad uno basato sul consumo interno e la sua mutazione sociale da universo agricolo a galassia di megalopoli. Zengcheng è un concentrato esplosivo anche di questo azzardo. Nell' ultimo anno, dopo l' aumento degli stipendi medi a 187 euro al mese, il 34% delle aziende ha chiuso e su 818mila residenti, gli immigrati hanno sfondato la soglia di 502mila.
Se l' Occidente avesse proseguito al galoppo, il prodigio dell' Oriente avrebbe potuto riprodursi. Il meccanismo invece s' è inceppato.
A Ovest sono calati gli ordini e saliti i debiti, ad Est si sfoltiscono le fabbriche ed esplode l' inflazione. Affinché il disagio economico muti in dissenso politico e i molti tumulti in una rivoluzione, mancano le forze capaci di sintetizzare un' opposizione. In tutto il Paese appare però evidente la nascita di un blocco sociale accomunato da un' ostilità al potere sconosciuta da decenni. Operai schiavizzati, contadini espropriati, neolaureati disoccupati, colletti bianchi indebitati, migranti senza diritti, anziani senza welfare, dissidenti incarcerati, gruppi etnici colonizzati e aspiranti candidati indipendenti perseguitati, formano un' inedita massa a-ideologica decisa a non festeggiare il prossimo genetliaco della nomenclatura rossa.
La Cina scala posizioni all' estero, ma si scopre corrosa da sotterranee debolezze interne: salari inaccettabili, inflazione fuori controllo, prezzi alimentari alle stelle, insufficienza energetica, disoccupazione in crescita, esplosione del divario tra ricchi e poveri, funzionari corrotti, polizia incline agli abusi, costo degli immobili insostenibile, servizi sociali inesistenti.
I nipoti di Mao Zedong si svegliano così avversari dei figli di Deng Xiaoping e una classe dirigente invecchiata si rivela idonea a negare libertà, ma inadeguata a convertire la violenza in salute della crescita. Il partito prende atto che novant' anni, senza riforme strutturali, più che il traguardo di una longevità politica sono il capolinea di un autoritarismo. Giorni fa, mentrei leader di Pechino rivolgevano enigmatici appelli a «migliorare la gestione sociale», un documento della Banca centrale del Popolo ha rivelato che nell' ultimo decennio 18mila funzionari sono scappati all' estero con 90 miliardi di euro e che le proteste di massa sono passate da 9 a 180mila.
L' invincibile partito si autocelebra per succedere a se stesso, compra debiti e ideali stranieri, finge di liberare Ai Weiwei e lascia in cella centinaia di intellettuali indipendenti.
L' infinita e silenziosa Cina è al contrario scossa come mai dopo il 1949e il 1989.A Guangzhou, per individuare gli insorti, le autorità hanno dovuto offrire ai delatori 500 euro e il permesso di residenza. Non era mai successo: un piccolo tesoro in cambio di un grande colpevole. Non è solo che il Guangdongè tutt' altro che "happy": è che Pechino, risolvendo Mao in un ritratto, scopre di non essere più nel cuore dei cinesi. E che a Zengcheng il cartello "Servire il Popolo" può rimanere rotto, davanti ad auto e negozi bruciati. - GIAMPAOLO VISETTI
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Una designer emergente: Laura Calicchia e il suo marchio Edò
Continuando la tradizionale ricerca di nuovi talenti e nuovi marchi italiani, Stilinga si è imbattuta in una personalità piuttosto interessante, si tratta di Laura Calicchia (di Frosinone), un'emergente designer di accessori, che con grande spirito innovativo ha prodotto accessori molto d’avanguardia in termini di ricerca e di materiali e che da un po’ di tempo collabora con altre designers già conosciute da Stilinga e che presto saranno intervistate nuovamente per sapere a che punto della loro ricerca si trovano.
Ma passiamo subito all’intervista alla designer di accessori Laura Calicchia.
Stilinga: Laura Calicchia come e quando è nata la tua passione per la moda?
Laura Calicchia: La mia passione per la moda esiste da sempre, solo che era celata dietro un velo; ora sento che è diventata il mio stile di vita.
Stilinga: come crei una collezione nuova? e come hai creato il tuo marchio?
Laura Calicchia: Creo osservando la natura, le persone, amo anche confrontarmi con il mondo dell'arredamento; molto vicino a me è anche tutto ciò che concerne il gioco. Il mio marchio è nato dal cuore, ho guardato negli occhi mio figlio Edoardo ed ho capito che avrei chiamato il mio marchio"Edò".
Stilinga: sei maggiormente interessata alla moda o allo stile?
Laura Calicchia: Sono interessata ad entrambe e soprattutto sono curiosa, quindi cerco sempre di non rimanere mai indietro anche se è molto complicato.
Stilinga: che cosa pensi della moda di massa e in particolare del fenomeno della fast fashion?
