Grecia: il discorso di Tsipras che proclama il referendum (in Italiano)

da: http://cambiailmondo.org/2015/06/27/grecia-il-discorso-di-tsipras-che-proclama-il-referendum-in-italiano/


Tsipras10Il testo in italiano del proclama di Tsipras per il referendum.
Venerdì notte 26 giugno 2015
 
Greche e greci,
da sei mesi il governo greco conduce una battaglia in condizioni di
asfissia economica mai vista, con l’obiettivo di applicare il vostro mandato del 25 gennaio a trattare con i partner europei, per porre fine all’austerity e far tornare il nostro paese al benessere e alla giustizia sociale. Per un accordo che possa essere durevole, e rispetti sia la democrazia che le comuni regole europee e che ci conduca a una definitiva uscita dalla crisi.
In tutto questo periodo di trattative ci è stato chiesto di applicare gli accordi di memorandum presi dai governi precedenti, malgrado il fatto che questi stessi siano stati condannati in modo categorico dal popolo greco alle ultime elezioni. Ma neanche per un momento abbiamo pensato di soccombere, di tradire la vostra fiducia.

Dopo cinque mesi di trattative molto dure, i nostri partner, sfortunatamente, nell’eurogruppo dell’altro ieri (giovedì n.d.t.) hanno consegnato una proposta di ultimatum indirizzata alla Repubblica e al popolo greco. Un ultimatum che è contrario, non rispetta i principi costitutivi e i valori dell’Europa, i valori della nostra comune casa europea. È stato chiesto al governo greco di accettare una proposta che carica nuovi  e insopportabili pesi sul popolo greco e minaccia la ripresa della società e dell’economia, non solo mantenendo l’insicurezza generale, ma anche aumentando in modo smisurato le diseguaglianze sociali.

La proposta delle istituzioni comprende misure che prevedono una ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, tagli alle pensioni, nuove diminuzioni dei salari del settore pubblico e anche l’aumento dell’IVA per i generi alimentari, per il settore della ristorazione e del turismo, e nello stesso tempo propone l’abolizione degli alleggerimenti fiscali per le isole della Grecia.

Queste misure violano in modo diretto le conquiste comuni europee e i diritti fondamentali al lavoro, all’eguaglianza e alla dignità; e sono la prova che l’obiettivo di qualcuno dei nostri partner delle istituzioni non era un accordo durevole e fruttuoso per tutte le parti ma l’umiliazione di tutto il popolo greco.

Queste proposte mettono in evidenza l’attaccamento del Fondo Monetario Internazionale a una politica di austerity dura e vessatoria, e rendono più che mai attuale il bisogno che le leadership europee siano all’altezza della situazione e prendano delle iniziative che pongano finalmente fine alla crisi greca del debito pubblico, una crisi che tocca anche altri paesi europei minacciando lo stesso futuro dell’unità europea.
 
Greche e greci,
in questo momento pesa su di noi una responsabilità storica davanti alle lotte e ai sacrifici del popolo greco per garantire la Democrazia e la sovranità nazionale, una responsabilità davanti al futuro del nostro paese. E questa responsabilità ci obbliga a rispondere all’ultimatum secondo la volontà sovrana del popolo greco.
Poche ore fa (venerdì sera n.d.t.) si è tenuto il Consiglio dei Ministri al quale avevo proposto un referendum perché sia il popolo greco sovrano a decidere. La mia proposta è stata accettata all’unanimità.
Domani (oggi n.d.t.) si terrà l’assemblea plenaria del parlamento per deliberare sulla proposta del Consiglio dei Ministri riguardo la realizzazione di un referendum domenica 5 luglio che abbia come oggetto l’accettazione o il rifiuto della proposta delle istituzioni.

Ho già reso nota questa nostra decisione al presidente francese, alla cancelliera tedesca e al presidente della Banca Europea, e domani con una mia lettera chiederò ai leader dell’Unione Europea e delle istituzioni un prolungamento di pochi giorni del programma (di aiuti n.d.t.) per permettere al popolo greco di decidere libero da costrizioni e ricatti come è previsto dalla Costituzione del nostro paese e dalla tradizione democratica dell’Europa.
 
Greche e greci,
a questo ultimatum ricattatorio che ci propone di accettare una severa e umiliante austerity senza fine e senza  prospettiva di ripresa sociale ed economica, vi chiedo di rispondere in modo sovrano e con fierezza, come insegna la storia dei greci. 

All’autoritarismo e al dispotismo dell’austerity persecutoria rispondiamo con democrazia, sangue freddo e determinazione.

La Grecia è il paese che ha fatto nascere la democrazia, e perciò deve dare una risposta vibrante di Democrazia alla comunità europea e internazionale.

E prendo io personalmente l’impegno di rispettare il risultato di questa vostra scelta democratica qualsiasi esso sia.

E sono del tutto sicuro che la vostra scelta farà onore alla storia della nostra patria e manderà un messaggio di dignità in tutto il mondo.

In questi momenti critici dobbiamo tutti ricordare che l’Europa è la casa comune dei suoi popoli. 

Che in Europa non ci sono padroni e ospiti. 

La Grecia è e rimarrà una parte imprescindibile dell’Europa, e l’Europa è parte imprescindibile della Grecia. 

Tuttavia un’Europa senza democrazia sarà un’Europa senza identità e senza bussola.

Vi chiamo tutti e tutte con spirito di concordia nazionale, unità e sangue freddo a prendere le decisioni di cui siamo degni. Per noi, per le generazioni che seguiranno, per la storia dei greci.
Per la sovranità e la dignità del nostro popolo.
Alexis Tsipras

