Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania
di Giuseppe Chiellino
da http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-06-30/eurobond-fecero-unita-italia-190357.shtml?uuid=AbDwao0F&p=2
Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia.
Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa.
Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873.
Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio.
La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%).
Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali.
Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla.
Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato».
Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
This is the fashion blog of Stilinga, a fashion designer who works from home. She is from Rome, Italy and she writes about trends, things she loves to do in Rome and art. Questo è il fashion blog, e non solo, di stilinga (una stilista che lavora da casa - è una stilista-casalinga) e che spesso tra una creazione di moda e l'altra, tra ricerche e fiere, si occupa anche del suo quotidiano e del contesto in cui vive.
Lettera di appello al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulla Campagna Navale “Sistema Paese in Movimento”
da: http://www.liberacittadinanza.it/carovana/petizioni/lettera-di-appello-al-presidente-della-repubblica
Lettera di appello al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulla Campagna Navale “Sistema Paese in Movimento”
Liberacittadinanza aderisce all'appello della Rete Italiana per il Disarmo e invita tutti coloro che sono d'accordo a sottoscriverlo.
Al Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano
Palazzo del Quirinale
ROMA
Roma, 13 novembre 2013
Egregio Presidente,
Giorgio Napolitano
Palazzo del Quirinale
ROMA
Roma, 13 novembre 2013
Egregio Presidente,
prende il via oggi da Civitavecchia la Campagna Navale “Sistema Paese in Movimento”.
L’iniziativa, presentata martedì scorso dal Ministro della Difesa, Mario Mauro, insieme ai vertici del Ministero della Difesa intende impegnare per i prossimi cinque mesi il Gruppo Navale Cavour in una campagna promozionale dell’industria bellica italiana insieme ad altre attività commerciali, di tipo militare ed umanitarie.
L’iniziativa, presentata martedì scorso dal Ministro della Difesa, Mario Mauro, insieme ai vertici del Ministero della Difesa intende impegnare per i prossimi cinque mesi il Gruppo Navale Cavour in una campagna promozionale dell’industria bellica italiana insieme ad altre attività commerciali, di tipo militare ed umanitarie.
L’iniziativa avrebbe lo scopo di “promuovere il made in Italy in ogni suo aspetto”, ma sono molteplici e differenti le finalità del progetto: dall’addestramento del personale militare alla sicurezza marittima, dalle operazioni di contrasto al fenomeno criminale della pirateria, al rafforzamento del dialogo e della cooperazione tra nazioni, organizzazioni e aziende.
Tale iniziativa è a nostro avviso inaccettabile in quanto mescola una serie di attività che per loro natura hanno finalità e caratteristiche differenti e che riteniamo sia importante continuare a tenere separate. Soprattutto crediamo che promuovere la vendita di sistemi militari o sostenere iniziative di tipo commerciale abbinandole ad operazioni umanitarie non sia un compito che il nostro ordinamento attribuisce al Ministero della Difesa o alle Forze Amate.
Consideriamo perciò particolarmente preoccupante la funzione che viene assunta dal Ministero della Difesa a sostegno di attività per la promozione di sistemi militari: ai sensi della legislazione vigente (legge n. 185 del 9 luglio 1990 e sue successive modifiche) l’esportazione di materiali di armamento deve essere “regolamentata dallo Stato secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”
(Legge n. 185/1990, Art. 1). In questo contesto non andrebbe sottovalutato lo stato di particolare tensione dell’intera zona mediorientale in cui il gruppo navale Cavour farà tappa e soprattutto il grave deficit di libertà democratiche a fronte di ingenti spese militari e di un livello basso di sviluppo umano di diversi dei Paesi che saranno visitati.
(Legge n. 185/1990, Art. 1). In questo contesto non andrebbe sottovalutato lo stato di particolare tensione dell’intera zona mediorientale in cui il gruppo navale Cavour farà tappa e soprattutto il grave deficit di libertà democratiche a fronte di ingenti spese militari e di un livello basso di sviluppo umano di diversi dei Paesi che saranno visitati.
Riteniamo inoltre che debba essere attentamente valutata la partecipazione in questa “campagna navale” di alcune organizzazione umanitarie ed organizzazioni non governative. La normativa internazionale ribadisce infatti che l’aiuto umanitario non può essere utilizzato come “strumento di politica estera dei governi”. L’impiego di organizzazioni umanitarie da parte di attori militari e commerciali mette infatti in discussione non solo l’indipendenza, la neutralità e l’imparzialità delle organizzazioni autenticamente umanitarie, ma anche la stessa possibilità che gli operatori umanitari continuino ad intervenire efficacemente e in relativa sicurezza nei contesti di crisi.
Crediamo infine che si debba porre estrema attenzione al problema ripetutamente evidenziato da diversi pronunciamenti dell’Unione europea secondo cui la crisi economica sta trasformando alcuni ministeri della Difesa in espliciti promotori delle esportazioni di armamenti. Una tendenza che, per sostenere la competitività delle industrie militari dei rispettivi paesi, rischia di mettere a repentaglio gli sforzi in ambito comunitario per definire una politica organica di sicurezza e di difesa comune.
In considerazione del ruolo che la nostra Costituzione Le attribuisce, Le chiediamo di esprimersi su questa operazione che a nostro avviso configura un impiego delle Forze armate che non risponde al nostro ordinamento, e di agire affinché il programma della Campagna Navale venga discusso a livello istituzionale. Questo nostro appello verrà diffuso presso altre organizzazioni della società civile con la richiesta di adesione e sottoscrizione, che Le segnaleremo prontamente in una nostra successiva lettera.
Con l’occasione porgiamo i nostri migliori saluti di Pace
Le realtà aderenti alla Rete Italiana per il Disarmo
ACLI - Agenzia per la Pace Sondrio - Amnesty International - Archivio Disarmo - ARCI - ARCI Servizio Civile - Associazione Obiettori Nonviolenti - Associazione Papa Giovanni XXIII - Associazione per la Pace – Assopace Palestina - ATTAC - Beati i costruttori di Pace - Campagna Italiana contro le Mine - Campagna OSM-DPN - Centro Studi Difesa Civile - Conferenza degli Istituti Missionari in Italia - Coordinamento Comasco per la Pace - FIM-Cisl - FIOM-Cgil - Fondazione Culturale Responsabilità Etica - Gruppo Abele - ICS - Libera - Mani Tese - Movimento Internazionale della Riconciliazione - Movimento Nonviolento - OPAL - OSCAR Ires Toscana - Pax Christi - PeaceLink - Rete di Lilliput - Rete Radiè Resch - Traduttori per la Pace - Un ponte per...
___________________________________
Rete Italiana per il Disarmo
segreteria@disarmo.org
328/3399267
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Gli affitti dei palazzi del potere non si toccano! E che c***o!
ROMA - «L’articolo 2-bis del decreto legge 15 ottobre 2013, n. 120, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 dicembre 2013, n. 137, è soppresso». Chi ancora ha il coraggio di sostenere che il nostro sistema legislativo è lento e macchinoso si dovrà ricredere davanti a questo capolavoro di Palazzo Madama. Dove è stata cancellata al volo una norma che lo stesso Senato aveva approvato sorprendentemente soltanto sei giorni prima. La cosa era passata nel silenzio generale fra le pieghe di un provvedimento battezzato «manovrina», grazie a un emendamento presentato alla Camera dal deputato del Movimento 5 Stelle Massimo Fraccaro. Testuale: «Le amministrazioni dello Stato, le Regioni e gli enti locali, nonché gli organi costituzionali nell’ambito della propria autonomia, hanno facoltà di recedere, entro il 31 dicembre 2014, dai contratti di locazione di immobili in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Il termine di preavviso per l’esercizio del diritto di recesso è stabilito in trenta giorni, anche in deroga a eventuali clausole difformi previste dal contratto».