Laura Calicchia: Il fenomeno della fast fashion ormai ha contagiato tutti; i prezzi accessibili hanno portato a vestirsi tutti uguali, non si ha più uno stile personale. Io penso che la fast fashion segue solo i trend dei grandi marchi, rendendo le collezioni ed i prodotti economicamente più accessibili a tutti.
Stilinga: dove trovi l'ispirazione per creare?
Laura Calicchia: L'ispirazione per me viene dal mondo che mi circonda, è l'aria che respiro.
Stilinga:a quale progetto stai lavorando attualmente?
Laura Calicchia: Attualmente collaboro con due amiche designers, Anna Bassano che ha creato il marchio Annienoir e Anna Paola Pascuzzi col marchio Hearth, stiamo dando vita ad un progetto chiamato PurpleAccessories, abbiamo unito i nostri stili e marchi e le nostre forze creative per rivalutare l’artigianato, il fatto a mano, per trasmettere al mondo le nostre visioni sulla moda all’insegna dell’Indie Fashion.
Stilinga: puoi elencare i siti web dove sei presente?
Laura Calicchia: Il mio marchio Edò assieme a quelli di Annienoir e di Hearth sono “contenuti” in Purple Accessoriess. Abbiamo aperto diversi profili on line:
http://purpleaccessories.artesanum.com/
http://en.dawanda.com/shop/PurpleAccessories
http://www.globalfashionbrands.com/PurpleAccessories
http://blomming.com/mm/PurpleAccessories/items
Il mio blog è http://tanaperedi.blogspot.com/
Stilinga: quali sono le zone di Roma che ti ispirano maggiormente e non solo a livello stilistico?
Laura Calicchia: Io vivo a Frosinone, vicino Roma però tutte le mattine sono nella capitale per lavoro.
Roma è una città dove ogni angolo può scatenare l’immaginazione, sembrerà strano ma a me anche la stazione Termini ispira. La diversità di gente e di culture che la affollano, mi affascina enormemente.
Altri luoghi che davvero mi accendono la mente e l’anima sono sicuramente la meravigliosa Piazza di Spagna, storica, maestosa e sempre popolata da tantissime persone di tutto il mondo; il fantastico Rione Monti un vero scrigno, ricco di creatività, di artigianalità, anche la gloriosa Via Veneto e tanto altro ancora, davvero la città di Roma può dare tanto in termini di ispirazione.
Stilinga: a quale fenomeno stilistico del passato, se c'è, nel tuo stile, fai spesso riferimento?
Laura Calicchia: Inizialmente facevo leva sulla mia interiorità, il mio intuito, ultimamente vedo che il mio marchio Edò ha preso un indirizzo direi pop, in quanto recentemente ho creato collane e monili molto variegati nella concezione stessa, colorati, energetici, con riferimenti ai fumetti, ai giochi, all’esistente riadattato e allora ho decisamente capito di avere un’influenza forte dalla "POP ART" .
Stilinga: che obiettivi hai nella tua carriera?
Laura Calicchia: La strada è lunga e per di più in salita ma l’obiettivo è chiaro: far conoscere il marchio Edò e naturalmente PurpleAccessories al mondo. Sono, anzi siamo, io e le altre due designers, molto determinate e lavoriamo sodo per raggiungere il nostro obiettivo.
Stilinga: quali sono i negozi di Roma che ti attirano maggiormente e perché?
Laura Calicchia: Io amo tutto ciò che è vintage, quando sono andata al Rione Monti per la prima volta ho capito che quello è luogo dove ci sono i negozi di Roma che preferisco per la loro posizione, per la loro concezione e per la diversità di prodotti, moltissimi sono fatti a mano da giovani artigiani, sono autoprodotti in loco.
Stilinga: a proposito cosa pensi del fatto a mano? credi che il mercato sia pronto per un ritorno al fatto su misura, su richiesta e a prodotti di alta qualità?
Laura Calicchia: Il fatto a mano è per me un sogno, sono ammaliata da tutti coloro che con le loro mani riescono a creare qualcosa di unico, irripetibile. Adesso, non penso che il mercato sia completamente pronto, sia a livello economico che a livello di educazione, davvero! Le persone andrebbero rieducate al fatto a mano.
Stilinga: che cosa pensi dei prodotti moda industrializzati?
Laura Calicchia: I prodotti industrializzati sono positivi, quando sono ben curati, se la qualità della produzione industriale è l’obiettivo.
Io, comunque, resto per il fatto a mano anche se bisogna considerare il mercato e ripeto se la quantità fosse in buon equilibrio con la qualità, il prodotto industriale sarebbe da considerare positivamente.
Stilinga: che musica ascolti e quali gruppi ti piacciono?
