Stilinga oggi passeggiando per il centro storico di Roma, si è imbattuta piacevolmente nel negozio di regali chiamato Rigadritto (Via Vittoria, 37) musica per la mente, gioia visiva per la creatività: portafogli realizzati con carte colorate che ritraggono le metropolitane di N.Y o Londra, matite, magneti, biglietti di auguri super chic e originali e tantissimo altro.
Davvero una bella idea!
E vedendo il sito Stilinga si è ricordata di aver già visitato la sede milanese a Via Brera, 6.
This is the fashion blog of Stilinga, a fashion designer who works from home. She is from Rome, Italy and she writes about trends, things she loves to do in Rome and art. Questo è il fashion blog, e non solo, di stilinga (una stilista che lavora da casa - è una stilista-casalinga) e che spesso tra una creazione di moda e l'altra, tra ricerche e fiere, si occupa anche del suo quotidiano e del contesto in cui vive.
Piccole storie cinesi "Jeans ponente" di Giampaolo Visetti da Donna di Repubblica
Rubriche
"Piccole storie cinesi: Jeans ponente"
Xitang non è più la Silicon Valley del denim: ormai è un emblema (tossico) dello sfruttamento di massa
Di Giampaolo Visetti
"Trent'anni fa in Cina i jeans erano sconosciuti. I cinesi indossavano le divise grigie fornite dallo Stato e tutti assomigliavano ai rivoluzionari di Mao Zedong. L'indumento simbolo degli Stati Uniti, nel mondo comunista, era proibito: come la musica pop.
Oggi la Cina è la fabbrica del denim. Due terzi dei jeans infilati nelle gambe dell'umanità escono da capannoni cinesi. Non è stato un affare da buttare. Ogni anno se ne acquistano oltre 800 milioni di paia.
La storia di Xitang è l'icona della migrazione più travolgente della contemporaneità, che ha spostato in Oriente tutto ciò che si fa per compiacersi di mantenere in Occidente tutto ciò che si pensa. Xitang, fino agli anni 80, era un villaggio di contadini e di pescatori: duecento persone sulle rive del fiume delle Perle. Huang Lin, ambulante di Hong Kong, decise di portare in questa campagna una macchina per cucire pantaloni.
Oggi è la capitale mondiale dei jeans. Un milione di operai confenziona il 40% dei calzoni venduti sulla terra. Ogni marca ha qui il suo stabilimento principale: le più famose nate negli Stati Uniti, ma pure le aziende italiane che hanno trasformato la divisa del cow boy in quella dell'old manager.
Non è la Silicon Valley della moda. Gli operai sono ammassati in vecchi capannoni a conduzione famigliare. Il padrone siede fuori e invita i passanti ad entrare. Offre sigarette, liquore, microscopiche tazze di un tè violento. Mucchi di donne, sulla strada, circondano montagne di tela: cuciono etichette di qualsiasi brand, eliminano fili con la pistola termica, infilano nei sacchetti 60mila paia di jeans al giorno.
Nei vicoli attorno si fa il resto: bottoni, cerniere, rivetti, filo. Colonne di camion scaricano rotoli di tessuto nei cortili e spariscono gonfi di merce.
Nessuno immagina, scivolando nei suoi denim con l'ambizione di un'originalità, di esibire l'ultimo emblema dello sfruttamento cinese di massa. Xitang è stato ridotto a essere la fucina unica dei jeans per due ragioni: nella regione vivevano milioni di persone disposte a lavorare per venti centesimi al giorno e nessuno si preoccupava per l'impatto delle fabbriche sulla natura. Da dieci anni nell'ex villaggio dei contadini e dei pescatori non cresce più niente di commestibile.
Vista dal satellite, la metropoli globale dei jeans è una nuvola rossa, percorsa da uno scheletro viola. Il vapore indica il carbone usato per alimentare le tessitorie, le ossa segnano gli scarichi tossici della tintura del cotone. Nella contea, in trent'anni, non è stato installato un solo depuratore. Sacrificare gli uomini e la terra per far sentire alla moda il mondo è il piatto servito in tavola. Grazie a Xitang il prezzo del casual è restato basso, è nato il guardaroba usa e getta e l'Occidente è stato conquistato dalle catene dei grandi magazzini arredati da albergo di charme.
Non è una favola a lieto fine.
Da alcune settimane l'epicentro cinese del jeans made in Usa è deserto.
L'era dei prezzi stracciati è finita. Offrire all'ingrosso pantaloni a 80 centesimi e t-shirt a 15 non basta più. Il clienti dell'Ovest non accettano nemmeno di coprire i costi. La crisi del vecchio consumismo demolisce il sistema-Xitang.