Una bomba. Con un bersaglio preciso, come dimostra il passaggio sugli «organi costituzionali»: i palazzi Marini, quegli stabili che ospitano gli uffici dei deputati, presi in affitto con il meccanismo del «global service» dall’immobiliarista e grande allevatore di cavalli Sergio Scarpellini, munifico elargitore di contributi liberali ai partiti di destra e sinistra. È un’operazione che ha origine alla fine degli anni Novanta quando la Camera, d’accordo centrosinistra e centrodestra, decise di stipulare senza gara una serie di contratti con la società Milano 90, che metteva a disposizione di Montecitorio quattro immobili e relativi servizi. A un prezzo, oltre 500 euro annui al metro quadrato, tale da ripagare abbondantemente i mutui bancari contratti dal privato per acquistare le mura. Fatto sta che la Camera avrebbe speso in 18 anni ben 444 milioni solo per i canoni d’affitto, senza ritrovarsi in tasca un solo mattone. Una vicenda divenuta ben presto l’emblema degli sprechi del Palazzo, contro cui si erano scagliati a ripetizione con interrogazioni e denunce pubbliche i radicali. Ma inutilmente. Come inutili si erano rivelati i mal di pancia avvertiti da molti parlamentari consapevoli dell’abnormità della storia. A tutti era stato risposto che non c’era niente da fare: i contratti andavano rispettati e amen. Dopo molti sforzi si era riusciti a disdettarne almeno uno.
E l’emendamento Fraccaro, divenuto legge il 13 dicembre scorso a Palazzo Madama con l’approvazione senza modifiche della «manovrina» uscita da Montecitorio, avrebbe fatto cadere tutti gli ostacoli per la rescissione degli altri tre, che pesano sulle casse pubbliche 26 milioni per i soli canoni. Se però il giovedì seguente non fosse stato recapitato in Senato nella leggina di conversione di un decreto sulle «misure finanziarie urgenti in favore di regioni ed enti locali», un provvidenziale emendamento che sopprime quella disposizione passata sempre al Senato il venerdì precedente. Modifica prontamente approvata dalla maggioranza senza battere ciglio: con qualche voto in più, sembra, rispetto a quelli prevedibili. La battaglia si sposta adesso alla Camera, dove Fraccaro riproporrà tale e quale la norma bocciata. Ma intanto il segnale arrivato dalle Larghe intese, per paradosso proprio mentre Matteo Renzi, il nuovo segretario del Pd loro principale azionista dichiara pubblicamente guerra ai costi della politica, si può interpretare in modo inequivocabile: gli affitti dei palazzi del potere non si toccano. Altra motivazione non ci sarebbe. E l’impronta digitale della maggioranza, del resto, è facilmente riconoscibile.
L’emendamento porta la firma della relatrice delprovvedimento, circostanza che qualifica l’emendamento come iniziativa non personale. Ma essendo la senatrice del Pd Magda Zanoni esperta di contabilità statale, visto che il suo curriculum la qualifica come «consulente di bilanci pubblici», certo non ne può ignorare le conseguenze. E cioè che oltre a mettere in pericolo i contratti blindati e dorati dei palazzi Marini, quella perfida norma grillina consentirebbe a molte amministrazioni di liberarsi di onerosi contratti incautamente sottoscritti senza clausola di recesso: è appena il caso di ricordare che spendiamo circa 12 miliardi l’anno per gli affitti degli uffici pubblici. Chissà perché nessuno ci aveva pensato prima.
E Stilinga, infuriata, pensa che se 'sti cretinetti della politica non smettono di lavorare contro il popolo sovrano e il sovrano popolo li manderà a casa di corsa!
E non vengano a dirci che il debito esplode! e non aumentino le tasse!
Si vergognino 'sti disgraziati che consegnano la cosa pubblica ai privati!
E basta! non se ne può più davvero!
Come ti giri trovi assessori regionali che a contratto, fuori busta, pagavano segretarie-escort, giudici di pace corrotti dai tassisti abusivi, Ncc che pagavano in escort i vigili urbani, presidenti di regione che si compravano mutande verdi coi soldi pubblici, etc. etc.
E' tempo di aggiornare la Divina Commedia e il Decameron, la realtà è truce!
Niente crisi a Silicon Valley!
http://www.corriere.it/foto-gallery/tecnologia/social/13_dicembre_16/non-c-crisi-silicon-valley-party-natale-b9232a46-663f-11e3-8b64-f3a74c1a95d8.shtml#1
Crisi? Macché. Nella Silicon Valley si festeggia come se non ci fosse un domani. Anzi, «sembra che ogni giorno sia come nel 1999», scrive il New York Times. Ovvero: prima dello scoppio della crisi finanziaria e quando la bolla di Internet era ancora bella gonfia. Infatti, il 2013 per i big della tecnologia è stato un anno notevole, da Twitter a Snapchat, da Facebook a Google. Questi sono tempi favolosi per la Silicon Valley, è la comprensibile analisi degli investitori. E a fine anno, dipendenti e dirigenti, si raccolgono per il tradizionale party di Natale. Feste sfarzose che ricordano molto quelle del «Grande Gatsby».
E Stilinga pensa che siccome alcuni grandi marchi sella Silicon Valley non pagano un euro di tasse in Italia, allora è proprio scandaloso che costoro festeggino e brindino come se tutto fosse perfettamente in equilibrio nel mondo, come se tutti i popoli godessero dello stesso benessere.
Purtroppo non è così e questi party fanno specie!
Si avverte una distanza enorme, un abisso esistenziale e reale tra clienti sempre più bombardati dalle pubblicità che esortano a comprare nuovi smortphones (proprio smort) e ipad e a passare il tempo on line, altrimenti sei fuori dalla vita e questi figuri che si sollazzano coi soldi e con le energie che i consumatori buttano online!
Ormai è chiaro che il web è utile solo a chi lo gestisce!
Spagnolo inventa lampadina che dura 100 anni ma viene minacciato di morte
da: http://pianetablunews.wordpress.com/2013/12/02/spagnolo-inventa-lampadina-che-dura-100-anni-ma-viene-minacciato-di-morte/
Spagnolo inventa lampadina che dura 100 anni ma viene minacciato di morte
Guardate la foto qui sopra. Nell’immagine è evidenziata apparentemente una semplice e comune lampadina. Ma questa lampadina ha una particolarità che la rende praticamente “immortale”: è stata sviluppata con una tecnologia (per il momento non nota) che, al contrario delle normali lampadine, non è sottoposta al fenomeno dell’obsolescenza programmata”. Cosa significa questo termine? Solitamente tutto ciò che troviamo in commercio ha una scadenza propria, una fine “programmata” che permette alle industrie di immettere sul mercato mondiale prodotti tecnologicamente sempre più avanzati e di livello superiore, a scapito di quelli già presenti.
Questo avviene nell’economia industriale, soprattutto per prodotti di origine elettrica (come appunto le lampadine) o elettronica. In pratica le industrie produttrici utilizzano appositamente materiali di qualità inferiore o componenti facilmente deteriorabili che accorciano la vita del prodotto rendendolo obsoleto o inutilizzabile dopo un certo periodo di tempo, spesso in prossimità dell’uscita sul mercato di prodotti simili ma tecnologicamente più aggiornati.