Laura Calicchia: Ascolto tutta la musica, amo il susseguirsi di note che riescono a far parlare l'anima. La musica italiana è ricca di cantanti fantastici: Mina, Bennato, De Andrè, Mia Martini, Otto Ohm, Negramaro, Elisa, i Pooh, Blu Vertigo, D’Alessio, Gigi Fininzio... potrei continuare all'infinito. E dei musicisti internazionali sicuramente i Beatles, i Queen, Beyoncè, Bob Dylan, Camille, Adele.....
Ma passiamo subito all’intervista alla designer di accessori Laura Calicchia.
Stilinga: Laura Calicchia come e quando è nata la tua passione per la moda?
Laura Calicchia: La mia passione per la moda esiste da sempre, solo che era celata dietro un velo; ora sento che è diventata il mio stile di vita.
Stilinga: come crei una collezione nuova? e come hai creato il tuo marchio?
Laura Calicchia: Creo osservando la natura, le persone, amo anche confrontarmi con il mondo dell'arredamento; molto vicino a me è anche tutto ciò che concerne il gioco. Il mio marchio è nato dal cuore, ho guardato negli occhi mio figlio Edoardo ed ho capito che avrei chiamato il mio marchio"Edò".
Stilinga: sei maggiormente interessata alla moda o allo stile?
Laura Calicchia: Sono interessata ad entrambe e soprattutto sono curiosa, quindi cerco sempre di non rimanere mai indietro anche se è molto complicato.
Stilinga: che cosa pensi della moda di massa e in particolare del fenomeno della fast fashion?
Laura Calicchia: Il fenomeno della fast fashion ormai ha contagiato tutti; i prezzi accessibili hanno portato a vestirsi tutti uguali, non si ha più uno stile personale. Io penso che la fast fashion segue solo i trend dei grandi marchi, rendendo le collezioni ed i prodotti economicamente più accessibili a tutti.
Stilinga: dove trovi l'ispirazione per creare?
Laura Calicchia: L'ispirazione per me viene dal mondo che mi circonda, è l'aria che respiro.
Stilinga:a quale progetto stai lavorando attualmente?
Laura Calicchia: Attualmente collaboro con due amiche designers, Anna Bassano che ha creato il marchio Annienoir e Anna Paola Pascuzzi col marchio Hearth, stiamo dando vita ad un progetto chiamato PurpleAccessories, abbiamo unito i nostri stili e marchi e le nostre forze creative per rivalutare l’artigianato, il fatto a mano, per trasmettere al mondo le nostre visioni sulla moda all’insegna dell’Indie Fashion.
Stilinga: puoi elencare i siti web dove sei presente?
Laura Calicchia: Il mio marchio Edò assieme a quelli di Annienoir e di Hearth sono “contenuti” in Purple Accessoriess. Abbiamo aperto diversi profili on line:
http://purpleaccessories.artesanum.com/
http://en.dawanda.com/shop/PurpleAccessories
http://www.globalfashionbrands.com/PurpleAccessories
http://blomming.com/mm/PurpleAccessories/items
Il mio blog è http://tanaperedi.blogspot.com/
Stilinga: quali sono le zone di Roma che ti ispirano maggiormente e non solo a livello stilistico?
Laura Calicchia: Io vivo a Frosinone, vicino Roma però tutte le mattine sono nella capitale per lavoro.
Roma è una città dove ogni angolo può scatenare l’immaginazione, sembrerà strano ma a me anche la stazione Termini ispira. La diversità di gente e di culture che la affollano, mi affascina enormemente.
Altri luoghi che davvero mi accendono la mente e l’anima sono sicuramente la meravigliosa Piazza di Spagna, storica, maestosa e sempre popolata da tantissime persone di tutto il mondo; il fantastico Rione Monti un vero scrigno, ricco di creatività, di artigianalità, anche la gloriosa Via Veneto e tanto altro ancora, davvero la città di Roma può dare tanto in termini di ispirazione.
Stilinga: a quale fenomeno stilistico del passato, se c'è, nel tuo stile, fai spesso riferimento?
Laura Calicchia: Inizialmente facevo leva sulla mia interiorità, il mio intuito, ultimamente vedo che il mio marchio Edò ha preso un indirizzo direi pop, in quanto recentemente ho creato collane e monili molto variegati nella concezione stessa, colorati, energetici, con riferimenti ai fumetti, ai giochi, all’esistente riadattato e allora ho decisamente capito di avere un’influenza forte dalla "POP ART" .
Stilinga: che obiettivi hai nella tua carriera?
Laura Calicchia: La strada è lunga e per di più in salita ma l’obiettivo è chiaro: far conoscere il marchio Edò e naturalmente PurpleAccessories al mondo. Sono, anzi siamo, io e le altre due designers, molto determinate e lavoriamo sodo per raggiungere il nostro obiettivo.
Stilinga: quali sono i negozi di Roma che ti attirano maggiormente e perché?
