L'ascensore sociale funziona al contrario: ora il ceto medio si sente classe operaia

da: http://www.repubblica.it/politica/2015/05/25/news/l_ascensore_sociale_funziona_al_contrario_ora_il_ceto_medio_si_sente_classe_operaia-115182379/

Mappe: la percezione della crisi è ancora molto forte, gli italiani non si fidano più del futuro. Dati rovesciati rispetto al 2008. Oltre la metà della popolazione si colloca tra i ceti popolari

LA SOCIETA' italiana scivola verso il basso. Spinta dalla crisi, che dal 2008 ha investito l'economia globale  -  e nazionale. Non è tanto e solo l'andamento dei redditi e del mercato del lavoro, a rivelarlo. Anche se, nell'ultimo anno, in metà delle famiglie qualcuno ha perduto il lavoro oppure l'ha cercato senza esito (indagine Demos-Coop, aprile 2015). Il problema è che, al di là della "condizione", misurata dalle statistiche socioeconomiche, il declino ha colpito, in modo sensibile, anche la "percezione". Ha, cioè, modificato sensibilmente il modo di guardare la realtà intorno a noi e di rappresentare, anzitutto, noi stessi.

Come si è detto in altre occasioni, l'ascensore sociale, in Italia, si è bloccato. E gran parte degli italiani ha smesso di attendere che riparta. E oggi è, invece, impegnata a frenare, se non a bloccare, la marcia del "discensore sociale". Dal quale sono in molti, la maggioranza, a sentirsi trasportati, meglio: trascinati. Verso il basso. Ma la percezione delle cose e di noi stessi è difficile da modificare. Molto più della realtà stessa. Perché ci vuole tempo prima di "credere" che il lavoro e il reddito abbiano ripreso a crescere. E che, di conseguenza, si possa guardare di nuovo il futuro con minore pessimismo del passato. Malgrado l'Istat e l'Ocse, oltre al nostro governo, segnalino una ripresa della nostra economia, i consumi, continuano, infatti, a stagnare. Perché gli italiani non si fidano. Del futuro. Del "proprio" futuro. E preferiscono risparmiare, piuttosto che consumare. Per prudenza.

TABELLE

Di certo, è finita l'epoca della "cetomedizzazione". Termine ostico, ma sicuramente efficace, con il quale Giuseppe De Rita, negli anni Novanta, ha definito la tendenza della società italiana a ridimensionare il peso delle èlite, ma soprattutto degli strati più bassi. E, dunque, ad allargare i confini della "società di mezzo". Oggi, invece, la società italiana si è "operaizzata". Oltre la metà degli italiani, per la precisione: il 52%, si colloca nei "ceti popolari" o nella "classe operaia". Mentre il 42% si sente "ceto medio". Nel 2006, dunque: poco meno di dieci anni fa, il rapporto fra queste posizioni  -  e visioni  -  risultava rovesciato. Il 53% degli italiani si definiva "ceto medio" e il 40% classe operaia (o "popolare"). Nel 2008, mentre la crisi incombeva, peraltro, le posizioni apparivano più vicine. Ma il ceto medio, in Italia, prevaleva ancora, seppur di poco, sulla classe operaia: 48 a 45%. Questa tendenza ha investito un po' tutte le professioni e tutte le categorie. Non solo quelle che erano già, di fatto, "classe operaia". I lavoratori dipendenti. Ma ha coinvolto anche altre figure, catalogate, tradizionalmente, nella "piccola borghesia" (come ha fatto Paolo Sylos Labini, nel suo classico "Saggio sulle classi sociali", pubblicato nel 1988 e di prossima ri-edizione, sempre per i tipi di Laterza). In particolare, i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori. Ancora nel 2008, il 60% di essi si sentiva "ceto medio", il 34%, poco più di metà, classe operaia. Oggi, però, questa distanza si è sensibilmente ridotta. Perché il 40% dei lavoratori autonomi e in-dipendenti si sente "classe operaia". Il 54% ceto medio.

Anche il ceto medio impiegatizio si è operaizzato. Mentre i liberi professionisti continuano a proporre un'auto-rappresentazione più resistente alla crisi. All'opposto, com'è prevedibile, dei disoccupati. Gli "esclusi" dal mercato del lavoro. Sorprende, semmai, la marcata tendenza "operaia" delle casalinghe sul piano dell'auto-immagine. Più dei due terzi di esse, infatti, oggi si posiziona fra i ceti popolari. Nel 2008, all'inizio della crisi, questa opinione veniva espressa da una quota molto minore: il 50% circa. Le "casalinghe", d'altronde, più delle altre componenti, riflettono le diverse tensioni in atto. Anzitutto, in quanto donne, costituiscono figure deboli e vulnerabili del mercato del lavoro. In secondo luogo, su di loro si scaricano i problemi che investono la famiglia. Perché sono uno specchio e, al tempo stesso, un moltiplicatore delle conseguenze della crisi a livello sociale e micro sociale.