Tutto questo, ovviamente, serve esclusivamente ad aumentare i fatturati commerciali. Ora però questa torbida tattica industriale sta per essere messa a rischio dall’invenzione di un giovane impiegato, Benito Muros, che lavora presso l’OEP Electrics come responsabile di un programma appositamente ideato per combattere l’obsolescenza pianificata. In pratica l’uomo ha ideato un tipo di lampadina che arriva a risparmiare dal 70% al 95% dell’energia normalmente utilizzata da una normale lampadina. Ciò vuol dire che sei voi utilizzaste una di queste lampadine per la vostra camera da letto essa sopravvivrebbe anche alla vostra dipartita, continuando a funzionare nel tempo. In più (e non è cosa da poco) essa possiede anche la caratteristica di non scottare al tatto e di non bruciarsi se sottoposta a ripetute accensioni. Un’intervista a Benito Muros:
La notizia, ovviamente positiva per tutti noi, non lo è stato però interamente per il giovane inventore spagnolo che avrebbe subito serie ma prevedibili minacce di morte per se e per i suoi familiari qualora avesse introdotto sul mercato questa nuova tecnologia. Nonostante le minacce ricevute l’uomo ha però coraggiosamente denunciato il fatto alle autorità locali dichiarando che continuerà a difendere il programma per il quale sta ancora attualmente lavorando.
Vi siete mai chiesti perché certi giocattoli si rompono subito? Perché è così faticoso trovare pezzi di ricambio per un elettrodomestico? Perché il computer che avete in casa dopo pochi mesi è già diventato un pezzo da museo? La risposta è più semplice di quanto, forse, immaginate e si racchiude in appena due parole: obsolescenza programmata. Significa che vi sono prodotti che vengono progettati e costruiti per durare poco, rompersi in fretta ed essere così continuamente sostituiti. Il ragionamento è impietoso ma chiaro: sembra che il sistemo economico-monetario che regola la nostra società stia in piedi solo se si continua a “consumare” senza sosta e per avere la certezza che ciò avvenga occorre creare il “bisogno”, la “necessità”. Quindi, cosa c’è di più efficace del mettere a disposizione dei consumatori oggetti pensati e realizzati per durare poco, in modo che vengano costantemente ricomprati? Un video che tratta l’argomento:
Per completezza d’informazione, vi informiamo che esiste anche un’intervista a tale Leon, un presunto ex socio di Muros che cerca di denigrare l’invenzione in questione spiegando che la lampadina ideata da Muros non sarebbe “infinita” ma facilmente riparabile a basso costo. Inoltre si allude a spostamenti finanziari non poco chiari da parte dell’ideatore del progetto. Non sappiamo se queste dichiarazioni corrispondano al vero ma la cosa curiosa è che questa seconda intervista è stata fatta dallo stesso sito web che ha intervistato Muros circa un mese prima. Ecco il link:
www.vice.com/es/read/entrevista-ferran-leon-benito-muros
www.vice.com/es/read/entrevista-ferran-leon-benito-muros
Ad ogni modo esiste un sito ufficiale del prodotto disponibile al seguente indirizzo: www.oepelectrics.es
Condiviso da: http://www.globochannel.com/wordpress/2013/12/01/spagnolo-inventa-lampadina-che-dura-100-anni-ma-viene-minacciato-di-morte/
ACTA con Daniela: il tumore non è uguale per tutti.
da: http://www.actainrete.it/2013/12/acta-con-daniela-il-tumore-non-e-uguale-per-tutti/
ACTA con Daniela: il tumore non è uguale per tutti.
ACTA ha deciso di condividere la battaglia di Daniela Fregosi, freelance ammalata di tumore al seno, ancora senza indennità di malattia ma obbligata a versare gli anticipi INPS!
Stiamo raccogliendo informazioni, materiali e testimonianze per capire come intervenire per aiutarla in questa lotta, che poi è la lotta di tutti noi.
Se hai informazioni o esperienze da raccontare segnalacele!
Stiamo organizzando una campagna per rivendicare il diritto dei freelance gravemente malati a vedere riconosciute le tutele di cui dovrebbero godere. Chiederemo la deroga degli anticipi INPS in caso di malattia grave, una revisione delle sanzioni per il ritardato pagamento e tempi certi per l’erogazione delle indennità di malattia. Vorremmo anche maggiore attenzione da parte dell’INPS nella corretta informazione ai lavoratori autonomi malati, per consentire loro di accedere più facilmente alle prestazioni di cui hanno diritto.
Stiamo raccogliendo informazioni, materiali e testimonianze per capire come intervenire per aiutarla in questa lotta, che poi è la lotta di tutti noi.
Se hai informazioni o esperienze da raccontare segnalacele!
Stiamo organizzando una campagna per rivendicare il diritto dei freelance gravemente malati a vedere riconosciute le tutele di cui dovrebbero godere. Chiederemo la deroga degli anticipi INPS in caso di malattia grave, una revisione delle sanzioni per il ritardato pagamento e tempi certi per l’erogazione delle indennità di malattia. Vorremmo anche maggiore attenzione da parte dell’INPS nella corretta informazione ai lavoratori autonomi malati, per consentire loro di accedere più facilmente alle prestazioni di cui hanno diritto.
A Daniela abbiamo chiesto di raccontare qui la sua storia.
Ammalarsi seriamente è un’esperienza spiacevole per chiunque, ma quando succede a un lavoratore autonomo inizia un doppio calvario. Se poi sei donna e il malaccio è un tumore al seno, hai proprio fatto bingo.
Fin dal momento della diagnosi, intuendo le difficoltà che mi aspettavano, ho cominciato a mettere in atto una serie di strategie di adattamento alla mia nuova condizione. In questo un lavoratore autonomo è un grande esperto perché la flessibilità è il suo pane quotidiano. Ma per quanto tu riesca ad accogliere e gestire il cambiamento, un tumore rimane un tumore e non è un’influenza che, massimo 10 giorni, te la levi di torno. Ho iniziato a informarmi su quali potessero essere gli “ammortizzatori sociali” a cui avevo diritto. Nessuno sapeva nulla. Nonostante dicessi che non ero al pari di una lavoratrice dipendente, che può tranquillamente continuare a contare sul suo stipendio (io sin dal primo mese sono stata costretta a fermarmi), nessun consiglio mi arrivava dai medici e dal commercialista. Un far west terrificante nei patronati, code interminabili di utenti in cerca di informazioni, il call center dell’Inps a cui ho dovuto spiegare io l’ultima circolare del maggio 2013 riguardante i lavoratori autonomi a gestione separata (!). Insomma, meno male che il tumore mi è arrivato alla tetta e non al cervello e che sono molto brava nella navigazione internet, altrimenti ero fritta.
C’è poi da difendersi dalla classica domanda: “Ma come, non hai un’assicurazione privata?” Una cosa così la chiedono solo ai liberi professionisti, tutti convinti che, siccome ce la spassiamo alla grande a non aver padroni, a evadere di brutto e ad arricchirci alla faccia degli altri, il minimo è che cacciamo i soldi per le assicurazioni private e non rompiamo troppo le scatole all’Inps, anche se abbiamo un tumore.