Laura Calicchia: Io amo tutto ciò che è vintage, quando sono andata al Rione Monti per la prima volta ho capito che quello è luogo dove ci sono i negozi di Roma che preferisco per la loro posizione, per la loro concezione e per la diversità di prodotti, moltissimi sono fatti a mano da giovani artigiani, sono autoprodotti in loco.
Stilinga: a proposito cosa pensi del fatto a mano? credi che il mercato sia pronto per un ritorno al fatto su misura, su richiesta e a prodotti di alta qualità?
Laura Calicchia: Il fatto a mano è per me un sogno, sono ammaliata da tutti coloro che con le loro mani riescono a creare qualcosa di unico, irripetibile. Adesso, non penso che il mercato sia completamente pronto, sia a livello economico che a livello di educazione, davvero! Le persone andrebbero rieducate al fatto a mano.
Stilinga: che cosa pensi dei prodotti moda industrializzati?
Laura Calicchia: I prodotti industrializzati sono positivi, quando sono ben curati, se la qualità della produzione industriale è l’obiettivo.
Io, comunque, resto per il fatto a mano anche se bisogna considerare il mercato e ripeto se la quantità fosse in buon equilibrio con la qualità, il prodotto industriale sarebbe da considerare positivamente.
Stilinga: che musica ascolti e quali gruppi ti piacciono?
Laura Calicchia: Ascolto tutta la musica, amo il susseguirsi di note che riescono a far parlare l'anima. La musica italiana è ricca di cantanti fantastici: Mina, Bennato, De Andrè, Mia Martini, Otto Ohm, Negramaro, Elisa, i Pooh, Blu Vertigo, D’Alessio, Gigi Fininzio... potrei continuare all'infinito. E dei musicisti internazionali sicuramente i Beatles, i Queen, Beyoncè, Bob Dylan, Camille, Adele.....
latest trends in female shoes: summer platforms and a ballerina
Latest shoe trends for summer: platforms and a ballerina.
These shoe models are going to be best sellers in summer.
Roma: la città nonostante tutto continua a sorprendere!
Nonostante la cattiva (pessima) gestione del sindaco Aledanno, capita ancora a volte di ritrovare qualche bel motivo per abitare a Roma: capita di passeggiare per il centro storico, in pieno pomeriggio mentre i turisti cenano o pranzano e ci si imbatte in un vero talento musicale che affascina e porta gli animi dei più molto lontano, suonando uno strano strumento.
L'artista di cui parliamo si chiama Luca Bertelli che suona una specie di chitarra che chitarra non è e che si chiama HANG.
A Stilinga quella specie di campana schiacciata o wok rovesciato ha fatto subito un certo effetto: è geniale ed è incredibile come Luca Bertelli la sappia far vibrare.
Ecco che allora ci si riconcilia col mondo e con la città di Roma tanto vituperata da Aledanno malefico e dai suoi sodali perfidi.
L'artista di cui parliamo si chiama Luca Bertelli che suona una specie di chitarra che chitarra non è e che si chiama HANG.
A Stilinga quella specie di campana schiacciata o wok rovesciato ha fatto subito un certo effetto: è geniale ed è incredibile come Luca Bertelli la sappia far vibrare.
Ecco che allora ci si riconcilia col mondo e con la città di Roma tanto vituperata da Aledanno malefico e dai suoi sodali perfidi.
Mamma mia il Macro!
Stilinga ha approfittato della settimana della cultura e ha visitato a gratis il Macro di Roma e per fortuna che lo visitato senza pagare...
Il fatto è che avendo già perlustrato, come del resto molte altre persone, le vette artistico-spirituali del Maxxi, sempre a Roma, del Guggenheim di Bilbao e di New York, della Tate Modern di Londra, inoltrarsi al Macro con delle aspettative è come andarsi a schiantare contro un muro di cemento.
Si avverte come un'aria di museo di piccola provincia: poche opere degne del panorama internazionale oppure opere minori (anche non esposte al meglio) di grandi artisti.
Se poi volessimo spendere due parole sull'organizzazione, allora si dovrebbe dire che sono quasi più i custodi che i visitatori, sono quasi più le telecamere di sicurezza che le opere, sono quasi più gli spazi sprecati che non quelli azzeccati, sono sicuramente inutili le terrazze nere senza altra prospettiva che bollire durante la bella stagione e sono più i motivi che impediranno a Stilinga di andare nuovamente là, di quelli che ce la porteranno.
Insomma se si vuole fare un giro d'arte contemporanea a Roma, meglio partire dal Macro (se proprio si vuole) e poi approdare al Maxxi.
Fare in contrario è esporsi a terribili delusioni.
Il fatto è che avendo già perlustrato, come del resto molte altre persone, le vette artistico-spirituali del Maxxi, sempre a Roma, del Guggenheim di Bilbao e di New York, della Tate Modern di Londra, inoltrarsi al Macro con delle aspettative è come andarsi a schiantare contro un muro di cemento.