Le "donne", non per caso, si sono notevolmente operaizzate. Oggi il 55% di esse si riconosce e si inserisce nelle "classi popolari". Assai più degli uomini (49%), che si sentono, invece, molto più "cetomedizzati" e "borghesi" delle donne. La "discesa sociale" degli italiani negli ultimi dieci anni, quindi, appare evidente nella percezione sociale. Ancor più che negli indici economici e di reddito. Investe le figure deboli, ma anche quelle che avevano conquistato un certo benessere ed erano convinte di essere al sicuro. Saldamente insediate al "centro" della società. Nei piani  -  e nei ceti  -  medi della gerarchia sociale. Così si spiegano le paure e l'incertezza che inquietano queste componenti della popolazione. (Tendenze ben sottolineate, di recente, dal Rapporto sulla sicurezza 2015, curato da Demos, insieme all'Osservatorio di Pavia e alla Fondazione Unipolis). Così si possono comprendere anche il senso di frustrazione e il ri-sentimento politico dei ceti popolari e operai, che si traducono in una spiccata preferenza per il M5s. Soprattutto fra coloro che vedono il futuro con sfiducia. Anche perché nel passato hanno perduto prestigio e, anzitutto, potere. Sul piano del reddito e dei consumi, oltre che della posizione sociale. Così, in Italia avanza una società "operaia". Che vive con una certa preoccupazione e un certo risentimento questa condizione. Perché aveva creduto alla promessa berlusconiana di un futuro da "imprenditori" per tutti. Attraverso il passaggio "intermedio" del "ceto-medio". Ma oggi, che la crisi ha dissolto il sogno-ceto-medio, per molti è faticoso rassegnarsi al risveglio-operaio.

Claudio Marenzi: sul 'Made In' atteggiamento omertoso dei Paesi del Nord

da: http://it.fashionmag.com/news/Claudio-Marenzi-sul-Made-In-atteggiamento-omertoso-dei-Paesi-del-Nord,488966.html#utm_source=newsletter&utm_medium=email

Ancora niente di fatto sul fronte del "Made in". I rappresentanti dei 28, riunitisi il 28 maggio a Bruxelles per il Consiglio Competitività, non hanno raggiunto un accordo sul dibattuto articolo 7 del Regolamento sulla sicurezza dei prodotti, relativo all'obbligo dell'indicazione d'origine. L'Italia chiede l'applicazione per cinque settori economici: ceramica, calzature, gioielleria, tessile e legno-arredo.La problematica è da tempo al centro di un acceso dibattito tra i paesi favorevoli all'obbligo di indicazione d'origine (Italia, Francia, Grecia, Portogallo, Croazia e Spagna) e i paesi contrari a restrizioni sull’etichettatura (Germania e Regno Unito in primis, sostenuti tra gli altri da Austria, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi e Svezia). A causa dei contrasti sull'articolo 7, gli stati membri non sono ancora riusciti ad approvare il Regolamento, che ad aprile 2014 aveva peraltro già ottenuto la maggioranza assoluta del Parlamento europeo.

Lasciando il Consiglio, il viceministro per lo Sviluppo Economico, Carlo Calenda ha affermato: "non c'è una maggioranza a favore del made in e neanche una maggioranza tale da far passare il pacchetto senza made in: siamo in una situazione di stallo". In questo contesto, la strategia è quella di "continuare a negoziare perchè finchè non si trovi una soluzione che comprenda il made in, il pacchetto non passa". Secondo il viceministro, "è surreale che un'Europa che vuole crescita e occupazione non riesca nemmeno a decidere su una norma di buon senso. Allora si smetta di raccontare che vogliono la crescita: si tutelano solo gli interessi dei grandi importatori".

“E’ sconfortante che dal febbraio 2013 ad oggi, ancora non si sia riusciti a convincere quella parte di Europa guidata dalla Germania sul fatto che il 'Made In' rappresenti una svolta epocale per tutta l’economia europea, non solo per quella italiana. La resistenza dei paesi del nord al 'Made In' è un ostacolo puramente politico che non trova fondamento alcuno, considerati gli impatti positivi che sono emersi dallo studio fatto ad hoc", ha affermato Claudio Marenzi, Presidente di Sistema Moda Italia. "Inoltre - continua Marenzi - tale resistenza non fa che danneggiare l’interesse di tutti i consumatori che hanno diritto di essere informati sull’origine e sugli standard di qualità all’origine dei prodotti. Su questa questione, alcuni Paesi come la Germania stanno avendo un atteggiamento 'omertoso', che di solito imputano ai Paesi mediterranei".

Il Presidente di SMI ha giustamente sottolineato che L’Italia in questo momento non si senta rappresentata affatto da questo modo di fare l’Europa, precisando di essere "pienamente d’accordo con la decisione del Vice Ministro Calenda di scendere a compromessi solo se il regolamento verrà applicato ai cinque settori che sono stati sin dall’inizio indicati come strategici: ceramica, calzature, gioielleria, tessile e legno-arredo. E confidiamo nell’operato del Governo che oggi ha dimostrato determinazione e volontà di portare a casa un risultato decisamente di grande impatto per la nostra economia”, ha concluso Marenzi.