Scuola, la riforma di destra (fatta da Renzi che dice di essere il presidente del PD, ex partito di sinistra, o meglio partito dalla sinistra ed andato a destra)

di Amalia Signorelli
da: http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/06/26/scuola-la-riforma-di-destra/1819530/
A mio modo di vedere la cosiddetta riforma della scuola è, tra le ‘belle’ innovazioni partorite da Renzi e dal suo governo, la più carica di conseguenze nefaste per l’Italia. Due premesse: al di là delle rituali giaculatorie sull’importanza della scuola, rimane il fatto che l’istruzione di massa è il più potente strumento di autoriproduzione o di automodifica non cruenta che una società moderna possiede. E’ a scuola che ciascuno di noi ha imparato a ragionare (o a mal ragionare) e ha imparato i contenuti e i modi del suo ragionare, che per altro porterà con sé per tutta la vita. (Non sottovaluto la famiglia, ma qui sto tentando un altro discorso).
Ma – seconda premessa – proprio per questo suo potere riproduttivo o innovativo, la scuola ‘buona’ o ’bella’ non esiste. Non esiste in sé. Esistono solo modelli specifici di istruzione buoni per riprodurre una determinata società o per modificarne un’altra in una determinata direzione. E non si tratta solo di contenuti (più matematica o più musica): si tratta di valori. Scuola autoritaria o permissiva, meritocratico-competitiva o cooperativa, conformizzante o diversificante, scuola che incoraggia le parità di genere o ignora il problema. E così via.
E’ per questo, per essere sempre la realizzazione di un progetto, che comunque la scuola, ogni scuola, è sempre anche il frutto di scelte e decisioni politiche. Non esiste la scuola neutra.
Di queste due premesse la sinistra italiana non ha mai tenuto molto conto: dimenticando Gramsci, ha sempre ritenuto che il Ministero del Lavoro fosse più strategico di quello della Pubblica Istruzione.
Tuttavia l’Italia repubblicana ha avuto un modello di scuola coerente con il suo modello di società: è quello tracciato nella Costituzione. E’ una scuola tesa al massimo verso un modello di cittadinanza egualitaria e libera. E’ una scuola laica, nettamente non confessionale, aperta a tutti; è obbligatoria e gratuita fino al massimo livello di età che lo Stato ritiene di poter garantire a tutti; e coloro che, senza mezzi, dimostrano capacità e impegno, avranno sostegni per andare oltre.
Gli insegnanti sono selezionati attraverso concorsi; il relativamente alto grado di autonomia di cui gode[va]no nell’esercizio delle loro funzioni nasce[va] dal convincimento del Costituente che la professione dell’insegnante sia di quelle che possono essere regolate solo dalla scienza e coscienza da chi le esercita.
La scuola deve essere dunque un potente strumento di uguaglianza, di acquisizione uguale per tutti degli strumenti di base della partecipazione sociale, civile, economica e politica alla vita del proprio paese
Pertanto l’omogeneità degli ordinamenti e dei programmi non è un’imposizione autoritaria, ma uno strumento di produzione di uguaglianza. Questa bella scuola poteva essere fatta crescere, come dimostrò la istituzione della Scuola media unica (1961).
Ma poiché a scuola impariamo a ragionare, in questa scuola si ragionava troppo perché potesse piacere a quei gruppi di potere che aspirano al controllo monopolistico sul ragionamento dei cittadini. 
Avanti allora a distruggere la scuola pubblica: diminuzione relativa progressiva dei salari e perdita di prestigio di una professione femminilizzata e mal pagata; diminuzione relativa progressiva dei fondi per le attrezzature e per l’edilizia; piccole riforme , il cui unico scopo era l’introduzione progressiva di elementi confessionali nel sistema- scuola d’Italia; fino ai trionfi morattiani e gelminiani.
In verità Renzi, con questa “riforma di destra” (Schifani dixit) ha portato avanti il lavoro ‘sporco': ha introdotto tra i compiti della scuola quello di produrre per le aziende un poco addestrato ma permanente esercito di riserva, il cui compito non è tenere bassi i salari, ma dimostrare che non necessariamente il salario è un diritto di chi lavora. Quanto agli insegnanti, la loro scienza e coscienza è una moneta che non ha più corso. Fannulloni e inconcludenti, un sistema di bastone e carota provvederà a rimetterli in carreggiata, mentre i più disponibili e volonterosi diverranno i/le favoriti/e dell’ormai celebre preside sceriffo. E saranno esempi virtuosi per i loro alunni.
Ma non è tutto questo il peggio, anche se, lo confesso, centinaia di migliaia di docenti in piazza mi aveva fatto sperare che andasse un po’ meglio.
No, la cosa per me agghiacciante, è il doppio ricatto con il quale la ‘riforma’ è stata portata a compimento. Ai docenti: o fate come dico io o dite addio alle immissioni in ruolo. E ai parlamentari del Pd: o fate come dico io o dite addio alla poltrona. Con una differenza: i docenti continuano a dire di no; i parlamentari hanno scoperto di avere un altissimo senso della responsabilità che impedisce loro di provocare una crisi di governo “che in questo momento l’Italia non può permettersi”. Gli “irresponsabili” sono stati quattro, ai quali va la mia stima.
Visto che il Parlamento serve sempre a meno, a quando la sua trasformazione in Assemblea dei parlamentari muti?
P.S. Cara ministra Boschi, se le fa piacere, può anche dirmi che houn’allucinazione.

Il tempo è ora, anzi siamo già oltre

Il tempo è ora


da: http://listatsipras.eu/blog/item/2997-il-tempo-e-ora-documento-politico-approvato-dal-comitato-nazionale-del-21-giugno-2015.html