Gli operai reclamano salari che permettano di sopravvivere e lo sconvolgimento del clima proietta il valore del cotone alle stelle. Gli stilisti foderano i jeans in poliestere, impongono al gusto finiture lucide, ma i conti non tornano.
I materiali valgono più del prodotto e sui capannoni abbandonati sono affissi cartelli che offrono partite di denim a 5 centesimi il paio. In un anno il 40% delle tessitorie ha chiuso e 300mila lavoratori tornano a vagare per la Cina seguendo la corrente dei cantieri.
Se una famiglia europea o americana cambia un jeans in meno all'anno, il saccheggio del modello cinese implode. Nuovi Xitang risorgono altrove. Vietnam, Cambogia, Indonesia, India e Filippine offrono moda a costo di trasporto. Wei Xiaofeng, proprietaria del colosso che ci ha vestiti negli ultimi vent'anni, siede sola su un cumulo di rotoli di tela azzurra, destinata a trasfomarsi in isolante per i grattacieli di Kuala Lumpur.
L'impero della delocalizzazione si scopre vittima di se stesso e delocalizza. La Cina perde i jeans e Xitang chiude. Il mondo può ignorare il suo profilo riflesso in uno specchio. "
Da Donna di Repubblica
Stilinga crede che non comprare jeans fabbricati dai moderni schiavi/operai asiatici potrebbe non solo riequilibrare il commercio ma dare una bella stoccata ai committenti/brand che pascolano in un mondo senza regole in cui l'unico obiettivo è il profitto, a discapito dei lavoratori asiatici e di quelli europei e a discapito dell'ambiente e dei diritti umani.
E' tempo di cambiare i nosti singoli consumi e di riflettere bene prima di fare shopping.
Tutto questo oggi giorno è cruciale: se io non compro un jeans di un brand multinazionale, non solo faccio un favore all'ambiente (e al mio portafoglio) ma anche al mio paese e contribuisco ad equilibrare questa globalizzazione non solo malata, ma tossica, perversa e dittatoriale.
"Piccole storie cinesi: Jeans ponente"
Xitang non è più la Silicon Valley del denim: ormai è un emblema (tossico) dello sfruttamento di massa
Di Giampaolo Visetti
"Trent'anni fa in Cina i jeans erano sconosciuti. I cinesi indossavano le divise grigie fornite dallo Stato e tutti assomigliavano ai rivoluzionari di Mao Zedong. L'indumento simbolo degli Stati Uniti, nel mondo comunista, era proibito: come la musica pop.
Oggi la Cina è la fabbrica del denim. Due terzi dei jeans infilati nelle gambe dell'umanità escono da capannoni cinesi. Non è stato un affare da buttare. Ogni anno se ne acquistano oltre 800 milioni di paia.
La storia di Xitang è l'icona della migrazione più travolgente della contemporaneità, che ha spostato in Oriente tutto ciò che si fa per compiacersi di mantenere in Occidente tutto ciò che si pensa. Xitang, fino agli anni 80, era un villaggio di contadini e di pescatori: duecento persone sulle rive del fiume delle Perle. Huang Lin, ambulante di Hong Kong, decise di portare in questa campagna una macchina per cucire pantaloni.
Oggi è la capitale mondiale dei jeans. Un milione di operai confenziona il 40% dei calzoni venduti sulla terra. Ogni marca ha qui il suo stabilimento principale: le più famose nate negli Stati Uniti, ma pure le aziende italiane che hanno trasformato la divisa del cow boy in quella dell'old manager.
Non è la Silicon Valley della moda. Gli operai sono ammassati in vecchi capannoni a conduzione famigliare. Il padrone siede fuori e invita i passanti ad entrare. Offre sigarette, liquore, microscopiche tazze di un tè violento. Mucchi di donne, sulla strada, circondano montagne di tela: cuciono etichette di qualsiasi brand, eliminano fili con la pistola termica, infilano nei sacchetti 60mila paia di jeans al giorno.
Nei vicoli attorno si fa il resto: bottoni, cerniere, rivetti, filo. Colonne di camion scaricano rotoli di tessuto nei cortili e spariscono gonfi di merce.
Nessuno immagina, scivolando nei suoi denim con l'ambizione di un'originalità, di esibire l'ultimo emblema dello sfruttamento cinese di massa. Xitang è stato ridotto a essere la fucina unica dei jeans per due ragioni: nella regione vivevano milioni di persone disposte a lavorare per venti centesimi al giorno e nessuno si preoccupava per l'impatto delle fabbriche sulla natura. Da dieci anni nell'ex villaggio dei contadini e dei pescatori non cresce più niente di commestibile.