"Bisogna chiudere il dossier sul "Made in" e "l'Italia è pronta ad un compromesso che ho difficoltà a definire ragionevole... ma siamo disponibili ad inserire una clausola che preveda la revisione del regolamento dopo tre anni dall'entrata in vigore" ha chiosato il Viceministro Calenda "ma i settori da includere sono 5: ceramica, non solo da tavola, ma anche da costruzione e i sanitari, calzature, gioielleria, tessile e legno-arredo. Senza un articolo 7 che abbia queste caratteristiche noi non potremo mai approvare il pacchetto regolamentare oggi in discussione".

E Stilinga pensa che questa Europa germanizzata non rappresenta nessuno se non i tedeschi!

Pepe Mujica

L'ex presidente dell'Uruguay José Alberto Mujica Cordano, detto "Pepe", ha ricevuto a Livorno la cittadinanza onoraria da parte del sindaco Nogarin. Noto per il suo stile di vita sobrio e arrivato da Genova in treno, ha ringraziato la città dicendo di sentirsi "un cittadino del mondo". "La crisi che viviamo - ha proseguito - è politica. Marketing, televisione e consumismo non sfamano le nostre menti. Davanti abbiamo una grande lotta che non solo possiamo ma dobbiamo vincere"



"Lavorare in Australia è stato un vero incubo Vi racconto l'inferno e lo sfruttamento in farm"


Tempi di lavoro massacranti, i terribili contractors, le paghe da fame. Dopo aver pubblicato le esperienze di chi, nonostante la fatica, è rimasto soddisfatto dall'esperienza in Australia, ospitiamo la lettera di un italiano che racconta i mesi tremendi passati nel paese oceanico

da: http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/05/19/news/lavorare-in-australia-e-stato-un-vero-incubo-vi-racconto-l-inferno-e-lo-sfruttamento-in-farm-1.213307?ref=fbpr

Nei giorni scorsi l'Espresso ha aperto un dibattito con i lettori sul tema degliimmigrati italiani in Australia. Stefano Vergine, giornalista della nostra testata e con un'esperienza diretta nei campi del luogo, ha difeso il sistema delle vacanze lavoro del paese Oltreoceano in questi giorni al centro di polemiche anche a Sidney. Sul nostro sito abbiamo anche ospitato le storie di chi è rimasto soddisfatto del suo periodo di lavoro nelle fattorie australiane. Di seguito pubblichiamo invece l'esperienza di Marco (nome di fantasia), che in Australia ha dovuto subire ricatti ed ha deciso di raccontarci la sua pessima esperienza.


Sono partito in Australia a metà settembre, con l'idea, come tanti altri miei coetanei, di cercare dall'altra parte del mondo quello che purtroppo qui in Italia è quasi impossibile trovare: il lavoro.

A leggere in rete le esperienze di alcuni pare che si tratti dell'eldorado. Purtroppo non è proprio così.

Il primo impiego l'ho trovato a Gatton (Queensland) in una farm dove ai primi di ottobre la principale coltura era quella dei broccoli. Io vivevo nel caravan Park di Gatton, un agglomerato di vecchie roulotte e camper gestito da tal Steve, pittoresco personaggio in contatto con il mondo dei contractors, ovvero i "caporali" che fanno da tramite fra i proprietari di farm e la potenziale manodopera.

Appena "sbarcato" al caravan Park, mi è stato consegnato un foglio con i  numeri  di telefono di questi contractors, ed io, fattomi consigliare da un ragazzo italiano che stava lì da un po', ho subito mandato un sms a quello considerato più remunerativo in termini di paghe e giornate di lavoro offerte. Sono stato subito risposto con un " OK tomorrow 4.30 pick up thanks". Cioé "Alle 4,30 appuntamento al piazzale del campeggio.

La mattina dopo, puntualmente, vengo caricato e portato in un bus in un enorme campo di broccoli. Abbiamo iniziato subito a lavorare, mi hanno messo in squadra con una serie di migranti delle Fiji, ragazze più avvezze di me al lavoro agricolo. La mia mansione consisteva nel raccogliere i broccoli, tagliarli con dei mini machete e buttarli nel "bin" del trattore che dietro di noi procedeva inesorabilmente a volte pure a rischio di metterci sotto. La produttività non aspetta evidentemente.

Come supervisore avevo un vecchio barbuto che per tutta la mattina non ha fatto altro che urlarmi che ero troppo lento o che stavo lasciandomi dietro i broccoli più grandi.

E' curioso notare come i broccoli siano troppo grandi o troppo piccoli a seconda del "gusto" personale dei supervisors. L'unica regola che mi era stata data per selezionarli era la seguente "devono avere la grandezza di una bella tetta". "The size of a nice titty grasp". Ecco. Vi lascio immaginare.

Ovviamente non avevo mai raccolto broccoli ma a crazy Frankie non poteva fregare di meno.

Dopo più o meno sei ore di lavoro, verso l'una del pomeriggio, veniamo riportati indietro. Dimenticavo; il lavoro nel campo era molto faticoso per via del fango che arrivava fino alle ginocchia. Dettagli, ma che lasciano intuire quanto per un esordiente totale possa essere scioccante il primo impatto con la vita agreste australiana.