Si avverte come un'aria di museo di piccola provincia: poche opere degne del panorama internazionale oppure opere minori (anche non esposte al meglio) di grandi artisti.
Se poi volessimo spendere due parole sull'organizzazione, allora si dovrebbe dire che sono quasi più i custodi che i visitatori, sono quasi più le telecamere di sicurezza che le opere, sono quasi più gli spazi sprecati che non quelli azzeccati, sono sicuramente inutili le terrazze nere senza altra prospettiva che bollire durante la bella stagione e sono più i motivi che impediranno a Stilinga di andare nuovamente là, di quelli che ce la porteranno.
Insomma se si vuole fare un giro d'arte contemporanea a Roma, meglio partire dal Macro (se proprio si vuole) e poi approdare al Maxxi.
Fare in contrario è esporsi a terribili delusioni.
la bionda e il guinzaglio
La bionda lo ha portato in giro al guinzaglio per almeno tre anni,
il tempo chimico dell'amore, della passione, dell'incantesimo,
e lui buono buono si lasciava comandare, governare,
per non dover pensare,
li vedevo sotto casa:
lei parlava e lui ascoltava,
lei con piglio lo instradava e lui silente si incamminava.
Bello era bello, alto era alto, servo era servo,
la padrona disponeva e lui eseguiva,
mai col suo cervello interveniva!
e a vederli facevano un po' pena:
lei dominante e lui assente, quasi non curante.
Poi improvvisamente, a forza di tirare, dopo tanto subire
il bel gonzo e però dalla faccia di bronzo,
si è ribellato e se ne è andato.
E la bionda ancora oggi qui a soffrire.
Sola come un cane, il potere che aveva
l'ha abbandonata e credo ci pensi
ancora a come si è comportata,
era amore? era possesso?
ora è decesso!
e lei sta un cesso.
Strano non l'aveva intuito:
chi sta zitto mica è disposto a subire sempre,
aspetta, cova, assorbe e poi d'un tratto tracolla
esplode, spezza catene, rompe promesse
e arrivederci al secchio!
Mai più tornerà in dietro, mai più si farà nuovamente schiavizzà!
il tempo chimico dell'amore, della passione, dell'incantesimo,
e lui buono buono si lasciava comandare, governare,
per non dover pensare,
li vedevo sotto casa:
lei parlava e lui ascoltava,
lei con piglio lo instradava e lui silente si incamminava.
Bello era bello, alto era alto, servo era servo,
la padrona disponeva e lui eseguiva,
mai col suo cervello interveniva!
e a vederli facevano un po' pena:
lei dominante e lui assente, quasi non curante.
Poi improvvisamente, a forza di tirare, dopo tanto subire
il bel gonzo e però dalla faccia di bronzo,
si è ribellato e se ne è andato.
E la bionda ancora oggi qui a soffrire.
Sola come un cane, il potere che aveva
l'ha abbandonata e credo ci pensi
ancora a come si è comportata,
era amore? era possesso?
ora è decesso!
e lei sta un cesso.
Strano non l'aveva intuito:
chi sta zitto mica è disposto a subire sempre,
aspetta, cova, assorbe e poi d'un tratto tracolla
esplode, spezza catene, rompe promesse
e arrivederci al secchio!
Mai più tornerà in dietro, mai più si farà nuovamente schiavizzà!
Do you produce shoes in China? just think it over
Stilinga thinks that producing shoes in China not only kills European good shoe production, but also it is a real damage to the final clients, for in China all kind of dangerous glues and dangerous chemical products are used for leathers and fabrics (from the smell one can understand where the shoes are produced).
And it is mostly a trouble for the International companies that have placed orders at Chinese shoe producers for other reasons.
It is true that making shoe samples (maybe the proto step does not exist there) costs around 10 USD per pair, that is nothing compared to the Italian proto (yes! Here in Italy we do still make the proto step and then from that point we arrive to the final very good sample! for our mind is not to produce rubbish!) and samples, but it is also true that once you place orders at Chinese factories the minimum quantity must be at least 2.000 pairs not 200!
And we need to consider that most of the time these cheap shoes, manufactured by Chinese factories can for example, lose their trims, their sparkling beads during the ship delivery, always for example, to Italy, where the company that ordered such items in order of 5.000 pairs, needs to make extra work here in Italy fixing at least 1.000 pairs because the bling bling accessories fell down during the trip from Asia to Europe and so somebody has to solve this problem before delivering the pairs to the final shops, otherwise big cancellations will be made by retailers.
And this European company that ordered the cheap shoes in large quantity must pray God that the shoes will work on the feet too, otherwise the final clients will return them to the shops and it looks like that 10 USD paid for samples and then maybe the 6/7 USD paid for production per pair that become maybe 70 € or 100 € in the shop windows, were not that big business after all!