Vista dal satellite, la metropoli globale dei jeans è una nuvola rossa, percorsa da uno scheletro viola. Il vapore indica il carbone usato per alimentare le tessitorie, le ossa segnano gli scarichi tossici della tintura del cotone. Nella contea, in trent'anni, non è stato installato un solo depuratore. Sacrificare gli uomini e la terra per far sentire alla moda il mondo è il piatto servito in tavola. Grazie a Xitang il prezzo del casual è restato basso, è nato il guardaroba usa e getta e l'Occidente è stato conquistato dalle catene dei grandi magazzini arredati da albergo di charme.
Non è una favola a lieto fine.
Da alcune settimane l'epicentro cinese del jeans made in Usa è deserto.
L'era dei prezzi stracciati è finita. Offrire all'ingrosso pantaloni a 80 centesimi e t-shirt a 15 non basta più. Il clienti dell'Ovest non accettano nemmeno di coprire i costi. La crisi del vecchio consumismo demolisce il sistema-Xitang.
Gli operai reclamano salari che permettano di sopravvivere e lo sconvolgimento del clima proietta il valore del cotone alle stelle. Gli stilisti foderano i jeans in poliestere, impongono al gusto finiture lucide, ma i conti non tornano.
I materiali valgono più del prodotto e sui capannoni abbandonati sono affissi cartelli che offrono partite di denim a 5 centesimi il paio. In un anno il 40% delle tessitorie ha chiuso e 300mila lavoratori tornano a vagare per la Cina seguendo la corrente dei cantieri.
Se una famiglia europea o americana cambia un jeans in meno all'anno, il saccheggio del modello cinese implode. Nuovi Xitang risorgono altrove. Vietnam, Cambogia, Indonesia, India e Filippine offrono moda a costo di trasporto. Wei Xiaofeng, proprietaria del colosso che ci ha vestiti negli ultimi vent'anni, siede sola su un cumulo di rotoli di tela azzurra, destinata a trasfomarsi in isolante per i grattacieli di Kuala Lumpur.
L'impero della delocalizzazione si scopre vittima di se stesso e delocalizza. La Cina perde i jeans e Xitang chiude. Il mondo può ignorare il suo profilo riflesso in uno specchio. "
Da Donna di Repubblica
Stilinga crede che non comprare jeans fabbricati dai moderni schiavi/operai asiatici potrebbe non solo riequilibrare il commercio ma dare una bella stoccata ai committenti/brand che pascolano in un mondo senza regole in cui l'unico obiettivo è il profitto, a discapito dei lavoratori asiatici e di quelli europei e a discapito dell'ambiente e dei diritti umani.
E' tempo di cambiare i nosti singoli consumi e di riflettere bene prima di fare shopping.
Tutto questo oggi giorno è cruciale: se io non compro un jeans di un brand multinazionale, non solo faccio un favore all'ambiente (e al mio portafoglio) ma anche al mio paese e contribuisco ad equilibrare questa globalizzazione non solo malata, ma tossica, perversa e dittatoriale.
Nuovo trend: Pellicce a Milano
E' il nuovo trend: pelliccia!
Milano si è improvvisamente svegliata con voglia di pelliccia e le donne in giro magari sfoggiano i modelli che hanno acquistato in passato e sono forse in attesa di comprarne di nuovi anche per il prossimo inverno.
Un modello in una vetrina nel quadrilatero della moda.
Milano si è improvvisamente svegliata con voglia di pelliccia e le donne in giro magari sfoggiano i modelli che hanno acquistato in passato e sono forse in attesa di comprarne di nuovi anche per il prossimo inverno.
Un modello in una vetrina nel quadrilatero della moda.
Milano si sta Armanizzando
Stilinga è appena rientrata da un viaggetto lavorativo a Milano dove tra le altre cose ha notato l'esplosione di negozi Armani, Armani donna, Armani casa, Emporio Armani, EA, etc.
Ma la cosa sconcertante è il nuovo Hotel Armani che è in costruzione direttamente sopra il mega mall Armani di Via Manzoni.
I due piani a specchio svettano in alto, sovrastando gli edifici contigui e rovinando lo skyline di quella parte così centrale della capitale della moda.
Stilinga ha avuto una intossicazione "armaniana": lo shop Armani, il palazzetto di Armani Casa, il mall, il futuro Hotel...si capisce il concetto lifestyle, ma da Armani capiscono il concetto il troppo stroppia?
Ma la cosa sconcertante è il nuovo Hotel Armani che è in costruzione direttamente sopra il mega mall Armani di Via Manzoni.
I due piani a specchio svettano in alto, sovrastando gli edifici contigui e rovinando lo skyline di quella parte così centrale della capitale della moda.
Stilinga ha avuto una intossicazione "armaniana": lo shop Armani, il palazzetto di Armani Casa, il mall, il futuro Hotel...si capisce il concetto lifestyle, ma da Armani capiscono il concetto il troppo stroppia?