Qualche giorno dopo, un mio amico tedesco, mi consigliò di andare con lui la mattina dopo al "pick up" delle 4 davanti al Coles, una catena di supermarket. Ci presentiamo con altri ragazzi al parcheggio (strapieno di backpackers come noi) e subito inizia a serpeggiare il dubbio che chi fosse sprovvisto di "basket and scissors" non potesse lavorare. Non ci siamo fatti scoraggiare e ci siamo messi in macchina (il mio amico ne era provvisto) a seguire il convoglio che portava fino all'enormecampo di cipolle. Arrivati lì ci troviamo davanti ad un campo se possibile ancora più imponente sdi quello di broccoli, pieno di cipolle da tagliare. Io ed altri non siamo stati accettati perchè, come previsto, non eravamo muniti di bacinella e forbicioni, ma per 15 dollari un contractor australo-turco me ne ha venduto un paio "for the next time".

Scoraggiato da queste esperienze dopo pochi giorni mi sono lanciato nell'avventura del Woofing, nella cosiddetta Krishna Farm, nei pressi di Murwillumbah, in New South Wales. Il Woofing sarebbe lavorare per vitto e alloggio. Una sorta di volontariato che insegna (nel caso della Krishna farm)  la filosofia della permacultura e dell'agricoltura biologica.

Ho passato lì due magnifiche settimane, dividendomi fra lavoro nei campi, lezioni di yoga e induismo, pasti al tempio degli Hare Krishna e conoscendo un sacco di persone splendide e piene di storie interessanti. I miei migliori ricordi australiani risiedono tutti lì.

Dopo due settimana tuttavia con altri due ragazzi italiani conosciuti lì abbiamo deciso di rimetterci in viaggio alla ricerca di soldi e lavoro. Col Van di uno di loro, ci siamo spostati verso Stanthorpe, il paese geograficamente più in alto del Queensland e abbiamo preso "casa" (nel mio caso sarebbe meglio dire preso "tenda") in uno dei due caravan park del paese. Anche qui i gestori, due "simpatici" vecchini, offrono lavoro agricolo in quanto in contatto con i farmer. Attenzione, loro i contatti li hanno coi farmer, e non con i contractors, perchè a Stanthorpe esiste un'agenzia del lavoro che cerca di combattere la piaga dei contractors.

I gestori del park ci hanno messo subito sulla strada per questa agenzia e, pieni di entusiasmo, ci siamo presentati lì come gli ennesimi backpackers in cerca di lavoro stagionale. La gentile signora dell'agenzia ci ha subito informato della scarsità di lavoro data dalla carenza di piogge, ma noi eravamo a conoscenza di un farmer mezzo italiano che sapevamo assumere praticamente solo italiani.

Così, dopo pochi giorni di ricerche, abbiamo trovato la tenuta di questo fantomatico farmer, un immigrato italiano di seconda generazione che coltiva la vite, pesche ed albicocche.

Presentatici lì nel cortile di questo baffuto italiano siamo stati accolti gentilmente e, con la promessa di esser richiamati dopo una settimana, ce ne siamo tornati a casa con in tasca la quasi certezza del lavoro.

Puntualmente la settimana dopo siamo stati richiamati dandoci appuntamento per il giorno dopo, alle sei, per iniziare la raccolta delle pesche. In tanti ci avevano messo in guardia dal carattere di quest'uomo ma noi avevamo fame di lavoro e quindi, incoscienti, ci siamo lanciati fra le braccia di uno dei peggiori psicotici mai conosciuti in vita mia.

Infatti, appena iniziato il lavoro, il farmer, mentre ci faceva indossare i sacchi per la raccolta, ci minacciò con un "Ma se licenzio uno di voi, gli altri poi tornano?".

Stupiti abbiamo iniziato a lavorare, nonostante cose tipo "Qui nella mia farm non si usano guanti", "La tua felpa non va bene per lavorare", "Non mi piace come cammini, sembri un morto" eccetera. Io ho un brutto carattere, e dopo pranzo, quando alla segnalazione del suo scagnozzo di un mio errore (avevo buttato le pesche nel carrello sbagliato) il fattore ha iniziato a sbraitare chiamandoci "Fuckin' idiots", non ci ho visto più.

Ho cercato di mettere le cose in chiaro, spiegando al boss chefuckin' idiots non si deve ne può dire a dei collaboratori, e che in primo luogo il rispetto era una cosa essenziale. Ma va beh, erano parole al vento, dato che anche nei successivi due giorni ha continuato ad insultarci e chiamarci in ogni modo. "Analfabeti, asini, cavalli” e via di seguito con lo zoo. Lasciamo perdere.

Al terzo giorno, dopo che per due giorni avevamo complottato coi due amici di mandarlo a quel paese, alle otto e venti ho rischiato di cadere dalla scala con cui raccoglievamo le albicocche - le pesche le avevamo finite il giorno prima - e il fattore, vedendo la scena, non ha mancato di insultarmi per questo motivo. "Io non ti pago per cadere dalle scale, tu devi lavorare, qui è pieno di backpackers come voi, ci metto niente a licenziarvi".