That's the way it goes: you pay what you ordered and quality is the only missed value in this story, while European shoe companies are closing and we need to say thanks to globalization, to the dictatorship that rules China and to the very smart Western companies owners!
Really well done!
And it is mostly a trouble for the International companies that have placed orders at Chinese shoe producers for other reasons.
It is true that making shoe samples (maybe the proto step does not exist there) costs around 10 USD per pair, that is nothing compared to the Italian proto (yes! Here in Italy we do still make the proto step and then from that point we arrive to the final very good sample! for our mind is not to produce rubbish!) and samples, but it is also true that once you place orders at Chinese factories the minimum quantity must be at least 2.000 pairs not 200!
And we need to consider that most of the time these cheap shoes, manufactured by Chinese factories can for example, lose their trims, their sparkling beads during the ship delivery, always for example, to Italy, where the company that ordered such items in order of 5.000 pairs, needs to make extra work here in Italy fixing at least 1.000 pairs because the bling bling accessories fell down during the trip from Asia to Europe and so somebody has to solve this problem before delivering the pairs to the final shops, otherwise big cancellations will be made by retailers.
And this European company that ordered the cheap shoes in large quantity must pray God that the shoes will work on the feet too, otherwise the final clients will return them to the shops and it looks like that 10 USD paid for samples and then maybe the 6/7 USD paid for production per pair that become maybe 70 € or 100 € in the shop windows, were not that big business after all!
That's the way it goes: you pay what you ordered and quality is the only missed value in this story, while European shoe companies are closing and we need to say thanks to globalization, to the dictatorship that rules China and to the very smart Western companies owners!
Really well done!
Negozio da non perdere a Roma in Via Vittoria, 37: Rigadritto
Stilinga oggi passeggiando per il centro storico di Roma, si è imbattuta piacevolmente nel negozio di regali chiamato Rigadritto (Via Vittoria, 37) musica per la mente, gioia visiva per la creatività: portafogli realizzati con carte colorate che ritraggono le metropolitane di N.Y o Londra, matite, magneti, biglietti di auguri super chic e originali e tantissimo altro.
Davvero una bella idea!
E vedendo il sito Stilinga si è ricordata di aver già visitato la sede milanese a Via Brera, 6.
Davvero una bella idea!
E vedendo il sito Stilinga si è ricordata di aver già visitato la sede milanese a Via Brera, 6.
Piccole storie cinesi "Jeans ponente" di Giampaolo Visetti da Donna di Repubblica
Rubriche
"Piccole storie cinesi: Jeans ponente"
Xitang non è più la Silicon Valley del denim: ormai è un emblema (tossico) dello sfruttamento di massa
Di Giampaolo Visetti
"Trent'anni fa in Cina i jeans erano sconosciuti. I cinesi indossavano le divise grigie fornite dallo Stato e tutti assomigliavano ai rivoluzionari di Mao Zedong. L'indumento simbolo degli Stati Uniti, nel mondo comunista, era proibito: come la musica pop.
Oggi la Cina è la fabbrica del denim. Due terzi dei jeans infilati nelle gambe dell'umanità escono da capannoni cinesi. Non è stato un affare da buttare. Ogni anno se ne acquistano oltre 800 milioni di paia.
La storia di Xitang è l'icona della migrazione più travolgente della contemporaneità, che ha spostato in Oriente tutto ciò che si fa per compiacersi di mantenere in Occidente tutto ciò che si pensa. Xitang, fino agli anni 80, era un villaggio di contadini e di pescatori: duecento persone sulle rive del fiume delle Perle. Huang Lin, ambulante di Hong Kong, decise di portare in questa campagna una macchina per cucire pantaloni.
Oggi è la capitale mondiale dei jeans. Un milione di operai confenziona il 40% dei calzoni venduti sulla terra. Ogni marca ha qui il suo stabilimento principale: le più famose nate negli Stati Uniti, ma pure le aziende italiane che hanno trasformato la divisa del cow boy in quella dell'old manager.
Non è la Silicon Valley della moda. Gli operai sono ammassati in vecchi capannoni a conduzione famigliare. Il padrone siede fuori e invita i passanti ad entrare. Offre sigarette, liquore, microscopiche tazze di un tè violento. Mucchi di donne, sulla strada, circondano montagne di tela: cuciono etichette di qualsiasi brand, eliminano fili con la pistola termica, infilano nei sacchetti 60mila paia di jeans al giorno.
Nei vicoli attorno si fa il resto: bottoni, cerniere, rivetti, filo. Colonne di camion scaricano rotoli di tessuto nei cortili e spariscono gonfi di merce.