Mostra all'ambasciata di Francia: Palazzo Farnese, Roma
Stilinga ha recentemente visitato la mostra, realizzata a Roma ed intitolata:
"PALAZZO FARNESE - Dalle collezioni rinascimentali ad Ambasciata di Francia”.
E' stata un'occasione per visitare almeno una parte di Palazzo Farnese, che Stilinga ha per anni visto solo da fuori.
L'organizzazione lascia molto a desiderare, le didascalie sono scarne, l'illuminazione forse giustamente bassa, ma i riflessi sui quadri schermati da vetro magari si potevano evitare, l'audioguida riporta ogni visitatore all'infanzia e fa perdere concentrazione visiva e spaziale, della serie o ascolti cosa dice o vedi quello che ti propongono, coordinare le due cose è faticoso ed inutile in quanto da adulta Stilinga poteva benissimo leggersi le didascalie invece che ascoltarle da bimba con l'audioguida.
Inoltre, la disposizione di quadri davvero importanti (Tiziano e El Greco) è errata e sacrificata, mentre una stanza è adibita ad esaltare il lavoro degli intellettuali francesi (ai più sconosciuti) che si sono avvicendati a Palazzo Farnese!
La vera goduria sono la sala di Michelangelo e l'affresco di Carracci, nella sala della musica. Quest'ultima sala è da togliere davvero il fiato e se avessero messo dei divani per ammirare l'affresco sul soffitto sarebbe stato anche adeguato visto che a forza di stare con il naso all'insù si perde equilibrio.
Comunque delude lo stato pessimo di conservazione del palazzo, che deve essere restaurato (forse coi soldi raccolti per questa mostra), il colore triste e deprimente con cui hanno intonacato le pareti del Palazzo e la pessima organizzazione (antipatici i dipendenti): si deve prenotare, ma accettano anche i non prenotati, devi lasciare tutto all'arrangiatissimo guardaroba posizionato nel cortile all'addiaccio, non puoi soffermarti più di tanto su nulla, altrimenti si blocca il flusso dei visitatori, se poi si va in visita in gruppo, l'ambasciata impone che le spiegazioni siano fatte dalla propria guida francese (pagando un costo in più) altrimenti la guida del gruppo non può fiatare, può solo accompagnare il gruppo e ascolare l'audioguida.
Insomma per visitare un palazzo romano ma in territorio francese si deve subire qualche angheria e fa male vedere come poco si esaltino i più grandi pittori del mondo.
"PALAZZO FARNESE - Dalle collezioni rinascimentali ad Ambasciata di Francia”.
E' stata un'occasione per visitare almeno una parte di Palazzo Farnese, che Stilinga ha per anni visto solo da fuori.
L'organizzazione lascia molto a desiderare, le didascalie sono scarne, l'illuminazione forse giustamente bassa, ma i riflessi sui quadri schermati da vetro magari si potevano evitare, l'audioguida riporta ogni visitatore all'infanzia e fa perdere concentrazione visiva e spaziale, della serie o ascolti cosa dice o vedi quello che ti propongono, coordinare le due cose è faticoso ed inutile in quanto da adulta Stilinga poteva benissimo leggersi le didascalie invece che ascoltarle da bimba con l'audioguida.
Inoltre, la disposizione di quadri davvero importanti (Tiziano e El Greco) è errata e sacrificata, mentre una stanza è adibita ad esaltare il lavoro degli intellettuali francesi (ai più sconosciuti) che si sono avvicendati a Palazzo Farnese!
La vera goduria sono la sala di Michelangelo e l'affresco di Carracci, nella sala della musica. Quest'ultima sala è da togliere davvero il fiato e se avessero messo dei divani per ammirare l'affresco sul soffitto sarebbe stato anche adeguato visto che a forza di stare con il naso all'insù si perde equilibrio.
Comunque delude lo stato pessimo di conservazione del palazzo, che deve essere restaurato (forse coi soldi raccolti per questa mostra), il colore triste e deprimente con cui hanno intonacato le pareti del Palazzo e la pessima organizzazione (antipatici i dipendenti): si deve prenotare, ma accettano anche i non prenotati, devi lasciare tutto all'arrangiatissimo guardaroba posizionato nel cortile all'addiaccio, non puoi soffermarti più di tanto su nulla, altrimenti si blocca il flusso dei visitatori, se poi si va in visita in gruppo, l'ambasciata impone che le spiegazioni siano fatte dalla propria guida francese (pagando un costo in più) altrimenti la guida del gruppo non può fiatare, può solo accompagnare il gruppo e ascolare l'audioguida.
Insomma per visitare un palazzo romano ma in territorio francese si deve subire qualche angheria e fa male vedere come poco si esaltino i più grandi pittori del mondo.
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