Non ci ho visto più. L'ho inondato di parolacce, gentili inviti ad andarsene a qual paese, e ho lanciato il sacco nel carrello, inforcato gli occhiali e messo le gambe in spalla per tornare a casa. Naturalmente lui ne ha approfittato per licenziare fra le urla pure i miei due amici e così, arrivati al cortile, c'è stato quasi un contatto fisico per fortuna risoltosi con un nulla di fatto.

Il giorno dopo alle sette del mattino, il proprietario del caravan park mi ha svegliato dicendomi che servivano braccia per un campo di peperoni (gestito da un siciliano di seconda generazione) in cui fare weeding (strappare le erbacce banalmente). Entro quaranta minuti in reception per il passaggio al campo. Consumata una velocissima colazione ci siamo messi in viaggio io e uno dei miei due compagni italiani. Arrivati al campo ci siamo trovati per la prima volta davanti a persone "normali". Il lavoro durò fino alle due più o meno del pomeriggio, e oltre al weeding abbiamo aiutato la signora a ripulire e sistemare la farm.

Il giorno dopo identico copione, ma con l'aggiunta di una possibilità, per il giorno dopo, di lavorare al planting dei peperoni. Abbiamo ovviamente accettato ed il giorno dopo eravamo alle sei nel campo puntualissimi e pronti alla pugna.

Il planting dei peperoni avviene in questa maniera; seduti nei sedili posteriori di un trattore particolare (con serbatoio per l'acqua, due sedili ed una sorta di rastrelliera per prendere e togliere le casse di piantine) con una mano si prende un mazzetto di piante dalla rastrelliera, con l'altra si pianta nel terreno usando tutta la forza necessaria per il felice compimento dell'operazione.

Il compito, inizialmente svolto a velocità umane, era piuttosto facile. Ma il serbatoio dell'acqua si svuotava in fretta, lasciandoci poco tempo e costringendo il trattorista a correre per i filari a velocità sempre più veloce. Inutile dire che ci siamo beccati degli insulti per la nostra lentezza e per la mia debolezza di braccia. Tuttavia a fine pomeriggio il lavoro era bello che finito. Il mio giudizio finale su questa farm è piuttosto buono: una brava persona costretta dall'economia ad assumere persone che come me non hanno nessuna esperienza nel "campo" dei campi agricoli.

Tuttavia dopo il terzo giorno di lavoro non siamo stati più chiamati così arriviamo alla mia ultima esperienza lavorativa in terra australiana: la raccolta dei snow peas, banalmente una varietà di piselli.

Solito passaggio in furgone e solito arrivo all'alba nel campo. Il compito era riempire dei secchi coi piselli raccolti dai filari. Compito facilissimo ma estremamente provante per la schiena. E sopratutto poco remunerativo, dato che in due (io ed una ragazza francese) in due ore e quaranta abbiamo fatto un secchio soltanto a testa.

Poco prima delle otto abbiamo lasciato il campo e ci siamo fatti venire a prendere ed io, dentro di me, maturavo quella che poi qualche settimana dopo sarebbe stata la decisione di tornare in Italia.

Riassumo qui le paghe ricevute per le mie prestazioni lavorative:
  1. Raccolta broccoli. Sei ore circa di lavoro: 45 dollari-visti dopo più di una settimana
  2. Farm del primo italiano. Trecento dollari per due giorni di lavoro dalle 6 alle 4 o 5 del pomeriggio e per altre due ore e venti il terzo giorno.
  3. Farm del secondo italiano. Trecentosettanta dollari per tre giorni “sani” di lavoro
  4. Campo di Snow Peas. Venti dollari da dividere in due per il riempimento di un secchio di piselli.
Non voglio dare giudizi. Tuttavia se ho deciso di tornare in patria è perchè alla fine dei conti a mio parere non vale la pena di mollare gli affetti e la propria famiglia per cercare di far “soldi” in un posto in cui hanno più che altro bisogno di braccia per mandare avanti la baracca del comparto agroalimentare. Posso solo dire che le condizioni di lavoro che si possono riscontrare a Rosarno sono, con le dovute differenze, molto simili a quelle in cu isi trovano i “backpackers”

Monumento all'esule ignoto

di MARIO SERENELLINI
da: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/05/10/lincontro-esuli40.html
PARIGI