Domenica scorsa, 21 giugno, si è tenuta a Roma una riunione del Comitato nazionale de L’Altra Europa con Tsipras, conclusasi con l’approvazione di un documento in cui viene riproposto il tema dell’avvio di «un processo costituente» per la costruzione di una forza e di una soggettività politica nuova che «abbia l'ambizione di essere alternativa al quadro politico esistente, a quello delle larghe intese tra popolari e socialisti in Europa, e a quello italiano in cui il renzismo ha ormai cancellato non solo le figure ma il concetto stesso della tradizione di sinistra».
«Abbiamo detto già molte – troppe – volte che “il tempo è ora”. Dobbiamo dire oggi che “siamo già oltre”». Questa la convinzione dell’Altra Europa con Tsipras, che chiede a tutti i suoi interlocutori politici e sociali, anche ad importanti personalità, un «pubblico impegno», solenne, prima del mese di agosto, a dare concretamente inizio ad «un processo partecipato e democratico, ampio, includente, capace di coinvolgere la moltitudine estesa di chi non sopporta più lo stato di cose esistente e non vuole limitarsi alla testimonianza». Ciò, anche in considerazione del fatto che «l’unico antidoto in grado di resistere alla deriva fascistoide e alla mobilitazione del disumano dentro la crisi europea è l’esistenza di una sinistra forte, radicata e radicale, determinata e con chiarezza alternativa all’intero paradigma neo-liberista».
«L’adesione a tale processo di tutte le esperienze organizzate che si  muovono alla sinistra del PD - prosegue il documento - ne è la condizione necessaria, perché senza un segnale di superamento dell’attuale frammentazione non c’è credibilità. Ma non sufficiente, perché senza la costruzione di una road map fatta soprattutto di lotte e mobilitazioni, e senza un radicamento sociale, non si uscirebbe dall’ambito penitenziale della irrilevanza. Per questo il “tavolo” con cui lavorare dovrà essere ampio, molto più esteso di noi, di quello costituito dalle sole forze politiche organizzate e dei nostri tradizionali interlocutori. E non dovrà stare nel chiuso di una stanza, ma estendersi ai “luoghi della vita” e ai territori. In quella sede si definiranno le tappe e le caratteristiche del processo costituente, che non potrà ricalcare le forme verticistiche e pattizie di esperienze come "Sinistra Arcobaleno" o "Rivoluzione civile", ma riprendere l'ispirazione che ci ha unito nel progetto dell'Altra Europa con Tsipras».
In questo senso dovrà essere chiaro l’ancoraggio alla dimensione europea ed internazionale: «costruiamo questo processo in una cornice esplicitamente internazionale, nello spazio europeo in cui si muovono forze come Syriza e Podemos, con le quali giungere a esplicite dichiarazioni d’intenti comuni». Riguardo alla forma politica, l’idea è che «la casa comune dovrà tenere insieme forme diverse del fare politica, dell'agire sociale e culturale, della costruzione della rappresentanza, della democrazia diretta, della partecipazione e costruzione del conflitto e delle pratiche mutualistiche. Dunque non un partito unico ma una casa in cui stiano insieme molteplici forme di attivazione e di adesione».
«Spetta a noi - conclude il documento - che ci siamo posti fin dall’inizio il problema della rappresentanza politica come nodo cruciale della crisi  di sistema italiana, la responsabilità, grande, di lavorare per superare l’ostacolo dei molteplici progetti concorrenziali a sinistra e creare le condizioni di una coalizione politica e sociale capace di competere – come in Grecia e in Spagna - per una reale alternativa di governo».

Grecia, la mossa di Tsipras: "Il 5 luglio referendum sulla proposta dei creditori"

da: http://www.repubblica.it/economia/2015/06/27/news/grecia_tsipras_il_5_luglio_referendum_sulla_proposta_dei_creditori_-117794659/?ref=HREC1-1

ATENE
 - La svolta drammatica nella crisi greca arriva a ridosso della mezzanotte. Alexis Tsipras annuncia che "il popolo sarà chiamato" domenica 5 luglio a votare il referendum sulla proposta dei creditori. 

Il premier ellenico ha detto di essere stato costretto a indire la consultazione perchè i partner dell'Eurogruppo hanno presentato un ultimatum alla Grecia che è contro i valori europei per cui "siamo obbligati a rispondere sentendo la volontà dei cittadini". 

In un discorso televisivo dai toni enfatici, afferma: "Ci hanno chiesto di accettare pesi insopportabili che avrebbero aggravato la situazione del mercato del lavoro e aumentato le tasse".

Per Tsipras l'obiettivo di alcuni dei partner europei è proprio l'umiliazione dell'intero popolo greco. 

L'annuncio alla nazione dopo una riunione di emergenza, nella notte, del governo. Durissimo il ministro dello Sviluppo, Panayiotis Lafazanis, che ha chiesto alla nazione di votare contro il piano internazionale voluto dai creditori. 

Stessa posizione espressa anche dal portavoce di Syriza in Parlamento. Un altro dei protagonisti di questi drammatici mesi di trattativa, il ministro dell'Economia Yanis Varoufakis, interviene invece con un tweet sul filo dell'ironia ("Buffo quanto suoni radicale il concetto che sia il popolo a decidere").


L'EMERGENZA FINANZIARIA. Il vicepremier, George Katrougkalos, ha assicurato che il governo greco "non chiuderà le banche lunedì e non saranno introdotti controlli sui capitali". E ha annunciato: "Il collega Yannis Dragasakis ed il caponegoziatore Euclid Tsakalotos vedranno oggi il presidente della Bce, Mario Draghi". Il capo negoziatore greco, Euclides Tsakalotos, ha aggiunto che il premier ha parlato con Draghi e che il presidente della Bce ha dimostrato comprensione per la scelta del referendum. Nessuna dichiarazione, finora, da Francoforte.

Tsipras ha aggiunto che chiederà un'estensione di pochi giorni del programma di salvataggio della troika (Bce-Ue-Fmi), che scade il 30 giugno, per poter arrivare senza problemi a tenere il referendum del 5 luglio. Ma l'annuncio del referendum ha riaccelerato in piena notte la corsa dei greci ai bancomat. La banca Alpha ha addirittura sospeso le contrattazioni online secondo quanto riferisce lo stesso sito web dell'istituto, per impedire di spostare i soldi su altri conti.

L'OPPOSIZIONE. Tutta l'opposizione greca critica aspramente Tsipras per la scelta di ricorrere al referendum sostenendo che questa mossa porterà il Paese fuori dall'Europa. Il Pasok chiede le dimissioni del premier. I centristi di Potami rimproverano a Tsipras di non aver combattuto la sua battaglia nel cuore delle istituzioni europee. Per i conservatori di Nea Dimokratia il premier è un irresponsabile che ha portato la Grecia al totale isolamento nell'Unione.

E Stilinga pensa che finalmente il popolo greco potrà dire la sua, visto per anni hanno subito gli ordini di Bruxelles.

Oggi si apre il «club segreto» Bilderberg. Cinque italiani nella lista (c’è anche Lilli Gruber)

da: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-06-11/oggi-si-apre-club-segreto-bilderberg-quest-anno-incontro-austria-cinque-italiani-lista-115435.shtml?uuid=ABC54dwD&refresh_ce

Si apre oggi e si concluderà giovedì il nuovo incontro del gruppo Bilderberg, che riunisce ogni anno leader politici, rappresentanti dell'economia e del mondo accademico, quest'anno ha fissato la sua riunione in Austria, a Telfs-Buchen (vicino Innsbruck). Con l'obiettivo di “promuovere il dialogo tra Europa e America del Nord” sono stati invitati 140 partecipanti provenienti da 22 Paesi. Tra gli invitati politici ci sono il primo ministro del Belgio, Charles Michel, il numero uno dell'Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, il presidente dell'Austria, Heinz Fischer, e il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Cinque gli italiani nella lista del partecipanti. In ordine alfabetico, il manager Franco Bernabè, il presidente di Fca John Elkann, la giornalista Lilli Gruber, l'ex commissario Ue ed ex premier Mario Monti e il numero uno di Techint Gianfelice Rocca. 