C’è poi da difendersi dalla classica domanda: “Ma come, non hai un’assicurazione privata?” Una cosa così la chiedono solo ai liberi professionisti, tutti convinti che, siccome ce la spassiamo alla grande a non aver padroni, a evadere di brutto e ad arricchirci alla faccia degli altri, il minimo è che cacciamo i soldi per le assicurazioni private e non rompiamo troppo le scatole all’Inps, anche se abbiamo un tumore.
Ho letto innumerevoli guide e libretti informativi per pazienti oncologici, dove venivano descritti i diritti dei lavoratori, dipendenti però. Di noi neppure un cenno. Come se in Italia non ci fosse il popolo delle P.Iva. Come se nessun lavoratore autonomo statisticamente si ammalasse mai seriamente o avesse diritto di ammalarsi come gli altri.
Eppure la malattia per gli autonomi è un problema diffuso, ma se ne parla poco perchè gli interessati sono i primi a nascondersi, temendo ripercussioni lavorative. Già si sono ammalati e hanno pochi diritti; cercano almeno di non bruciarsi un mercato (pure in crisi) fatto di clienti poco propensi ad assoldare professionisti meno efficienti e performanti.
Eppure la malattia per gli autonomi è un problema diffuso, ma se ne parla poco perchè gli interessati sono i primi a nascondersi, temendo ripercussioni lavorative. Già si sono ammalati e hanno pochi diritti; cercano almeno di non bruciarsi un mercato (pure in crisi) fatto di clienti poco propensi ad assoldare professionisti meno efficienti e performanti.
Ma un paziente oncologico non è un paziente oncologico e basta? Evidentemente no.
Noi siamo malati di cancro di serie B e per noi gli art. 32 e 38 della Costituzione, che riguardano rispettivamente il diritto alla salute e il diritto agli aiuti in caso di impossibilità di lavorare, sono opzionali.Perché?
Un lavoratore autonomo con gestione separata ha diritto a un massimo di 61 giorni di malattia in un intero anno solare. E se fai un bel ciclo di chemio per 6 mesi? Beh, puoi sperare di star talmente male da avere diritto all’assegno ordinario di invalidità (una misura temporanea con cifre da fame) oppure puntare sull’invalidità civile. Occhio però che anche lì per ottenere il diritto a un aiuto economico devi stare proprio male e in ogni caso vanno a vedere il tuo reddito nell’anno precedente, quando eri sano, e ti aiutano solo se già da prima avevi un reddito da fame. Uno non sa se augurarsi le metastasi o la miseria. In quel caso incappi comunque in altri sbarramenti, quelli del numero minimo di mesi contributivi versati.
Ho reso l’idea del gran casino che si trova davanti una donna che ha appena scoperto di avere un tumore al seno?
I pochi spiccioli a cui avrei poi diritto me li devo conquistare, tra funzionari che non sono informati, portale INPS che è inadeguato, tempi lunghi di attesa.
E nel frattempo arrivano le scadenze, tra cui il pagamento degli anticipi. Ma come, mi si chiede di pagare INPS e IRPEF in anticipo mentre non ho ancora ricevuto le scarsissime indennità che mi spettano?
Il commercialista mi avvisa che devo provvedere, soprattutto devo versare gli anticipi INPS, perché in caso di ritardo le sanzioni sono pesanti, e, a differenza dell’IRPEF, non è previsto il “ravvedimento operoso”. L’INPS non ammette ritardi, neppure in caso di decesso!
Mentre sei lì tra interventi chirurgici (io ne ho fatto già 2 e si spera di fermarsi lì, perché con un tumore di certezze non ce ne stanno), visite, esami, terapie e riabilitazione, questo è il modo con cui Stato e Inps ti ripagano di anni di tasse versate e contributi. Sapete tutto questo come mi fa sentire? Un bancomat. Un bancomat con un tumore al seno. Non è il massimo.
Noi siamo malati di cancro di serie B e per noi gli art. 32 e 38 della Costituzione, che riguardano rispettivamente il diritto alla salute e il diritto agli aiuti in caso di impossibilità di lavorare, sono opzionali.Perché?
Un lavoratore autonomo con gestione separata ha diritto a un massimo di 61 giorni di malattia in un intero anno solare. E se fai un bel ciclo di chemio per 6 mesi? Beh, puoi sperare di star talmente male da avere diritto all’assegno ordinario di invalidità (una misura temporanea con cifre da fame) oppure puntare sull’invalidità civile. Occhio però che anche lì per ottenere il diritto a un aiuto economico devi stare proprio male e in ogni caso vanno a vedere il tuo reddito nell’anno precedente, quando eri sano, e ti aiutano solo se già da prima avevi un reddito da fame. Uno non sa se augurarsi le metastasi o la miseria. In quel caso incappi comunque in altri sbarramenti, quelli del numero minimo di mesi contributivi versati.
Ho reso l’idea del gran casino che si trova davanti una donna che ha appena scoperto di avere un tumore al seno?
I pochi spiccioli a cui avrei poi diritto me li devo conquistare, tra funzionari che non sono informati, portale INPS che è inadeguato, tempi lunghi di attesa.
E nel frattempo arrivano le scadenze, tra cui il pagamento degli anticipi. Ma come, mi si chiede di pagare INPS e IRPEF in anticipo mentre non ho ancora ricevuto le scarsissime indennità che mi spettano?
Il commercialista mi avvisa che devo provvedere, soprattutto devo versare gli anticipi INPS, perché in caso di ritardo le sanzioni sono pesanti, e, a differenza dell’IRPEF, non è previsto il “ravvedimento operoso”. L’INPS non ammette ritardi, neppure in caso di decesso!
Mentre sei lì tra interventi chirurgici (io ne ho fatto già 2 e si spera di fermarsi lì, perché con un tumore di certezze non ce ne stanno), visite, esami, terapie e riabilitazione, questo è il modo con cui Stato e Inps ti ripagano di anni di tasse versate e contributi. Sapete tutto questo come mi fa sentire? Un bancomat. Un bancomat con un tumore al seno. Non è il massimo.
Chissà, forse dobbiamo espiare qualche colpa. Un’amica libera professionista ha la sua teoria in merito.“In una società conformista, giudicante, che annienta le diversità, il motivo per dare contro a chi pensa, vive e lavora in modo autonomo è che questi soggetti sono di fatto un pericolo per il sistema”. Forse non ha tutti i torti. Io sono più cinica (con un tumore me lo posso permettere) e credo che il motivo sia che dietro ai lavoratori autonomi a gestione separata semplicemente manca un potere forte, un sindacato, un ordine professionale, per cui diventano facilmente oggetto di comportamenti predatori, perché per definizione sono soggetti deboli sul mercato.
Per tutti questi motivi, oltre a denunciare la condizione dei lavoratori autonomi che si ammalano seriamente,ho deciso di fare un gesto concreto. Ho iniziato la mia disobbedienza civile rifiutandomi di pagare l’acconto delle tasse per il 2013.
Caro Thoreau, padre della lotta allo Stato e al potere, oltreché emblema della disobbedienza civile e della resistenza fiscale, aiutami tu. Sostienimi e incoraggiami con le tue parole sagge e non farmi sentire sola: “Tutti gli esseri umani riconoscono il diritto alla rivoluzione; vale a dire, il diritto di rifiutare obbedienza e di resistere al governo quando la sua tirannia o la sua inefficienza sono grandi e intollerabili. Ma quasi tutti dicono che attualmente non ci troviamo in questa situazione……”.
