I delusi del lavoro: la flessibilità non ha vinto, torna la richiesta del posto fisso

Il sondaggio. Più di due italiani su tre pensano che abbia ancora senso celebrare il Primo maggio. E nell'indagine Demos-Coop oltre il 70 per cento è a favore del ripristino dell'articolo 18

da: http://www.repubblica.it/economia/2017/04/29/news/i_delusi_del_lavoro_la_flessibilita_non_ha_vinto_torna_la_richiesta_del_posto_fisso-164159199/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1

Il "lavoro" rimane un riferimento importante per la nostra società. Così la "Festa del lavoro" del Primo maggio suscita sempre grande consenso. Lo conferma il sondaggio condotto, nei giorni scorsi, dall'Osservatorio sul Capitale sociale di Demos-Coop per Repubblica. Più di due italiani su tre ritengono, infatti, che "celebrare" il Primo Maggio abbia ancora senso. È un sentimento diffuso in tutta la popolazione. Senza chiare "esclusioni" ideologiche. E quindi anche fra gli elettori di centro-destra e di destra. Celebrare il lavoro, a questi italiani, appare tanto più significativo perché si tratta di una risorsa sempre più scarsa e dequalificata. Una larga parte degli intervistati, oltre 7 su 10, afferma di non aver percepito la ripresa. Secondo loro, l'occupazione non è mai ripartita. E se le statistiche dicono cose diverse, loro non se ne sono accorti. Semmai, pensano che si sia allargato il lavoro "nero". E, ancor più, il lavoro "precario". Ne sono convinti 3 italiani su 4. D'altra parte non c'è fiducia nella politica e nelle politiche. Nei risultati delle leggi approvate negli ultimi anni. Meno di 1 italiano su 10 pensa che il Jobs Act abbia prodotto effetti. Mentre l'abolizione dei voucher ha convinto quasi tutti gli intervistati. Ma del contrario: allargherà ancor più il lavoro nero e precario. Il "reddito di inclusione sociale", invece, per ora, lo conoscono in pochi.

Così, il lavoro resta un riferimento importante, per gli italiani. Almeno, per gran parte di essi. Che celebreranno il Primo Maggio con un sentimento di "attesa". L'attesa che il lavoro ritorni. D'altronde, si assiste a un mutamento sensibile dei progetti, professionali e di vita, tra gli italiani, rispetto agli ultimi anni. In particolare, ritorna, con forza, la richiesta del "posto fisso", soprattutto nel settore pubblico. Checco Zalone lo aveva colto - e narrato - con efficacia, nel suo film "Quo vado?", un anno e mezzo fa. Oggi quell'intuizione appare confermata dai dati di questo sondaggio. Che, a differenza del film di Zalone, non sono divertenti. L'indagine di Demos-Coop, infatti, ci racconta come, nell'ultimo anno, il clima d'opinione intorno alle professioni libere e liberali si sia sensibilmente raffreddato. La quota di persone che, per sé e i propri figli, vorrebbero un'attività in proprio o da libero professionista, infatti, è in calo. Di qualche punto. Mentre l'unica vera "ripresa" convinta, nell'ambito del lavoro e dei "lavori", riguarda, appunto, il "posto fisso". Sottolineato dalla crescente importanza attribuita agli Enti Pubblici. Tanto delegittimati (per non dire disprezzati), come soggetti e come istituzioni, quanto apprezzati, come sbocchi professionali. Si ripropone, dunque, uno scenario noto, in un passato recente. Quando il grado di attrazione di "un" lavoro, coincideva con il suo livello di "sicurezza". Intesa come "stabilità" e "continuità". Mentre la "flessibilità" piaceva agli imprenditori - e ai politici "liberisti". Ma non ai lavoratori. Per questa ragione è significativo il sostegno espresso, nel sondaggio Demos-coop, all'ipotesi di ripristinare l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, abrogando le modifiche apportate dal Jobs Act del governo Renzi. Questa proposta, avanzata dalla Cgil, come quesito da sottoporre a referendum, era stata bocciata dalla Corte costituzionale, lo scorso gennaio. Ma oggi, nel sondaggio, ottiene il consenso di 7 italiani su 10. È un indice ulteriore del livello di sfiducia e di incertezza che pervade la società nei confronti del lavoro. Soprattutto e tanto più, negli ultimi anni.