A presiedere il Bilderbeg Group è Henri de Castries, patron del gruppo assicurativo francese, Axa.

(Pensiero di Stilinga in merito: "E ora è tutto più chiaro e caro: in Italia le assicurazioni sono le uniche che hanno guadagnato fior fiori di soldi, i caf si sono dovuti assicurare per il 730 precompilato - ma l'Agenzia delle Entrate a che serve se invia i moduli sbagliati? e la paghiamo pure per non fare il suo lavoro per il popolo sovrano???? - e pure i commercialisti si sono dovuti assicurare, per non parlare delle banche che col mutuo obbligano i clienti a sottoscrivere le assicurazioni. A lume di naso il governo Renzi è assoldato dalla lobby delle assicurazioni.)

L'evento è stato commentato anche dal cancelliere tedesco, Angela Merkel, che alle domande dei giornalisti al termine del vertice del G7, ha risposto: «No, io non ci andrò ma auguro loro comunque buon lavoro».

Per essere il club “segreto” che (dopo il G20 e l'Assemblea annuale dell'Onu) raccoglie le persone più potenti del mondo, il Bilderberg Group - anche nell'edizione 2015 è particolarmente affollato di giornalisti e commentatori. Ma il vincolo alla riservatezza è così forte che anche quest'anno prevedibilmente non filtrerà una sola riga sui temi affrontati e le posizioni emerse nelle giornate di dibattito libero, che sono la caratteristica di questi vertici informali: come da tradizione, infatti, non c'è nessuna agenda e l'unica regola valida è quella di “Chatam House" ovvero i contenuti degli incontri possono essere utilizzati o riferiti senza però rivelare l’identità o l’appartenenza di chi li ha espressi. Ma questo basta a scatenare le fantasie dei complottisti.

(E Stilinga pensa che nonostante la segretezza, gli effetti delle stolte, idiote e miopi decisioni di questi cretini che si credono potenti sono visibili a tutti: disuguaglianze a zaffate, povertà, tassazione assurda, nessuna crescita economica, disastro ambientale, migrazione forzata, paura esasperata che potrebbe generare razzismo diffuso, guerra tra poveri, idioti al potere in quasi tutti gli stati europei, Isis che impazza, mafie di ogni genere, schiavismo diffuso, nessuna visione armoniosa sulla vita e il mondo va a rotoli)

Nello scarno sito ufficiale, peraltro, si ricorda come fino agli anni Novanta le conferenze annuali erano precedute da una conferenza stampa, ma questa prassi è stata cancellata - si legge - «per mancanza di interesse».

Una affermazione bizzarra se si considera la massa di pubblicistica (libri, articoli, servizi tv) prodotta intorno a questi incontri, che prendono il nome dall'hotel olandese dove nel 1954 si svolse il primo incontro, per iniziativa di un politico polacco in esilio, Józef Retinger, che riuscì a coinvolgere il principe Bernardo di Olanda, il premier belga Paul Van Zeeland e il capo di Unilever Paul Rijkens.

L'Italia ha ospitato tre vertici (Cernobbio nel 1965 e nel 1987 e Stresa nel 2004) mentre le delegazioni hanno incluso, nel tempo, Mario Draghi o Ignazio Visco, Romano Prodi ed Enrico Letta, Carlo De Benedetti o Gianni Agnelli, ma mai - tanto per fare un esempio - Silvio Berlusconi.

 Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/E5Xdo3

Allora cretinetti del Bilderberg cosa ci avete preparato per il prossimo futuro?

E giusto per puntualizzare: noi (tutti i cittadini) siamo di più e siamo potenti e voi potete perdere tempo a riunirvi in luoghi che rimandano ai gusti dei gerarchi  nazisti e a Hitler, e ad immaginare qualsiasi scenario, tanto poi la vita va come pare a lei e le vostre idee sono solo illusorie. Aspettatevi la grande delusione!

Monedero: “Egemonia e conflitto, le parole magiche per un nuovo inizio”

da: http://temi.repubblica.it/micromega-online/monedero-%E2%80%9Cegemonia-e-conflitto-le-parole-magiche-per-un-nuovo-inizio%E2%80%9D/

intervista a Juan Carlos Monedero di Matteo Pucciarelli
Si possono dire cose di sinistra, molto di sinistra, senza mai parlare della sinistra? Si può scrivere un saggio su cosa significhi oggi essere di sinistra – quali valori, quale tensione ideale, quali sentimenti, quali emozioni – senza nominare praticamente mai la parola “sinistra”? 

Ci riesce bene Juan Carlos Monedero, 52 anni, professore di Scienza Politica alla Complutense di Madrid, con il suo libro Corso urgente di politica per gente decente, appena uscito per Feltrinelli. Ci riesce come ci sta riuscendo Podemos, il movimento (oggi partito) di cui è stato fondatore e ideologo insieme a Pablo Iglesias un anno e mezzo fa; partito ago della bilancia della politica spagnola e capace di conquistare pochi giorni fa i comuni di Madrid e Barcellona, strappati alla destra del Partito popolare dopo decenni. 

Così, per capire come abbia fatto Podemos a sfondare ben oltre i recinti classici della sinistra radicale, bisogna ascoltare questo ex consulente del governo di Hugo Chavez appassionato di Antonio Gramsci (e anche di Marx. Ospite alla Fondazione Feltrinelli chiede e ottiene di sfogliare una delle prime copie del Manifesto del partito comunista). Tutto quanto – spiega – «ruota attorno al fare egemonia

Alla necessità di sovvertire il modello di pensiero individualista e consumista imposto dal neoliberismo. Ci hanno rubato le parole. Giocano con le parole e ad esempio la precarietà diventa “flessibilità”. Ci hanno rubato la Politica, con la democrazia che oggi è solo un esercizio di cinque minuti con la matita ogni cinque anni».
 I socialisti del Psoe hanno attaccato per mesi il neonato movimento, liquidandolo come “populista”.