Se sarò sola in questa lotta è perchè il nostro Paese ha ormai perso la capacità di indignarsi, ci hanno lentamente abituato a essere calpestati e, pur lamentandoci moltissimo, non sentiamo più un vero dolore.
Io però sono in una condizione diversa. Come sosteneva Tiziano Terzani prima di morire, un tumore ti concede una sorta di free pass, una carta premio con la quale puoi permetterti di dire e fare cose altrimenti impensabili.
Perchè un tumore o ti schiaccia o ti dà il coraggio di batterti per te stessa e per un mondo più giusto per tutti.
Io però sono in una condizione diversa. Come sosteneva Tiziano Terzani prima di morire, un tumore ti concede una sorta di free pass, una carta premio con la quale puoi permetterti di dire e fare cose altrimenti impensabili.
Perchè un tumore o ti schiaccia o ti dà il coraggio di batterti per te stessa e per un mondo più giusto per tutti.
Daniela
Crisi: dal 2009 chiuse 1,6 mln di aziende
da: http://it.fashionmag.com/news/Crisi-dal-2009-chiuse-1-6-mln-di-aziende,373283.html#.UqWr-dLuKSM
Crisi: dal 2009 chiuse 1,6 mln di aziende
La crisi ha portato alla chiusura di oltre un milione e mezzo di aziende in Italia negli ultimi quattro anni, mentre è cresciuto contemporaneamente nel Paese il fenomeno delle imprese di proprietà di immigrati che rappresentano ormai circa l'11% del totale.
"La recessione ha portato alla cessazione di più di un 1,6 milioni di imprese tra il 2009 e oggi", si legge nel rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del Paese, mentre "il commercio ambulante è cresciuto di quasi l'8% (da 168.000 operatori a quasi 181.000)" e così quello online aumentato nello stesso periodo del 20%.
"L'impresa immigrata è ormai una realtà vasta e significativa nel nostro Paese" con 379.584 i imprenditori stranieri che lavorano in Italia: +16,5% tra il 2009 e il 2012, +4,4% solo nell'ultimo anno, secondo il rapporto.
L'imprenditoria straniera si concentra in particolare nelle costruzioni (il 21,2% del totale) e nel commercio al dettaglio: un negozio su 5 è in mano ad immigrati.
Di fronte alla crisi che sta colpendo i negozi italiani - che dal 2009 sono diminuiti del 3,3% - gli stranieri sono invece cresciuti del 21,3% nel comparto al dettaglio (dove gli esercizi commerciali a titolarità straniera sono 120.626) e del 9,1% nel settore dell'ingrosso (21.440).
Quanto alla nazionalità dei proprietari, oltre 40.000 negozi sono gestiti da marocchini e più di 12.000 da cinesi. Sono 85.000 gli stranieri che lavorano in proprio. Si tratta per lo più di giovani artigiani con dipendenti italiani e stranieri. Negli ultimi quattro anni, mentre gli italiani diminuivano del 3,6%, sono aumentati del 14,3%.
"La recessione ha portato alla cessazione di più di un 1,6 milioni di imprese tra il 2009 e oggi", si legge nel rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del Paese, mentre "il commercio ambulante è cresciuto di quasi l'8% (da 168.000 operatori a quasi 181.000)" e così quello online aumentato nello stesso periodo del 20%.
"L'impresa immigrata è ormai una realtà vasta e significativa nel nostro Paese" con 379.584 i imprenditori stranieri che lavorano in Italia: +16,5% tra il 2009 e il 2012, +4,4% solo nell'ultimo anno, secondo il rapporto.
L'imprenditoria straniera si concentra in particolare nelle costruzioni (il 21,2% del totale) e nel commercio al dettaglio: un negozio su 5 è in mano ad immigrati.
Di fronte alla crisi che sta colpendo i negozi italiani - che dal 2009 sono diminuiti del 3,3% - gli stranieri sono invece cresciuti del 21,3% nel comparto al dettaglio (dove gli esercizi commerciali a titolarità straniera sono 120.626) e del 9,1% nel settore dell'ingrosso (21.440).
Quanto alla nazionalità dei proprietari, oltre 40.000 negozi sono gestiti da marocchini e più di 12.000 da cinesi. Sono 85.000 gli stranieri che lavorano in proprio. Si tratta per lo più di giovani artigiani con dipendenti italiani e stranieri. Negli ultimi quattro anni, mentre gli italiani diminuivano del 3,6%, sono aumentati del 14,3%.
© Thomson Reuters 2013 All rights reserved.
Schiaffo Censis: I politici usano la crisi per salvare le poltrone
di Carlo Di Foggia
dal www.ilfattoquotidiano.it
Il colpo più forte lo assesta il presidente, Giuseppe De Rita, alla politica tutta: “Una classe dirigente che tende a ricercare la sua legittimazione nell’impegno a dare stabilità al sistema”.
Un insieme di annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre che “hanno la sola motivazione e il solo effetto di farla restare la sola titolare della gestione della crisi”. Tradotto, con la scusa del caos, la classe politica usa i problemi economici per legittimare la sua sopravvivenza.
L’immagine di una elite che preserva se stessa e “non può e non vuole uscire dall’implicita e ambigua scelta di drammatizzare le difficoltà del Paese per gestirle” si specchia nella metafora del mare calmo: “L’idea che navigheremmo tutti più tranquilli è una stupidaggine, si sottovalutano le correnti sottomarine che provocano i maremoti e le tempeste”.
L’instabilità come mezzo
Il rapporto 2013 del Censis, presentato ieri a Roma, è un elogio dell’instabilità proprio mentre tutto il sistema politico ed economico l’allontana come un virus.
“Non bisogna averne paura – spiega De Rita – esistono forme legate al conflitto sociale e politico che vanno lasciate a se stesse e alla loro ordinaria dinamica”. Imbrigliandole, non si illumina la realtà sociale, anzi, la “coazione alla stabilità” è la principale responsabile della fuga degli italiani dalla politica (oltre un quarto se ne è completamente allontanato), che rimane “avvitata su se stessa”mentre agita come un mantra il tema delle riforme: “Negli ultimi dodici mesi – si legge nello studio – i governi che si sono avvicendati alla fine della scorsa Legislatura e all’inizio della nuova hanno emanato oltre 660 provvedimenti di attuazione delle riforme. Ma la quota di quelli effettivamente adottati è stata pari ad un terzo”. Una paralisi anche percettiva.
Più si moltiplicano gli interventi a tutti i costi, più cresce la sensazione della loro insufficenza rispetto alla spirale innescata dalla crisi: “Non è con continue chiamate all’affano e proposte di rigore che si costruisce una classe dirigente. Così il cambiamento è impensabile”.
Il declino in cifre
Ma lo studio è anche un profluvio di dati drammatici, che dipingono un paese che arranca, una società senza più ossigeno, ‘sciapa’ e infelice “dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa”.
Lavoro e fuga all’estero
Il versante peggiore è quello delle famiglie. I consumi, segnalano i ricercatori, sono tornati ai livelli di 10 anni fa, mentre una su quattro fatica a pagare tasse e bollette, complice anche la crescita di altre voci, come quella per i ticket sui farmaci, aumentata in quattro anni del 114 per cento. Cresce la quota di quante si troverebbero in difficoltà in caso di spese impreviste. E il 2013 “si chiude con la sensazione di una dilagante incertezza”. Prima fra tutte, il lavoro. Oltre ai dati sulla disoccupazione (arrivata al 20 per cento al sud), ci sono sei milioni di lavoratori che si trovano in condizione di precarietà, un quarto della forza lavoro. Crescono contratti a termine, occasionali, collaboratori e finte partite Iva. E così tra il 2011 e il 2012, l’esodo degli italiani all’estero è aumentato del 28,8 per cento.