LE TABELLE

Tuttavia, alcuni segnali muovono in direzione diversa. Espressi, però da chi ha un lavoro. Ne indichiamo due, fra gli altri.

Il primo: le aspettative nel futuro. Cresce, infatti, la quota di lavoratori che scommettono su una situazione personale migliore, "nei prossimi 2-3 anni". Oggi è circa il 30%. Tuttavia, quasi un lavoratore su due ritiene che la propria condizione non cambierà. E per il 18% potrebbe, perfino, peggiorare. L'altro segnale in controtendenza riguarda la soddisfazione del lavoro svolto. Molto elevata, per il 55% del campione intervistato da Demos-Coop. Ma, comunque, più che sufficiente, per un altro 27%. Solo il 18% degli italiani, in definitiva, si ritiene insoddisfatto del lavoro svolto. Tuttavia, il problema riguarda "gli altri". La componente "esclusa" dal mercato del lavoro. A questo proposito è interessante il tratto generazionale che impronta l'insoddisfazione. Particolarmente marcata fra i "giovani-adulti". Coloro che hanno fra 25 e 34 anni. Nati fra i primi anni 80 e 90. Le fasce "anziane" dei Millennials. Ancora "giovani" e non ancora "adulti". In una società nella quale la giovinezza si prolunga sempre più, ma riflette dipendenza, rinvio dell'autonomia. I "giovani-adulti": non riescono ad affrancarsi dalla famiglia (non conviene), né a mettersi davvero in proprio. Oggi, si sentono più precari di alcuni anni fa. Sicuri che, se mai riuscissero a raggiungere la pensione, questa non basterebbe per vivere.

A loro, il lavoro appare un'esperienza meno soddisfacente rispetto agli altri. Anche perché, più degli altri, ne sono esclusi. Per questo, come gran parte della popolazione, ritengono che i giovani, per fare carriera, se ne debbano andare dall'Italia. E molti di essi se ne vanno davvero. Spesso non ritornano. La loro "insoddisfazione", peraltro, si è espressa anche politicamente, quando hanno bocciato, in massa, il referendum costituzionale.

I giovani-adulti: sono lo specchio di una società che invecchia senza accettarlo. Una società di finti-giovani.

Iphone? si, made by slaves




Com’è davvero lavorare in una fabbrica cinese dove si fanno gli iPhone: il racconto di un ex operaio


da: http://www.corriere.it/tecnologia/17_aprile_12/lavorare-una-fabbrica-iphone-incubo-0a9b1a22-1fa2-11e7-a630-951647108247.shtml




Uno studente svela su “Business Insider” le sue 6 settimane alla catena di montaggio di Pegatron, fornitore cinese di Apple: «12 ore al giorno ad avvitare le stesse viti»


di Antonella De Gregorio


Com’è lavorare in una fabbrica cinese che produce iPhone? Un inferno. Dodici ore al giorno di noia, turni massacranti, cibo scadente, poco riposo, controlli di sicurezza asfissianti. E, neanche a dirlo, nessuno spazio per lamentarsi. Lo ha raccontato Dejian Zeng, studente dottorando alla New York University, che ha svolto un tirocinio estivo di sei settimane alla Pegatron, una vera e propria città-fabbrica nella periferia di Shanghai. Pegatron è uno dei fornitori cinesi di Apple, tra le aziende che assemblano i prodotti della Mela. Business Insider ha raccolto la sua testimonianza: «Immaginate di andare a lavorare alle 7.30 ogni mattina, e di trascorrere dodici ore, pasti e pause compresi, all’interno di una fabbrica il cui vostro unico compito è quello di inserire una singola vite nella parte posteriore di uno smartphone, ripetendo l’operazione tutto il giorno, senza sosta, 1.800 volte al giorno». E alla fine del periodo di addestramento, viene consegnato un foglio di valutazione sul grado di istruzione ricevuta, ma «si è obbligati a dare punteggi superiori a 4 su una scala di 5».