«Ma non sempre il populismo è un fenomeno negativo, è un momento di crisi della democrazia rappresentativa che fa appello al popolo. A questa crisi noi rispondiamo con due parole: uguaglianza e diritti». 

Quando Monedero militava in Izquierda Unida, la storica coalizione delle sinistre radicali spagnole e che include il Partito comunista, le sue riflessioni sul come trasformare valori in emozioni capaci di mobilitare, di scatenare una reazione – cosa che i partiti classici non fanno più da anni – «vennero bollate come romanticismo, discorsi da omosessuali». E invece – ragiona – bisogna ripartire proprio da lì, dalle basi, dai comportamenti che qualificano davvero cosa è sinistra e cosa no. Ci si salva da soli oppure insieme agli altri? L’uomo per sua natura tende all’egoismo, una autoselezione della specie dove il più debole soccombe, oppure è capace di cooperare, di godere solo se può farlo anche chi ti sta a fianco? 

«Senza politica siamo un uccello migratore solitario, privo del riferimento degli altri. La politica – scrive Monedero – è autoaiuto collettivo. Il noi del nostro io. La lingua che ci permette di parlare a noi stessi ma che è nata per essere dialogo. All’inizio era un gesto, uno sguardo, una mano agitata (“aiutami”), poi divenne una parola che riassumeva il gesto, lo sguardo implorante, la mano agitata che chiamava (“aiutami!”). L’autoaiuto individuale si differenzia da quello collettivo perché presuppone un’esitazione codarda di fronte alla vita. Il coraggio è un grande apripista». 

Il successo di Podemos è figlio del movimento degli Indignados e del 15-M, riuscito a portare in piazza centinaia di migliaia di persone, spesso senza alcuna militanza alle spalle; ma pure del coraggio di rompere gli schemi e i legami con le vecchie organizzazioni, sia sindacali che di sinistra. «Scegliemmo le Europee per lanciarci perché sono considerate elezioni di serie B. E non saremmo stati accusati di voler rompere l’unità della sinistra. Prendemmo l’8 per cento a sorpresa e il giorno dopo facemmo le facce nere, tristi: “Non basta. Noi vogliamo conquistare la maggioranza”. Fu un messaggio fortissimo. Il muro del bipolarismo non si è ancora rotto. Ma è apparsa una crepa che ogni giorno diventa più grossa», continua Monedero. 

“Egemonia”, appunto, è la parola magica. L’ambizione cioè di incarnare non una nuova opzione politica; ma semmai un contenuto valoriale in antitesi rispetto “al mondo che va alla rovescia”; che va alla rovescia ma nonostante questo viene presentato come l’unico possibile

«La vittoria neoliberista è esattamente questa: aver costruito dei binari sui quali anche la sinistra per molto tempo si è piegata a correre»; così che ci fosse il centrodestra o il centrosinistra al governo cambiava poco. Privatizzazioni, “riforme” del mercato del lavoro, i mercati come entità divine intoccabili e incontrollabili, il rigore a dispetto dell’umanità, il consumo come ciò che ti rende cittadino, la libertà che si riduce alla scelta dentro uno scaffale, che sia di un supermercato che sia elettorale. Ma per ricreare una maggioranza occorre riscoprire il conflitto. 

«Politicizzare qualcosa significa portare alla coscienza delle persone il conflitto inevitabile fra gli interessi di individui e gruppi e gli interessi del resto della collettività. L’uomo – sottolinea Monedero – si muove spinto dal desiderio, che nasce a sua volta dall’imitazione, ma il desiderio può realizzarsi solo nella vita sociale. Il conflitto non può essere risolto in maniera radicale privilegiando l’uno o l’altro dei due estremi, ma solo raccogliendo poco alla volta il consenso della maggioranza. Se tutti radicalizzassimo la nostra condizione di individui ci troveremmo di fronte al minimo della politica». 

Lo studio dell’America Latina è stato fondamentale per creare Podemos, continua il professore. Perché lì, a differenza della società europea, non avevano più nulla da perdere: il neoliberismo degli anni ’80 e ’90 si era già mangiato tutto. «Mentre in Europa ci si aggrappa a ciò che si ha, timorosi di perderlo», e da qui la conservazione come attitudine mentale. Sempre da laggiù Podemos ha introiettato altre considerazioni: parlare di destra e sinistra non aveva ormai senso, molto più chiaro il basso contro l’alto; il proletariato in sé non esisteva più, così frammentato e confuso, il ruolo centrale della classe operaia è un concetto ormai passato. I partiti non bastavano, piegati su se stessi: occorreva saldarsi con i movimenti. 

Si arriva persino a parlare di cinema, a come il “sistema” infili dei messaggi ben precisi dove neanche te lo immagini. «Il popolo che reagisce è criminale. Anche se ne ha tutte le ragioni. Il popolo perbene se ne sta a casa. È Batman, con l’aiuto della polizia, che deve scendere nelle fogne per dare la caccia al movimento sociale (divenuto terrorista, ovviamente) e salvare la città». 

Quando invece si tocca l’argomento Italia, Monedero quasi scuote la testa. «Noi non abbiamo nessun rapporto politico con il vostro Paese. Peccato perché siete sempre stati un punto di riferimento culturale per molti anni… Mentre il legame con Syriza è forte. Tsipras? Muy lindo, uno a posto, la sua battaglia è la nostra». Ci sarebbe il M5S «ma in Europa ha scelto un’altra collocazione. Non basta la protesta, serve una proposta con idee chiare e a me pare che nei Cinque Stelle coesistano posizioni troppo distanti tra loro». Iglesias non è Grillo: «È più magro e anche più bello. Ma scherzi a parte, Pablo è un professore di Scienza politica che viene da una storia di sinistra. Fare paragoni è impossibile». 

La paura contro la speranza, ecco la sfida del domani. La paura che ti chiude in una stanza o la speranza che ti porta in piazza; un processo individuale oppure uno collettivo. 

L’iniquità come processo irreversibile o la lotta contro la disuguaglianza motore di una nuova comunità. 

La vera missione della nuova sinistra è una: «Costruire un immaginario allegro». 