Il dramma scuola
Per quanto incredibile, i ricercatori del Censis spiegano che un quarto degli italiani possiede al massimo la licenza elementare. Il dato la dice lunga sullo squilibrio demografico del paese. Pur essendo concentrate nella fascia di età più avanzata, le criticità riguardano anche i giovani: il 17 per cento ha infatti al massimo la terza media e il tasso di abbandono scolastico al primo anno delle superiori supera il 10 per cento. Dulcis in fundo, nell’ ultimo anno, solo un italiano su due ha letto almeno un libro.
Odiati stranieri
A fronte di “un’impresa immigrata, ormai realtà vasta e significativa nel Paese” (gli imprenditori stranieri sono ormai l’11 per cento del totale), il rapporto dipinge una società impaurita. Interpellati dai sodaggisti del Centro studi, quattro italiani su cinque si sono infatti dichiarati ostili o diffidenti nei confronti degli immigrati.
dal www.ilfattoquotidiano.it
Il colpo più forte lo assesta il presidente, Giuseppe De Rita, alla politica tutta: “Una classe dirigente che tende a ricercare la sua legittimazione nell’impegno a dare stabilità al sistema”.
Un insieme di annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre che “hanno la sola motivazione e il solo effetto di farla restare la sola titolare della gestione della crisi”. Tradotto, con la scusa del caos, la classe politica usa i problemi economici per legittimare la sua sopravvivenza.
L’immagine di una elite che preserva se stessa e “non può e non vuole uscire dall’implicita e ambigua scelta di drammatizzare le difficoltà del Paese per gestirle” si specchia nella metafora del mare calmo: “L’idea che navigheremmo tutti più tranquilli è una stupidaggine, si sottovalutano le correnti sottomarine che provocano i maremoti e le tempeste”.
L’instabilità come mezzo
Il rapporto 2013 del Censis, presentato ieri a Roma, è un elogio dell’instabilità proprio mentre tutto il sistema politico ed economico l’allontana come un virus.
“Non bisogna averne paura – spiega De Rita – esistono forme legate al conflitto sociale e politico che vanno lasciate a se stesse e alla loro ordinaria dinamica”. Imbrigliandole, non si illumina la realtà sociale, anzi, la “coazione alla stabilità” è la principale responsabile della fuga degli italiani dalla politica (oltre un quarto se ne è completamente allontanato), che rimane “avvitata su se stessa”mentre agita come un mantra il tema delle riforme: “Negli ultimi dodici mesi – si legge nello studio – i governi che si sono avvicendati alla fine della scorsa Legislatura e all’inizio della nuova hanno emanato oltre 660 provvedimenti di attuazione delle riforme. Ma la quota di quelli effettivamente adottati è stata pari ad un terzo”. Una paralisi anche percettiva.
Più si moltiplicano gli interventi a tutti i costi, più cresce la sensazione della loro insufficenza rispetto alla spirale innescata dalla crisi: “Non è con continue chiamate all’affano e proposte di rigore che si costruisce una classe dirigente. Così il cambiamento è impensabile”.
Il declino in cifre
Ma lo studio è anche un profluvio di dati drammatici, che dipingono un paese che arranca, una società senza più ossigeno, ‘sciapa’ e infelice “dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa”.
Lavoro e fuga all’estero
Il versante peggiore è quello delle famiglie. I consumi, segnalano i ricercatori, sono tornati ai livelli di 10 anni fa, mentre una su quattro fatica a pagare tasse e bollette, complice anche la crescita di altre voci, come quella per i ticket sui farmaci, aumentata in quattro anni del 114 per cento. Cresce la quota di quante si troverebbero in difficoltà in caso di spese impreviste. E il 2013 “si chiude con la sensazione di una dilagante incertezza”. Prima fra tutte, il lavoro. Oltre ai dati sulla disoccupazione (arrivata al 20 per cento al sud), ci sono sei milioni di lavoratori che si trovano in condizione di precarietà, un quarto della forza lavoro. Crescono contratti a termine, occasionali, collaboratori e finte partite Iva. E così tra il 2011 e il 2012, l’esodo degli italiani all’estero è aumentato del 28,8 per cento.
Il dramma scuola
Per quanto incredibile, i ricercatori del Censis spiegano che un quarto degli italiani possiede al massimo la licenza elementare. Il dato la dice lunga sullo squilibrio demografico del paese. Pur essendo concentrate nella fascia di età più avanzata, le criticità riguardano anche i giovani: il 17 per cento ha infatti al massimo la terza media e il tasso di abbandono scolastico al primo anno delle superiori supera il 10 per cento. Dulcis in fundo, nell’ ultimo anno, solo un italiano su due ha letto almeno un libro.
Odiati stranieri
A fronte di “un’impresa immigrata, ormai realtà vasta e significativa nel Paese” (gli imprenditori stranieri sono ormai l’11 per cento del totale), il rapporto dipinge una società impaurita. Interpellati dai sodaggisti del Centro studi, quattro italiani su cinque si sono infatti dichiarati ostili o diffidenti nei confronti degli immigrati.
More Italians are marrying foreigners
da: http://www.thelocal.it/20131114/more-italians-are-marrying-foreigners?utm_source=outbrain&utm_campaign=Italy_Launch&utm_medium=cpc
More Italians are marrying foreigners
Marriages between Italians and foreigners are fuelling a rise in weddings in Italy, according to figures from Istat, the national statistics agency.
In 2012, there were 30,724 weddings between an Italian and a foreigner, an increase of 4,000 from the previous year. The figure represents 15 percent of a total 207,138 marriages that place in Italy in 2012, a rise of 2,308 from 2011.
The majority of weddings between an Italian and a foreigner took place in northern and central Italy, where one in five married couples include a foreign spouse.
There were also more civil ceremonies in 2012 (84,841) compared to 2011 (80,341), mainly among couples getting married for the second or third time.
But there was also a 5.7 percent rise in the number of first marriages taking place outside of the church between 2008 and 2012.
People are also marrying later in life compared to the seventies, with the average age of a groom being 34 and 31 for a bride.
The marriage rate has been steady declining since 1972, falling an average 1.2 percent until 2007 and 4.8 percent between that year and 2011.
The Local (news@thelocal.it)
who cares? why are people so interested in Italian ways of living? And this is no news: Italy is the center of Mediterannean sea, so guess what? We are a mixture of cultures! Welcome to know who we are! And please study a little of history!
La BASTARDISSIMA Gestione Separata Inps!
da: http://www.sconfini.eu/Economia/la-trappola-dei-padri-la-gestione-separata-inps.html
Un odio intergenerazionale sempre più diffuso accompagna i ragionamenti che si possono sentire in seminari, corsi universitari, analisi sociodemografiche, discorsi da bar.
Nell'Italia che si affaccia nel terzo millennio, la generazione dei figli ha iniziato a detestare la generazione dei padri. Perché? Cosa è successo? Qual è la radice di questo impasse generazionale, di questa incomunicabilità assoluta? La chiave di volta per comprendere il peccato originale che ha creato questo smottamento emotivo ha una data di nascita ben precisa: il 1995.
E ha un responsabile identificabile in Lamberto Dini e nella sua riforma previdenziale.