La catena


Zeng ha raccontato nel dettaglio in cosa consisteva il suo lavoro: «Sono stato assegnato a una catena di montaggio nel reparto chiamato Fatp (Final Assembly, Test & Pack ovvero assemblaggio finale, test e confezionamento, ndr) . Una catena può avere anche cento stazioni e ognuna ha una funzione precisa. Io ho iniziato lavorando sugli iPhone 6, poi sono passato agli iPhone 7. Mi dovevo occupare di fissare lo speaker alla scocca del telefono». All’inizio doveva mettere grande concentrazione nel suo lavoro, racconta, per raggiungere la velocità della linea di montaggio. Ma una volta presa la mano, il lavoro è diventato terribilmente ripetitivo e noioso: «Non c’è tempo di pensare a niente. Devi essere solo veloce. Preciso e veloce. Arrivi a farlo anche ad occhi chiusi, non è difficile, ma alienante». Vietato ascoltare musica, distrarsi, parlare con i colleghi. Ogni due ore, una pausa di dieci minuti. «Durante la pausa molti dormono - racconta lo studente - . Se si vuol bere o andare in bagno, bisogna decidere a cosa dare priorità perché non si può sgarrare sui tempi». Per il pranzo, pausa di 50 minuti: nel piatto panini o noodles. A volte un frutto in aggiunta. «Il cibo non è di qualità ed è a pagamento», dice il ragazzo. «Tutti mangiano in un’unica grande mensa. E c’è chi si affretta a mangiare per poter strappare qualche minuto per un pisolino. Ma non puoi farti trovare a dormire: puoi essere ripreso, per questo».




Grande fratello


C’è un’app che Pegatron, secondo Zeng, ha sviluppato con Apple. Tutti i lavoratori sono obbligati a scaricarla ed è stata introdotta per «migliorare la qualità del lavoro». Registra tutto: pause, velocità di esecuzione, assenze, ritardi. Dati che vengono poi esposti alla catena di montaggio. I superiori controllano e possono rimproverare il lavoratore poco efficiente o togliergli denaro dallo stipendio. E ancora: ogni giorno tutti i dipendenti passano attraverso un metal detector, per impedire che attrezzature e materiali escano dalla fabbrica e stroncare così i tentativi di spionaggio industriale. Gli operai si dispongono in fila, all’ingresso, per il controllo dei badge e per evitare intrusioni sono previsti anche controlli facciali. Gli stipendi, se non ci si piega a fare gli straordinari, sono molto bassi.

Come in caserma


Le condizioni di vita ricordano quelle delle caserme: docce in comune (e spesso manca l’acqua calda), stanze sovraffollate, pulizie sommarie. Zeng dormiva con altre sette persone in un dormitorio che raggiungeva con una navetta, alla fine del turno di lavoro. Arrivati in stanza, l’unico svago era guardare un film sul telefonino («anche se il wi-fi non funziona bene»). Per il suo lavoro, nel primo mese è stato pagato 3100 yuan, circa 425 euro, straordinari compresi.

Controlli


La fabbrica cinese Pegatron entrò nelle cronache di tutto il mondo nel 2013, quando il China Labor Watch, che monitora le condizioni di lavoro nelle fabbriche cinesi, ha pubblicato un rapporto spiegando come l’azienda forzasse i suoi operai a condizioni di lavoro estenuanti, contrarie alla legge cinese e al codice di comportamento che Apple fa sottoscrivere ai suoi fornitori esterni. L’organizzazione aveva anche chiesto l’apertura di un’indagine su alcune morti sospette all’interno della fabbrica, legate, secondo gli attivisti, alle difficile condizioni di lavoro. Da allora, Apple ha effettuato controlli e ottenuto aumenti salariali, negli ultimi cinque anni, di oltre il 50%, tetti alle ore di straordinario e miglioramento delle condizioni di lavoro. Ogni anno Apple pubblica un dettagliato «Report annuale sulla responsabilità dei fornitori»: da poco sul sito ufficiale è comparsa l’ultima edizione.

Produzione


Come molti big della tecnologia, il colosso di Cupertino appalta la produzione di quasi tutti i suoi computer e telefoni a fornitori cinesi, come Pegatron. Un tema che è diventato anche politico, da quando Trump ha chiesto di riportare la produzione - e i posti di lavoro - negli Stati Uniti. Quanto a Zeng, che nel periodo trascorso alla Pegatron si aspettava da un momento all’altro di assistere a una protesta o uno sciopero (che non si sono mai verificati), dopo l’esperienza in Cina ha deciso di dedicarsi alla difesa dei diritti umani: «Non mi pentirò mai di aver scelto questa carriera», ha dichiarato.