Sembra tutto semplice e potabile. Che non lo sia lo dimostra la stessa scelta di Monedero, che da numero 2 di Podemos, eletto in direzione, si è dimesso per diventare militante semplice. «Se si perde il legame con la gente è la fine. Non basta rappresentare, occorre coinvolgere. E sentivo che stavo perdendo il contatto. Così ho le mani libere per fare ciò che so fare, confrontarmi con le persone», chiosa il professor Monedero. Verrebbe proprio da credergli, senza stare a sentire i giornali spagnoli che parlano di dissidi al vertice di Podemos che lo hanno portato a defilarsi. 

Che serva un corso urgente di politica, anche e soprattutto in Italia, è sicuramente vero. È riconoscere e riscoprirsi “gente decente” che è un po’ più complicato. 

(22 giugno 2015)

Roma, trovata lettera con un proiettile e minacce indirizzata a Marino

E' stata individuata al centro smistamento posta di Fiumicino. Nel testo un avvertimento: falla finita con l'antiabusivismo o questa pallottola è per te. Sappiamo tutto anche della tua famiglia. 

da: http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/06/25/news/roma_trovata_lettera_con_un_proiettile_e_minacce_indirizzata_a_marino-117630263/?ref=HREC1-4

ROMA - Una lettera con minacce e un proiettile contro Ignazio Marino. Si fa sempre più teso il clima in Campidoglio. Nella serata di mercoledì, intorno alle 21, il personale di polizia giudiziaria della Polaria di Fiumicino ha intercettato una busta sospetta al centro di smistamento postale dell'aeroporto. Una lettera indirizzata al sindaco di Roma, affrancata e con un nome come mittente: Antonio Cavallo. E un proiettile calibro 9 x 21 inesploso. La procura di Civitavecchia ha aperto un fascicolo

Nel mirino l'attività di contrasto all'abusivismo commerciale del Comune di Roma (pochi giorni fa - tra l'altro - durante una festa dell'Unità a Roma si era scagliato contro i camion bar che riempiono le zone centrali di Roma). Nella lettera manoscritta - piena di errori grammaticali - si legge: "Caro sindaco, lascia in pace l'antiabusivismo che la gente ha fame. Pensa ai corrotti che hai intorno. Questo è un avvertimento. Noi sappiamo tutto di te e della tua famiglia. Funziona bene sennò questo è per te". Il plico è stato ispezionato su disposizione

Il plico è stato ispezionato su disposizione del pm di turno della del pm di turno della procura di Civitavecchia ed è stato sequestrato dalla Polaria. Immediatamente è stata attivata la vigilanza davanti all'abitazione di Ignazio Marino. Il clima in città si fa comunque sempre più teso. Solo tre giorni fa era stata disposta la scorta per Matteo Orfini, commissario del Pd a Roma dopo il caso di Mafia capitale.

E poi dicono che non c'è la mafia a Roma!

Migranti, così si ferma 
l’esodo dall'Africa (English and French Colonialism in Africa)

Bastano pochi euro per creare lavoro in Africa e rallentare il flusso. Perché a nessuno piace emigrare. Ma i rari progetti italiani vengono chiusi dall’Europa. Mentre Parigi e Londra sfruttano le risorse dei Paesi che erano loro colonie. Però respingono i profughi.

DI FABRIZIO GATTI DA NIAMEY (NIGER)
da: http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/06/22/news/migranti-cosi-si-ferma-l-esodo-dall-africa-1.217579?ref=HEF_RULLO

L'alternativa all’emigrazione in Europa, al caos umanitario, ma anche all’idea di bombardare i barconi in Libia, costa davvero poco.


Con venticinquemila euro, a Sud del deserto del Sahara si possono creare venti posti di lavoro. Con i 746 milioni consumati dall’Italia per l’emergenza sbarchi nel 2014, daremmo un’attività duratura a 597 mila persone.

Con i due miliardi e 288 milioni spesi dal nostro governo negli ultimi quattro anni, avremmo potuto far lavorare un milione e 830 mila uomini e donne. E garantire una ricaduta positiva sulle loro famiglie per un totale di dodici milioni e ottocentomila persone.
In altre parole, con un investimento di 180 euro per persona in Africa e un progetto decente, e soprattutto gestito dai beneficiari, potremmo alla fine fermare al via gran parte degli emigranti in cerca di lavoro. Destinando così l’accoglienza in Europa a quanti chiedono asilo o protezione umanitaria perché davvero in fuga da guerre o dittature: come siriani, eritrei e somali. Il successo dell’esperimento è tutto qui, nel caldo torrido di Makalondi, sulla strada nazionale che dal Burkina Faso porta a Niamey, la capitale del Niger.

Un successo talmente a buon mercato che proprio in questi giorni il progetto, avviato nel 2012 dall’associazione piemontese “Terre solidali” e dall’Università di Torino, verrà chiuso e archiviato dall’Unione Europea. Non è una bocciatura. Funziona proprio così. Bruxelles ci mette il 75 per cento dei soldi necessari, gli altri bisogna trovarseli. Poi però i risultati devono essere raggiunti e rendicontati all’Ue in appena tre-quattro anni, in modo che il commissario di turno possa appropriarsi di cifre e applausi nel corso del mandato. 

L’Europa industriale sta depauperando il continente da secoli, ma noi pretendiamo che gli africani si rimettano in piedi nel giro di trentasei-quarantotto mesi. Con questi cappi al collo, qualunque Sergio Marchionne troverebbe più conveniente e capitalistico pagarsi il viaggio sul barcone.

Ridotta al caos la Libia, quello del Niger è il primo governo che si incontra a Sud di Lampedusa. Dovremmo chiederci perché negli ultimi quindici anni, da quando l’Africa ha cominciato a sbarcare, i progetti efficaci come quello di Makalondi siano rimasti una rara eccezione. E la risposta non è difficile da trovare. Eccola in bella mostra sotto i 47 gradi all’ombra del piazzale dell’aeroporto internazionale di Niamey. A sinistra, dalla pancia di un gigantesco aereo da trasporto, l’esercito di Parigi sta scaricando armi, container e mezzi per l’operazione militare “Barkhane” che dalla scorsa estate attraversa Ciad, Niger e Mali.

A destra, è parcheggiata la flotta di aeroplani noleggiati dalle organizzazioni che partecipano alla globalizzazione umanitaria: Nazioni Unite, Programma alimentare mondiale, Organizzazione mondiale della sanità. 
Il bastone e la carota, con cui il mondo ricco ha sempre dominato. È immorale che in queste ore, lassù alla frontiera di Mentone, sia proprio la Francia a impedire la libera circolazione di persone, come accade in occasione di gravi fatti di criminalità. Come se fossimo noi italiani i criminali, per aver scelto di portare soccorso in mare e ridurre il numero dei morti.