L'Italia lavorativa da quel momento è stata separata in due tronconi principali, con qualche sfumatura in via di esaurimento nel mezzo, che nel tempo hanno visto acuire notevolmente le proprie differenze.
1) Chi aveva iniziato a lavorare entro il 1978 sarebbe andato in pensione con il sistema retributivo (praticamente con la paga dell'ultimo periodo lavorativo, spesso gonfiatasi a dismisura negli ultimi mesi di lavoro e pertando senza aver versato i congrui contributi) e dopo aver lavorato tra i 20 e i 35 anni (ma anche meno in caso di pensionati baby).
2) Quelli che avevano iniziato a lavorare tra il '78 e il '95 avrebbero goduto di un sistema "misto" (dopo 30/40 anni di lavoro) tanto più favorevole tanto prima si fosse iniziato a lavorare.
3) Quelli che iniziarono a lavorare dal 1996 in poi sarebbero ricaduti nel sistema contributivo: in pratica la pensione (dopo oltre 42 anni di contributi) corrisponderà a circa il 40% dell'ultimo stipendio.
Si badi bene: nel migliore dei casi! Accanto a questa trappola che sarebbe scattata troppo in là per scatenare rivoluzioni di massa (che arriveranno a tempo debito, quando i responsabili saranno sotto terra), la riforma Dini inventò la Gestione Separata Inps, il fondo pensionistico riservato a lavoratori con contratti di collaborazione a progetto, titolari di borse di studio per dottorati di ricerca, lavoratori autonomi di ordini professionali senza specifiche casse previdenziali. In pratica i precari di oggi, gli schiavi moderni, che non a caso non esistevano nell'Italia prima di quegli anni.
Essendo una gestione "nuova" che incassa miliardi di euro ogni anno e non eroga pensioni, è una cassa che è da sempre in attivo di molti miliardi. Penserete: bene, quei soldi finiranno per premiare i precari quando sarà il loro momento. Sbagliato, la Gestione Separata non erogherà che pochissime pensioni degne di questo nome perché molti precari non raggiungeranno mai i requisiti minimi per accedere alla pensione.
Tutti questi miliardi frutto spesso di lavori degradanti, umilianti, vissuti sempre sotto il ricatto di un mancato rinnovo, senza tutele, malattia, TFR, ore di permesso, servono invece a pagare le pensioni di chi è venuto prima. Di chi sta godendo di trattamenti pensionistici immeritati, in primis i dirigenti del settore pubblico che avevano una cassa praticamente fallita (Inpdap) e che Monti ha infilato nell'Inps con tutto il suo disavanzo.
E senza togliere loro un solo euro. Il tutto mentre l'iniziale aliquota del 19,5% a carico dei precari ha superato il 26%. Siamo quindi arrivati al corto circuito finale: i figli mantengono con lavori non dignitosi i padri e i nonnni spesso baby pensionati che a loro volta aiutano come possono i figli. Arriverà il momento in cui la catena della solidarietà si spezzerà per motivi anagrafici (leggi morte di nonni e genitori) e allora saranno guai per davvero. L'unica sacrosanta via d'uscita sarebbe una legge, anche di un solo articolo che contenga una frase simile: Viene istituito il principio dell'equa valorizzazione dei contributi previdenziali, secondo cui tutti i contributi dei lavoratori hanno lo stesso valore. Già perché quella che sembra un'ovvietà nell'Italia di oggi non lo è. I 500 euro che versa un precario valgono oggi meno dei 500 euro che versa un dipendente pubblico.
E Stilinga pensa che le cose sono così inique ed ingiuste, che se il governo non ci mette una pezza subito, qua succede una rivoluzione!
Un odio intergenerazionale sempre più diffuso accompagna i ragionamenti che si possono sentire in seminari, corsi universitari, analisi sociodemografiche, discorsi da bar.
Nell'Italia che si affaccia nel terzo millennio, la generazione dei figli ha iniziato a detestare la generazione dei padri. Perché? Cosa è successo? Qual è la radice di questo impasse generazionale, di questa incomunicabilità assoluta? La chiave di volta per comprendere il peccato originale che ha creato questo smottamento emotivo ha una data di nascita ben precisa: il 1995.
E ha un responsabile identificabile in Lamberto Dini e nella sua riforma previdenziale.
L'Italia lavorativa da quel momento è stata separata in due tronconi principali, con qualche sfumatura in via di esaurimento nel mezzo, che nel tempo hanno visto acuire notevolmente le proprie differenze.
1) Chi aveva iniziato a lavorare entro il 1978 sarebbe andato in pensione con il sistema retributivo (praticamente con la paga dell'ultimo periodo lavorativo, spesso gonfiatasi a dismisura negli ultimi mesi di lavoro e pertando senza aver versato i congrui contributi) e dopo aver lavorato tra i 20 e i 35 anni (ma anche meno in caso di pensionati baby).
2) Quelli che avevano iniziato a lavorare tra il '78 e il '95 avrebbero goduto di un sistema "misto" (dopo 30/40 anni di lavoro) tanto più favorevole tanto prima si fosse iniziato a lavorare.
3) Quelli che iniziarono a lavorare dal 1996 in poi sarebbero ricaduti nel sistema contributivo: in pratica la pensione (dopo oltre 42 anni di contributi) corrisponderà a circa il 40% dell'ultimo stipendio.
Si badi bene: nel migliore dei casi! Accanto a questa trappola che sarebbe scattata troppo in là per scatenare rivoluzioni di massa (che arriveranno a tempo debito, quando i responsabili saranno sotto terra), la riforma Dini inventò la Gestione Separata Inps, il fondo pensionistico riservato a lavoratori con contratti di collaborazione a progetto, titolari di borse di studio per dottorati di ricerca, lavoratori autonomi di ordini professionali senza specifiche casse previdenziali. In pratica i precari di oggi, gli schiavi moderni, che non a caso non esistevano nell'Italia prima di quegli anni.
Essendo una gestione "nuova" che incassa miliardi di euro ogni anno e non eroga pensioni, è una cassa che è da sempre in attivo di molti miliardi. Penserete: bene, quei soldi finiranno per premiare i precari quando sarà il loro momento. Sbagliato, la Gestione Separata non erogherà che pochissime pensioni degne di questo nome perché molti precari non raggiungeranno mai i requisiti minimi per accedere alla pensione.
Tutti questi miliardi frutto spesso di lavori degradanti, umilianti, vissuti sempre sotto il ricatto di un mancato rinnovo, senza tutele, malattia, TFR, ore di permesso, servono invece a pagare le pensioni di chi è venuto prima. Di chi sta godendo di trattamenti pensionistici immeritati, in primis i dirigenti del settore pubblico che avevano una cassa praticamente fallita (Inpdap) e che Monti ha infilato nell'Inps con tutto il suo disavanzo.
E senza togliere loro un solo euro. Il tutto mentre l'iniziale aliquota del 19,5% a carico dei precari ha superato il 26%. Siamo quindi arrivati al corto circuito finale: i figli mantengono con lavori non dignitosi i padri e i nonnni spesso baby pensionati che a loro volta aiutano come possono i figli. Arriverà il momento in cui la catena della solidarietà si spezzerà per motivi anagrafici (leggi morte di nonni e genitori) e allora saranno guai per davvero. L'unica sacrosanta via d'uscita sarebbe una legge, anche di un solo articolo che contenga una frase simile: Viene istituito il principio dell'equa valorizzazione dei contributi previdenziali, secondo cui tutti i contributi dei lavoratori hanno lo stesso valore. Già perché quella che sembra un'ovvietà nell'Italia di oggi non lo è. I 500 euro che versa un precario valgono oggi meno dei 500 euro che versa un dipendente pubblico.