Nessuno immagina, scivolando nei suoi denim con l'ambizione di un'originalità, di esibire l'ultimo emblema dello sfruttamento cinese di massa. Xitang è stato ridotto a essere la fucina unica dei jeans per due ragioni: nella regione vivevano milioni di persone disposte a lavorare per venti centesimi al giorno e nessuno si preoccupava per l'impatto delle fabbriche sulla natura. Da dieci anni nell'ex villaggio dei contadini e dei pescatori non cresce più niente di commestibile.
Vista dal satellite, la metropoli globale dei jeans è una nuvola rossa, percorsa da uno scheletro viola. Il vapore indica il carbone usato per alimentare le tessitorie, le ossa segnano gli scarichi tossici della tintura del cotone. Nella contea, in trent'anni, non è stato installato un solo depuratore. Sacrificare gli uomini e la terra per far sentire alla moda il mondo è il piatto servito in tavola. Grazie a Xitang il prezzo del casual è restato basso, è nato il guardaroba usa e getta e l'Occidente è stato conquistato dalle catene dei grandi magazzini arredati da albergo di charme.
Non è una favola a lieto fine.
Da alcune settimane l'epicentro cinese del jeans made in Usa è deserto.
L'era dei prezzi stracciati è finita. Offrire all'ingrosso pantaloni a 80 centesimi e t-shirt a 15 non basta più. Il clienti dell'Ovest non accettano nemmeno di coprire i costi. La crisi del vecchio consumismo demolisce il sistema-Xitang.
Gli operai reclamano salari che permettano di sopravvivere e lo sconvolgimento del clima proietta il valore del cotone alle stelle. Gli stilisti foderano i jeans in poliestere, impongono al gusto finiture lucide, ma i conti non tornano.
I materiali valgono più del prodotto e sui capannoni abbandonati sono affissi cartelli che offrono partite di denim a 5 centesimi il paio. In un anno il 40% delle tessitorie ha chiuso e 300mila lavoratori tornano a vagare per la Cina seguendo la corrente dei cantieri.
Se una famiglia europea o americana cambia un jeans in meno all'anno, il saccheggio del modello cinese implode. Nuovi Xitang risorgono altrove. Vietnam, Cambogia, Indonesia, India e Filippine offrono moda a costo di trasporto. Wei Xiaofeng, proprietaria del colosso che ci ha vestiti negli ultimi vent'anni, siede sola su un cumulo di rotoli di tela azzurra, destinata a trasfomarsi in isolante per i grattacieli di Kuala Lumpur.
L'impero della delocalizzazione si scopre vittima di se stesso e delocalizza. La Cina perde i jeans e Xitang chiude. Il mondo può ignorare il suo profilo riflesso in uno specchio. "
Da Donna di Repubblica
Stilinga crede che non comprare jeans fabbricati dai moderni schiavi/operai asiatici potrebbe non solo riequilibrare il commercio ma dare una bella stoccata ai committenti/brand che pascolano in un mondo senza regole in cui l'unico obiettivo è il profitto, a discapito dei lavoratori asiatici e di quelli europei e a discapito dell'ambiente e dei diritti umani.
E' tempo di cambiare i nosti singoli consumi e di riflettere bene prima di fare shopping.
Tutto questo oggi giorno è cruciale: se io non compro un jeans di un brand multinazionale, non solo faccio un favore all'ambiente (e al mio portafoglio) ma anche al mio paese e contribuisco ad equilibrare questa globalizzazione non solo malata, ma tossica, perversa e dittatoriale.
"Piccole storie cinesi: Jeans ponente"
Xitang non è più la Silicon Valley del denim: ormai è un emblema (tossico) dello sfruttamento di massa
Di Giampaolo Visetti
"Trent'anni fa in Cina i jeans erano sconosciuti. I cinesi indossavano le divise grigie fornite dallo Stato e tutti assomigliavano ai rivoluzionari di Mao Zedong. L'indumento simbolo degli Stati Uniti, nel mondo comunista, era proibito: come la musica pop.
Oggi la Cina è la fabbrica del denim. Due terzi dei jeans infilati nelle gambe dell'umanità escono da capannoni cinesi. Non è stato un affare da buttare. Ogni anno se ne acquistano oltre 800 milioni di paia.
La storia di Xitang è l'icona della migrazione più travolgente della contemporaneità, che ha spostato in Oriente tutto ciò che si fa per compiacersi di mantenere in Occidente tutto ciò che si pensa. Xitang, fino agli anni 80, era un villaggio di contadini e di pescatori: duecento persone sulle rive del fiume delle Perle. Huang Lin, ambulante di Hong Kong, decise di portare in questa campagna una macchina per cucire pantaloni.
Oggi è la capitale mondiale dei jeans. Un milione di operai confenziona il 40% dei calzoni venduti sulla terra. Ogni marca ha qui il suo stabilimento principale: le più famose nate negli Stati Uniti, ma pure le aziende italiane che hanno trasformato la divisa del cow boy in quella dell'old manager.