L'UNICO MONUMENTO davanti al quale mi raccoglierei non è quello al Milite Ignoto ma, se mai esistesse, all'Esule Anonimo». Abderrahmane Sissako, africano diParigi, ama sventagliare questa piccola bandiera, assunta fin da quando, esule a diciott'anni, lasciò il Mali per la Mauritania: «Periodo terribile. Passavo le mie giornate a giocare a ping-pong al Centro culturale sovietico. Per via degli aiuti al Terzo mondo, l'Urss era molto presente in Africa negli anni Settanta. Ed è lì che comincia la mia avventura cinematografica, quando un giorno il direttore mi propose di prendere in prestito dei libri della biblioteca. Cosa c'entrano i film? Ora le spiego. La lettura era rimasta fino allora un'emozione rinviata per me, come una pagina in ombra. Ma in quel periodo ero talmente giù che chiesi un libro su una vita difficile. Scoprii così Dostoevskij. Nella biblioteca del Centro culturale non c'erano solo opere di propaganda, ma tutta la grande letteratura russa: Gogol, Gorky, Pushkin, Andreev, Lermontov, Cechov, Tolstoj… Li ho divorati tutti, tutti difficili e appassionanti». E la Russia, ovvero l'Urss, diventò così la sua nuova patria: «Diciamo il mio nuovo orizzonte: dove avrei voluto crescere e conoscere. Ottenni una borsa di studio per "l'Università dell'amicizia dei popoli" e entrai nell'ambitissima scuola di cinema di Mosca, la leggendaria Vgk. Fu così che a diciannove anni mi trovai a studiare cinema in Unione Sovietica, il paese in cui fare il cineasta era un sogno collettivo. Praticamente come fare il cosmonauta accanto a Ousmane Sembène, Souleymane Cissé, Idrissa Ouédraogo, Djibril Diop Mambéty. L'elegante sciarpa di seta azzurra avvolta su t-shirt e giacca nera, il volto profondamente segnato al riparo degli occhiali fumé, il regista frena la commozione quando parla del film sulla cittadina del Mali caduta per un anno, nel 2012, nelle mani dei jihadisti. Come se parlasse di sé, di una vita ferita nell'incubo d'ignoranza e fanatismi che solo l'esilio salva e riscatta: «La lotta alla barbarie è stata, a Timbuktu, la rivolta silenziosa della popolazione che s'è impressa nella mente e nel cuore la musica diventata proibita». Come i libri imparati a memoria in Fahrenheit 4-51.
«Sì, e anche in questo caso è stata una resistenza compatta, un ottimismo solidale. È facile diventare indifferenti all'orrore: in quei giorni internet s'inorgogliva per l'ultimo modello di smartphone, mentre, ignorate, centomila persone erano sotto il giogo islamico. Il dovere di un cineasta è di assumere come propria la realtà degli altri e, insieme, ristabilirne i termini. Partendo da un semplice dato di fatto: i nostri carnefici sono nostri simili, anch'essi scossi da dubbi e debolezze. Voglio dire che anche il cieco sanguinario è prima di tutto un essere umano, e che prima di uccidere è stato un bambino. Così pure l'islam non è jihadismo. E viceversa. L'islam è il primo ostaggio dei terroristi che lo stravolgono per le loro stragi. È uno strappo che appartiene innanzitutto a noi, noi musulmani, educati all'amore per l'altro, alla condivisione di valori universali. Nel Corano, il profeta indica quale unica differenza tra un cristiano e un musulmano il loro grado di fede: un modo per dire che siamo tutti uguali. Anche questi princìpi sono presi ora in ostaggio». C'è una gazzella, che fugge all'inizio del film e continua a fuggire alla fine, inseguita dall'ostinata ferocia umana: «È la vita in fuga che traspare dal viso di due vittime innocenti (interpretate da Layla Walet Mohamed e Toulou Kiki, ndr), figlia e moglie del candido tuareg condannato a morte». I veri esuli sono quelli che tornano sempre, anche senza tornare. Domandiamo: Timbuktu è anche un atto d'amore e ribellione per il suo paese d'origine? «Forse, vorrà dire che anch'io sono un esule che non è mai partito di casa».