"I naufragi non ci fanno paura". Viaggio in Niger con chi arriverà in Europa

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Mentre lo stesso governo di Parigi continua a produrre instabilità, povertà e profughi con i suoi piani strategici a sud del Sahara. 
In questi ultimi drammatici mesi, l’Unione Europea era forse troppo scossa dal massacro di “Charlie Hebdo” per rendersene conto. Ma visti da qui, i responsabili del caos dal 2011 in poi non sono certo le migliaia di persone sbarcate. E nemmeno gli italiani che le hanno soccorse. La voce è quella di Jean-Pierre Chevènement, già ministro francese della Difesa e dell’Interno, in un’intervista a “Le Figaro”: «Nel 2011 noi abbiamo distrutto la Libia... sotto la guida di Sarkozy. Abbiamo violato la risoluzione delle Nazioni Unite, che ci dava il diritto di proteggere la popolazione di Bengasi, e ci siamo spinti fino al cambiamento del regime».


Di fronte al disastro umanitario, il presidente del Niger,Mahamadou Issoufou, è altrettanto diretto: «Bisogna che francesi, americani e britannici vadano in prima linea a riparare i danni che hanno provocato», dice al quotidiano “Le Parisien”: «Che ci assicurino le service après-vente», il servizio post-vendita, aggiunge con ironia il presidente nigerino. Per ora, però, il servizio offerto dal governo socialista di Manuel Valls sono i gendarmi alla frontiera meridionale. E l’ordine perentorio: «I migranti non passano, se ne devono occupare gli italiani». 
Posizione in sintonia con il collega britannico David Cameron, che sulla proposta di trasferire almeno quarantamila rifugiati da Italia e Grecia, si rifiuta di accogliere un solo straniero al di là della Manica.

Makalondi, municipio rurale di ottantamila abitanti appena oltre la frontiera, è il primo cartello del Niger lungo la rotta percorsa ogni mese da almeno diecimila ragazzi e poche ragazze che da tutta la regione del Sahel, da Gambia, Senegal, Mali, Niger e Nigeria, continuano a salire verso la Libia e l’Europa. Fino a vent’anni fa questa era una regione semiarida di alberi d’alto fusto. Ora è una distesa di sabbia, cespugli e arbusti. La costante riduzione delle piogge e la necessità di energia hanno aperto il paesaggio al deserto. La capitale brucia per cucinare mille tonnellate di legna al giorno e nel giro di pochi anni hanno tagliato anche gli alberi di Makalondi.


"Progetto italiano crea lavoro con 20 euro. L'alternativa soft alle bombe contro i barconi"

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I venticinquemila euro del progetto italiano sono stati affidati a un’associazione di donne che ha scelto in autonomia come investirli: hanno aperto un laboratorio alimentato a energia solare per la trasformazione e la vendita di cereali e per la produzione di mangimi animali macinati dagli scarti dell’agricoltura. Non è stato facile, all’inizio. «I progetti di cooperazione decentrata della Regione Piemonte andavano molto bene», racconta Stefano Bechis, ricercatore del dipartimento di Economia e ingegneria agraria (Deiafa) dell’Università di Torino: «Finché è arrivata la giunta Bresso che li ha resi più difficili da gestire. E infine il presidente leghista Cota, che da una parte diceva che gli africani vanno aiutati a casa loro e dall’altra chiudeva la cooperazione regionale decentrata. Come volesse aiutare gli africani chiudendo la cooperazione, è un mistero di quella mente eccelsa dell’ex governatore».

Il progetto per il laboratorio però è sopravvissuto ai cambi di rotta della Lega grazie all’approvazione di Bruxelles, all’autofinanziamento e a una donazione della Valle d’Aosta. Ed ecco Catherine Yonli Banyoua, 38 anni, la responsabile, e Madan Terigaba, 42, la tesoriera della piccola impresa, sedute a confezionare pacchi di cuscus con altre sette donne.
«Fino a tre anni fa qui non c’era più raccolto», spiega Catherine, «il progetto ha riportato lavoro e cibo. Abbiamo clienti che rivendono i prodotti in Ghana. Siamo solo donne perché la trasformazione del raccolto la fanno le donne. Agli uomini toccano i lavori pesanti». 

Nessuno ha parenti saliti sui barconi? «No», sorride lei, «nessuna di queste famiglie ha intenzione di andare in Europa. Se c’è lavoro, nessuno si muove». 

Ousseini Adamou, 46 anni, e Paolo Giglio, 62, partito da Ivrea per l’Africa quarantadue anni fa, hanno seguito la formazione del personale e l’avviamento.

I venticinquemila euro iniziali sono serviti anche per l’acquisto di pannelli solari e batterie cinesi, più a buon mercato. Raccontano che da gennaio 2014 il laboratorio è autonomo, non riceve più soldi. Le donne trasformano e confezionano sei quintali di prodotti al mese: miglio, cuscus, farina di grano, bevande a base di cereali. E incassano ciascuna uno stipendio di 30mila franchi, quasi 46 euro. Metà viene impiegata per vivere, metà depositata sul conto dell’impresa per la manutenzione dei due congelatori e la sostituzione delle batterie tra tre anni. «Hanno già risparmiato tre milioni di franchi», rivela Paolo Giglio, «sono quattromila 500 euro. Avere quella somma a Makalondi è un grande successo.
Non servono costose campagne decise altrove. Occorrono progetti su misura, scelti da chi ne beneficerà. Come hanno fatto le donne di Makalondi. Da anni arrivano da tutto il mondo laureati in diritti umani, antropologia, macroeconomia. Costano tanto e combinano poco. Abbiamo bisogno che ci mandino artigiani, falegnami, fabbri, agricoltori che insegnino il mestiere. Ci vorrebbero tante scuole professionali, come quelle dei salesiani che negli anni Sessanta hanno contribuito a formare gli operai del nostro boom economico».