E Stilinga pensa che le cose sono così inique ed ingiuste, che se il governo non ci mette una pezza subito, qua succede una rivoluzione!
The economics of happiness
Economic globalization has led to a massive expansion in the scale and power of big business and banking. It has also worsened nearly every problem we face: fundamentalism and ethnic conflict; climate chaos and species extinction; financial instability and unemployment. There are personal costs too. For the majority of people on the planet, life is becoming increasingly stressful. We have less time for friends and family and we face mounting pressures at work.
The Economics of Happiness describes a world moving simultaneously in two opposing directions. On the one hand, an unholy alliance of governments and big business continues to promote globalization and the consolidation of corporate power. At the same time, people all over the world are resisting those policies, demanding a re-regulation of trade and finance—and, far from the old institutions of power, they’re starting to forge a very different future. Communities are coming together to re-build more human scale, ecological economies based on a new paradigm – an economics oflocalization.
The film shows how globalization breeds cultural self-rejection, competition and divisiveness; how it structurally promotes the growth of slums and urban sprawl; how it is decimating democracy. We learn about the obscene waste that results from trade for the sake of trade: apples sent from the UK to South Africa to be washed and waxed, then shipped back to British supermarkets; tuna caught off the coast of America, flown to Japan to be processed, then flown back to the US. We hear about the suicides of Indian farmers; about the demise of land-based cultures in every corner of the world.
The second half of The Economics of Happiness provides not only inspiration, but practical solutions. Arguing that economic localization is a strategic solution multiplier that can solve our most serious problems, the film spells out the policy changes needed to enable local businesses to survive and prosper. We are introduced to community initiatives that are moving the localization agenda forward, including urban gardens in Detroit, Michigan and the Transition Town movement in Totnes, UK. We see the benefits of an expanding local food movement that is restoring biological diversity, communities and local economies worldwide. And we are introduced to Via Campesina, the largest social movement in the world, with more than 400 million members.
We hear from a chorus of voices from six continents, including Vandana Shiva, Bill McKibben, David Korten, Samdhong Rinpoche, Helena Norberg-Hodge, Michael Shuman, Zac Goldsmith and Keibo Oiwa. They tell us that climate change and peak oil give us little choice: we need to localize, to bring the economy home. The good news is that as we move in this direction we will begin not only to heal the earth but also to restore our own sense of well-being. The Economics of Happiness challenges us to restore our faith in humanity, challenges us to believe that it is possible to build a better world.
La crisi non esiste per gli euroburocrati!
‘Quale crisi?’. Se l’Europa nega l’emergenza per salvare la casta
La crisi c’è, la crisi non c’è. Quando la Commissione europea deve discutere con i Paesi membri, a cominciare dall’Italia, le misure di rigore, è perfettamente consapevole della gravità del momento. Ma quando si tratta di proteggere gli stipendi dei suoi funzionari, l’esecutivo europeo di José Barroso arriva a scrivere in documenti ufficiali che in Europa non c’è alcun “deterioramento grave e improvviso della situazione economica e sociale”.
I guardiani dell’austerità diventano incredibilmente ottimisti per difendere i salari di Bruxelles dal Consiglio europeo, l’organo che riunisce i capi di governo dei Paesi membri. La storia è ricostruita nella sentenza della Corte di Giustizia europea relativa alla causa C-63/12, del 19 novembre scorso. La Commissione, affiancata dal Parlamento europeo, aveva presentato un ricorso contro il Consiglio sostenuto alcuni Paesi (Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Spagna, Olanda e Gran Bretagna). Secondo il trattato sul Funzionamento dell’Unione, ogni anno il Consiglio decide “prima della fine di ogni anno in merito all’adeguamento delle retribuzioni e delle pensioni proposto dalla Commissione”. Nel dicembre 2010 il Consiglio ha deciso di far scattare la “clausola di eccezione”, ha ritenuto cioè che l’Europa fosse di fronte a un “deterioramento grave e improvviso della situazione economica e sociale all’interno dell’Unione”. E quindi ha chiesto alla Commissione di presentare “adeguate proposte”. Tradotto: visto che c’è la crisi in tutto il continente e si annunciano anni terribili, gli euro-burocrati diano il loro esempio riducendosi lo stipendio.
Il 13 luglio del 2011 la Commissione di Barroso presenta una relazione in cui “gli indicatori mostravano che nell’Unione la ripresa economica continuava a progredire” e quindi “non vi era un deterioramento grave e improvviso della situazione economica e sociale all’interno dell’Unione nel periodo di riferimento tra il primo luglio 2010, data di effetto dell’ultimo adeguamento annuale delle retribuzioni, e la metà di maggio 2011, momento in cui sono stati resi disponibili i dati più aggiornati, si legge nella sentenza”. Niente crisi, niente tagli.
Eppure l’estate 2011 era quella in cui l’Italia era a un passo dal default, con la Banca centrale europea costretta a comprare Btp perché nessuno li voleva più, la Grecia era sprofondata nel baratro, il Portogallo e l’Irlanda avevano già firmato per avere gli aiuti di emergenza e le riforme traumatiche della troika, e l’esistenza stessa della moneta unica, e dunque di tutta l’Unione, cominciava a sembrare non scontata. La Commissione, nel suo contenzioso giuridico con il Consiglio, ammette i numeri “evidenziano un peggioramento per il 2011 rispetto alle previsioni pubblicate in primavera”, ma non c’è alcuna emergenza che faccia scattare la clausola di eccezione. La battaglia davanti alla Corte di Giustizia si sviluppa in un labirinto di dettagli procedurali, maggioranze qualificate e cavilli bruxellesi, si aggiungono due ulteriori ricorsi, con altri Paesi coinvolti. La Corte boccia i ricorsi della Commissione e la condanna a pagare le spese, ma non si pronuncia nel merito. Gli stipendi dei funzionari di Bruxelles sembrano rimanere al riparo dai tagli. Eppure, anche solo come misura simbolica, potrebbero subire una limatura senza traumi per gli interessati.
Secondo il sito della Commissione, i funzionari hanno un salario d’ingresso da 2.300 euro al mese, ma dopo quattro anni possono arrivare a 16.000 cui si aggiungono varie voci (come un’indennità di dislocazione del 16 per cento per chi lavora lontano dal Paese d’origine, cioè quasi tutti), poi assegni per i figli a carico, una “indennità scolastica” e una prescolastica e così via. Vanno in pensione a 63 anni con la pensione di anzianità, ma possono ottenere un prepensionamento a 55 anni o decidere di rimanere in servizio fino a 67. E la pensione è calcolata, ovviamente, con il sistema retributivo, può arrivare al 70 per cento dell’ultimo stipendio base. Trattamenti così generosi non li avevano neppure in Grecia prima della troika.
Ma ogni sacrificio è vietato, la crisi non esiste, per la Commissione.
E Stilinga si chiede: ma a che serve la UE? agli euroburocrati! Sarebbe sano mandarli a casa ed eleggere politici europei che lavorino come volontari non stipendiati! Vediamo poi se la crisi c'è oppure no!
Questa UE fatta così male è una iattura. Meglio sgonfiarla e rifarla che continuare con questa macchina spremisoldi! Necessitiamo di vera Europa! E che cribbio!
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