Nel film di Sissako — nei giorni scorsi a Milano come presidente della giuria del Festival del cinema africano, e tra poco a Cannes come presidente della giuria dei Corti — fioccano anche inattese citazioni, tipo la sequenza dei ragazzini che giocano a calcio (proibito dai jihadisti) con un pallone invisibile, come nella partita a tennis alla fine di Blow Up. Un rigurgito di cinefilia? «Macché. Se c'è un regista, ancora oggi, a cinquantaquattro anni, senza una solida cultura cinematografica, quello sono io. Certo, a Mosca mi avevano imbottito di Neorealismo, Nouvelle vague, Nuovo cinema tedesco, Cassavetes, John Ford…Ma venivo comunque da un paese dove non si realizzano film e non ci sono sale. E quelle poche proiettavano kung-fu, Bollywood e spaghetti western: specie la serie di Trinità con Bud Spencer e Terence Hill. Il vero spettacolo era in platea, dove il pubblico si alzava di botto, tutti insieme, a sostegno dell'eroe, solo contro tutti. Tanto che mi ero convinto che il western fosse il genere di maggiore impatto sociale. Non avevo, d'altra parte, che i tre Trinità da citare quando ho affrontato l'esame d'ammissione alla grande scuola sovietica: gli esaminatori mi guardarono allibiti. Okey, avevo visto anche il peplum italiano, I sette gladiatori e Il monello — dove mi ero addormentato — ma la cosa non parve colpire positivamente i miei esaminatori. Del resto l'esame stesso era una babele: sudamericani, afgani, vietnamiti, arabi. Chi recitava poesie, chi suonava la chitarra. Io mi sentivo perso: è così che si diventa artisti? Non lo sarei mai stato. Alla fine furono anni di vero apprendimento e grandi umiliazioni. I saputelli non mancavano mai di mettermi davanti ai miei limiti. Non avevo cultura. Non conoscevo i registi o i pittori sui quali ci interrogavano. Per me Truffaut era una marca di cioccolato francese. Bergman? Antonioni? Illustri sconosciuti. In Africa la vita non era fatta di libri e musei. Quel che mi apparteneva — le donne che danzavano in strada, i costumi che cuciva mio zio — a Mosca non valevano niente. Avrei voluto urlare: "Non conosco Bach, ma Oum Kalthoum e Dimi Mint Abba, la cantante più grande della Mauritania, è stata lei a cullarmi da piccolo!". Comunque il fatto che alla fine mi abbiano preso prova che si può arrivare a fare un mestiere anche senza esserne obbligatoriamente malati. E dunque, per tornare alla sua domanda, la risposta è no: non ero cinefilo e continuo a non esserlo». Ritentiamo. Ma come nasce il suo desiderio di cinema? «Non dal cinema, ma da mia madre. E dal fratello che non ho mai conosciuto. Meglio: dall'evocazione quasi quotidiana di mia madre del suo primo figlio». Pare la replica dell'infanzia di James M. Barrie, l'autore di Peter Pan, ossessionato da bimbo dall'angoscia della madre per la perdita del figlio prediletto: «Sì, forse è un po' così. Le spiego. Mio fratello era nato da un rapporto precedente avuto da mia madre con un algerino che l'ha portato con sé nel suo paese. Mia madre l'ha atteso sempre. Non è mai tornato. E lei non ha mai smesso di parlare di questo Chérif, che cresceva lontano. Per me, ultimo nato di un'ampia nidiata, era diventato un mito, ravvivato di tanto in tanto da una lettera, da una foto in bianco e nero. Finalmente, un giorno, avvenne il fantomatico incontro tra mia madre e lui, a Dakar. Mamma tornò a casa dicendo: "Chérif studia cinema a Mosca, girerà dei film". Nessuno l'ha mai più visto. Ma quel giorno capii che cosa avrei fatto io della mia vita. Se volevo far piacere a mia madre, prendere il posto di quel figlio di cui lei parlava ogni giorno, dovevo girare dei film» .