Non è la Silicon Valley della moda. Gli operai sono ammassati in vecchi capannoni a conduzione famigliare. Il padrone siede fuori e invita i passanti ad entrare. Offre sigarette, liquore, microscopiche tazze di un tè violento. Mucchi di donne, sulla strada, circondano montagne di tela: cuciono etichette di qualsiasi brand, eliminano fili con la pistola termica, infilano nei sacchetti 60mila paia di jeans al giorno.
Nei vicoli attorno si fa il resto: bottoni, cerniere, rivetti, filo. Colonne di camion scaricano rotoli di tessuto nei cortili e spariscono gonfi di merce.
Nessuno immagina, scivolando nei suoi denim con l'ambizione di un'originalità, di esibire l'ultimo emblema dello sfruttamento cinese di massa. Xitang è stato ridotto a essere la fucina unica dei jeans per due ragioni: nella regione vivevano milioni di persone disposte a lavorare per venti centesimi al giorno e nessuno si preoccupava per l'impatto delle fabbriche sulla natura. Da dieci anni nell'ex villaggio dei contadini e dei pescatori non cresce più niente di commestibile.
Vista dal satellite, la metropoli globale dei jeans è una nuvola rossa, percorsa da uno scheletro viola. Il vapore indica il carbone usato per alimentare le tessitorie, le ossa segnano gli scarichi tossici della tintura del cotone. Nella contea, in trent'anni, non è stato installato un solo depuratore. Sacrificare gli uomini e la terra per far sentire alla moda il mondo è il piatto servito in tavola. Grazie a Xitang il prezzo del casual è restato basso, è nato il guardaroba usa e getta e l'Occidente è stato conquistato dalle catene dei grandi magazzini arredati da albergo di charme.
Non è una favola a lieto fine.
Da alcune settimane l'epicentro cinese del jeans made in Usa è deserto.
L'era dei prezzi stracciati è finita. Offrire all'ingrosso pantaloni a 80 centesimi e t-shirt a 15 non basta più. Il clienti dell'Ovest non accettano nemmeno di coprire i costi. La crisi del vecchio consumismo demolisce il sistema-Xitang.
Gli operai reclamano salari che permettano di sopravvivere e lo sconvolgimento del clima proietta il valore del cotone alle stelle. Gli stilisti foderano i jeans in poliestere, impongono al gusto finiture lucide, ma i conti non tornano.
I materiali valgono più del prodotto e sui capannoni abbandonati sono affissi cartelli che offrono partite di denim a 5 centesimi il paio. In un anno il 40% delle tessitorie ha chiuso e 300mila lavoratori tornano a vagare per la Cina seguendo la corrente dei cantieri.
Se una famiglia europea o americana cambia un jeans in meno all'anno, il saccheggio del modello cinese implode. Nuovi Xitang risorgono altrove. Vietnam, Cambogia, Indonesia, India e Filippine offrono moda a costo di trasporto. Wei Xiaofeng, proprietaria del colosso che ci ha vestiti negli ultimi vent'anni, siede sola su un cumulo di rotoli di tela azzurra, destinata a trasfomarsi in isolante per i grattacieli di Kuala Lumpur.
L'impero della delocalizzazione si scopre vittima di se stesso e delocalizza. La Cina perde i jeans e Xitang chiude. Il mondo può ignorare il suo profilo riflesso in uno specchio. "
Da Donna di Repubblica
Stilinga crede che non comprare jeans fabbricati dai moderni schiavi/operai asiatici potrebbe non solo riequilibrare il commercio ma dare una bella stoccata ai committenti/brand che pascolano in un mondo senza regole in cui l'unico obiettivo è il profitto, a discapito dei lavoratori asiatici e di quelli europei e a discapito dell'ambiente e dei diritti umani.
E' tempo di cambiare i nosti singoli consumi e di riflettere bene prima di fare shopping.
Tutto questo oggi giorno è cruciale: se io non compro un jeans di un brand multinazionale, non solo faccio un favore all'ambiente (e al mio portafoglio) ma anche al mio paese e contribuisco ad equilibrare questa globalizzazione non solo malata, ma tossica, perversa e dittatoriale.
Nuovo trend: Pellicce a Milano
E' il nuovo trend: pelliccia!
Milano si è improvvisamente svegliata con voglia di pelliccia e le donne in giro magari sfoggiano i modelli che hanno acquistato in passato e sono forse in attesa di comprarne di nuovi anche per il prossimo inverno.
Un modello in una vetrina nel quadrilatero della moda.
Milano si è improvvisamente svegliata con voglia di pelliccia e le donne in giro magari sfoggiano i modelli che hanno acquistato in passato e sono forse in attesa di comprarne di nuovi anche per il prossimo inverno.
Un modello in una vetrina nel quadrilatero della moda.
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