LO SCOGLIO DEL CINISMO

di Gad Lerner, del 10/05/15
da http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/05/10/lo-scoglio-del-cinismo22.html

UNA catastrofe che sta trasformandosi in collasso geopolitico. L'esito della proposta di Jean-Claude Juncker, anticipata ieri da Repubblica, è del tutto incerto. Le resistenze saranno fortissime, e speriamo che basti a vincerle l'abilità con cui il vecchio tecnocrate lussemburghese ha deciso di fare ricorso a una procedura d'urgenza, svincolata dall'obbligo di un voto unanime. Intanto, già ne risulta sovvertita quella visione miope della Fortezza Europa secondo cui la grande fuga dal Medio Oriente e dall'Africa si potrebbe disincentivare semplicemente opponendole una resistenza passiva.
Solo il britannico Cameron ebbe il coraggio di dirlo a voce alta, quando accusò la missione italiana Mare Nostrum di incoraggiare i profughi alla traversata. Ma di fatto, nel dicembre scorso, il varo di Triton come missione limitata al presidio delle acque territoriali europee aveva questo implicito presupposto: lasciamo che affoghino in mare, vedrete che gli altri non partiranno più. Un'omissione di soccorso calcolata, i cui effetti pesano sulla coscienza dell'Europa e il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti. Neanche la strage del 19 aprile scorso, con oltre ottocento morti, pareva aver scosso il summit dell'Ue. Che si era limitato a triplicare i fondi della missione Triton senza modificarne le finalità contenitive. Soprattutto, senza riconoscere fra le priorità imposte dall'emergenza, insieme al salvataggio, anche l'accoglienza di chi ne ha diritto: cioè i richiedenti asilo.
Il diritto d'asilo non è un optional affidato alla sensibilità dei governi. È uno dei diritti fondamentali dell'uomo riconosciuto come tale dalla Convenzione di Ginevra. Ma a ricordarcelo è dovuto intervenire il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, denunciando la grave inadempienza di cui si è macchiata l'Europa: non avere previsto «canali legali e regolari di immigrazione», con ciò lasciando alle organizzazioni criminali un monopolio di fatto sulle rotte del sud Mediterraneo. Ha dovuto ricordarci ancora Ban Ki-moon: «La sfida non riguarda solo il miglioramento dei soccorsi e dell'accesso alla protezione, ma anche assicurare il diritto all'asilo del crescente numero di persone che scappano dalla guerra e cercano rifugio ». Una visione ben diversa da quella dei nostri governanti che, per assecondare il turbamento dell'opinione pubblica, non avevano trovato di meglio che promettere il bombardamento degli scafisti. Demagogia all'ingrosso, come se non fosse ovvio — sono sempre parole di Ban Ki-moon — che «non c'è una soluzione militare alla tragedia umana che sta avvenendo nel Mediterraneo».
Così, giovedì scorso a Strasburgo, il presidente Juncker ha tardivamente riconosciuto che «avere interrotto Mare Nostrum è stato un errore che ha provocato gravi perdite umane». Autocritica che riguarda l'Europa ma che non assolve il governo italiano, perché nessuno ci aveva imposto, col varo di Triton, la revoca della missione della nostra Marina Militare in acque internazionali.
Mercoledì prossimo la Commissione europea dovrebbe approvare, se riuscirà a vincere il parere contrario del Regno Unito e di altri Paesi — il fondamentale principio della condivisione per quote dell'accoglienza dei richiedenti asilo. Sul piano storico, oltre che morale, l'opposizione britannica suona davvero indifendibile: Londra aspira a diventare epicentro della finanza transnazionale, offre un paio di battelli e di elicotteri, ma esige che i profughi restino alla larga dalla sua isola felice. Come se l'impero della regina Elisabetta non avesse responsabilità coloniali nel disastro africano e mediorientale che ora, tutti insieme, tocca gestire.
Sarà aspro lo scontro in sede di Consiglio d'Europa, quando i governi dovranno ratificare la nuova Agenda sull'immigrazione. L'egoismo denunciato ieri dal nostro presidente Mattarella fa il paio con una vera e propria pulsione autolesionistica che paralizza la politica estera europea anche là dove sono in gioco suoi interessi vitali, dalla Libia al Medio Oriente caduti preda delle scorrerie dei jihadisti.
Il primo, vero risultato concreto di una pressione che ha visto in prima fila Federica Mogherini con il governo italiano, sostenuti da Germania, Francia, Spagna e Grecia, è la possibilità di un'equa ripartizione dei richiedenti asilo. Per i quali sarà necessario istituire corridoi umanitari e snellire le procedure di riconoscimento; sia all'interno dei singoli Stati, sia con mutua reciprocità.
Forti di questa assunzione di responsabilità, e passato il vaglio del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sarà ineludibile affrontare la spinosa questione libica. Scartate le ipotesi facilone di spedizioni militari nel deserto, l'azione di contrasto degli scafisti richiederà maggior consapevolezza di quella mostrata finora. I fuggiaschi dalla Siria e dall'Eritrea, privi di altre vie di scampo, continueranno a considerare il rischio della traversata in mare come la scelta che resta per loro più razionale. Né si può pensare di risolvere il problema abbandonandoli nel deserto o sulle coste. L'istituzione di presidi umanitari, luoghi di smistamento e identificazione, trasporti degni e sicuri, sono l'unica alternativa che prima o poi s'imporrà per chi è disposto a privarsi di tutto pur di partire. Negli ultimi tre mesi è già quadruplicato il numero dei migranti che raggiungono la Grecia via terra. Non tutti hanno diritto all'asilo politico, e non sempre è facile distinguere fra chi è spinto dal bisogno economico e chi è profugo di guerra. Ma solo un dispositivo congegnato d'intesa con l'Unhcr e le organizzazioni del volontariato può ovviare al caos in cui siamo precipitati.
Vincere l'indifferenza è diventata per l'Europa anche una convenienza. Se n'è reso conto perfino un tecnocrate come Juncker.

William Easterly: "Risorse nelle mani di pochi, più giustizia per battere la crisi"

Latouche: "L'economia ha fallito, il capitalismo è guerra, la globalizzazione violenza"

Il teorico della decrescita felice interviene al Bergamo Festival: "Il libero scambio è come la libera volpe nel libero pollaio". E poi critica l'Expo: "E' la vittoria delle multinazionali, non certo dei produttori. Serve un passo indietro, siamo ossessionati dall'accumulo e dai numeri"

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http://www.repubblica.it/esteri/2015/05/09/foto/francia_miliardario_cinese_regala_week_end_a_parigi_a_6400_dipendenti-113988830/1/?ref=HRESS-5#1


E' probabilmente il miglior datore di lavoro del mondo, almeno per questo week end. Il miliardario cinese Li Jinyuan ha regalato quattro giorni in Francia a 6400 dipendenti per festeggiare i vent'anni di vita della sua azienda, la Tiens (multinazionale che spazia dal settore delle biotecnologie, al turismo, dall'istruzione ai servizi finanziari). In Costa Azzurra si è formata una vera catena umana come si vede dalle immagini: il gruppo di dipendenti è sbarcato prima a Nizza per poi trasferirsi dopo 48 ore a Parigi, solcando la capitale dalla Tour Eiffel al Louvre, per finire con una cena di gala da VIP. Per questo regalo sono stati prenotati 140 alberghi più 7.600 biglietti di treno. Per l'occasione, le ferrovie francesi hanno noleggiato due TGV speciali e dodici persone sono state messe a disposizioni nelle stazioni per assistere l'enorme afflusso di cinesi. 
Li Jinyuan è stato ricevuto dal ministro degli Esteri Laurent Fabius al Quai d'Orsay con tutti gli onori e i ringraziamenti per aver scelto, come regalo così prestigioso, proprio la Francia (ap)