Tra i progetti a misura di famiglia ce n’è un altro realizzato dall’associazione “Terre solidali” nella zona di Niamey e dalla Ong “Bambini del deserto” di Modena ad Agadez, la porta del Sahara, passaggio obbligato verso la Libia e l’Europa. Si basa sull’intuizione di uno studente di agronomia dell’università di Perugia, Aaron Aboussey Mpacko, 23 anni. Aaron, nato in Camerun e stroncato da un infarto durante una partita di calcio, stava studiando una soluzione che riducesse la distruzione delle foreste per ricavare legna da ardere. Ha così costruito un prototipo semplificato di stufa a gassificazione. Dopo la morte del ragazzo, Stefano Bechis dall’Università di Torino e Paolo Giglio da Niamey hanno portato avanti l’idea.

Oggi 350 famiglie del Niger usano abitualmente stufe Aaron in grado di fornire la stessa energia per cucinare, riducendo però il consumo di legna del 75 per cento. Sono grandi quanto un bidone, larghe poco più di una pentola e sono state costruite da tre fabbri nella bolgia del mercato di Katako, il cuore popolare della capitale.

Il processo di gassificazione non brucia legno, ma estrae gas dalla biomassa dei pellet ricavati dalla macinatura di scarti agricoli ed eventualmente da altra legna. E come residuo fornisce il 30 per cento del peso in carbone vegetale, riutilizzabile in stufe tradizionali oppure come concime. Secondo lo studio dell’Università di Torino, con questo sistema l’attuale fabbisogno annuo di legna in tutto il Sahel basterebbe per quattro anni. Si creerebbero posti di lavoro per la produzione e la commercializzazione delle stufe e del pellet. E si ridurrebbero le malattie respiratorie di donne e bambini poiché la fiamma non produce fumi.

Il passo successivo prevede la piantumazione di alberi, sfruttando il bosco per stabilizzare il suolo e coltivare cereali nella penombra. «Soltanto con la potatura dei rami di cinquanta ettari si potrebbe dare energia a 500 famiglie», spiega Giglio. Si tratta di energia a prezzi accessibili. Costruire una stufa Aaron in Niger richiede 24 euro. Ma grazie a una parte del milione e 100 mila euro finanziati dall’Ue per una rete di interventi, sono state finora vendute a circa 6 euro. «L’Unione Europea ci ha dato fiducia. Con il progetto “Niger Energie” un migliaio di persone delle fasce più deboli mangia in modo adeguato», spiega Laura Alunno, presidente di “Terre solidali”, «e diffonde un modello socioeconomico che si basa sull’associazionismo e sul rafforzamento delle capacità locali. Siamo consapevoli che questi progetti sono una goccia nel mare. L’Africa ha bisogno di infrastrutture e di vendere al miglior offerente le proprie risorse. Se all’Africa venisse data questa opportunità, l’emigrazione si fermerebbe».

La tensione senza precedenti tra governi europei in questi giorni fa assomigliare l’Unione di Jean-Claude Juncker alla fallimentare Società delle Nazioni che accompagnò il pianeta alla Seconda guerra mondiale. Sullo sfondo, il piano militare per bombardare i pescherecci libici potrebbe essere approvato a fine giugno e aprire il Mediterraneo a ulteriori sconvolgimenti.

Non abbiamo nemmeno capito che tutto questo non servirà a nulla se chi parte ha la determinazione di Ebrima Sey, 32 anni, in viaggio con l’idea di trovare un lavoro ovunque in Europa. Il suo obiettivo è sfamare la moglie e il figlio Wally, 2 anni, rimasti ad aspettare a Serekunda, la principale città del Gambia. È partito da 34 giorni e alle tre del pomeriggio scende alla stazione degli autobus a Niamey. Con Ebrima, ecco altri 76 emigranti di Gambia, Senegal, Mali, tutti con l’intenzione di andare in Libia. E poi in Italia. Ebrima indossa la maglia della nazionale francese, numero di Zidane sulla schiena e un solo zainetto come bagaglio, il flacone di shampoo, l’asciugamano, le ciabatte di gomma, il diploma dell’istituto tecnico per “saldatori metalmeccanici” e il certificato della polizia di Banjul da cui risulta che è libero da denunce e condanne.

Lui è certo che gli serviranno in Europa. «Sono partito», racconta, «perché mia moglie mi chiedeva soldi per comprare cibo e io senza un lavoro stabile non ne avevo». Come paga il viaggio? «Ho venduto il mio motorino e ho un numero di telefono per chiamare chi mi manda i soldi. È mio cugino». Come lo rimborserà? «Quando lavorerò in Italia, lo rimborserò». Ha conoscenti già sbarcati in Italia? «Conosco nove gambiani già arrivati in Italia». Ha paura dei pericoli del deserto? «No». Sa che c’è una guerra in Libia? «Sì». Non ha paura di essere sequestrato o ucciso in Libia? «No». Ha saputo delle migliaia di morti annegati tra la Libia e l’Italia? «Sì, avevo un piccolo computer. L’ho visto su YouTube». Non ha paura che possa capitare anche a lei? «No, non ho paura perché ho fede. So che Dio mi guiderà».

La sua sicurezza vacilla solo sulle informazioni pratiche del viaggio. In quanti giorni si aspetta di arrivare in Italia? «Tre, quattro settimane», risponde Sey con eccessivo ottimismo. Quanto pensa di pagare per arrivare in Europa? «Duecento, trecento euro». I libici chiedono milleseicento dollari americani per attraversare il mare. «Per arrivare in Italia?», domanda lui. Sì. «Non lo sapevo». Guarda a lungo nel vuoto. «Però in Libia potrò lavorare per mettere da parte i soldi», dice subito dopo. E quando si aspetta di rivedere suo figlio? Davanti a obiettivi così forti come il sostegno alla propria famiglia, i sentimenti vengono pigiati in fondo al cuore dagli imperativi che la mente si impone. La domanda è involontariamente intima. Gli occhi di Ebrima cominciano a luccicare. Poi esplodono come il crollo di una diga in un pianto inconsolabile. Stanotte che doveva essere l’ultima, prima di raggiungere il deserto, ha parlato al telefono con sua moglie. E sfinito, sdraiato su un tappeto di plastica della stazione, si è addormentato con il cellulare in mano. Gliel’hanno rubato con tutti i contatti registrati in memoria per continuare il viaggio.

Il Gambia, 172esimo Paese su 187 per indice di sviluppo, nel 2014 ha dato all’Italia 8.556 richiedenti asilo. Quest’anno sono 3.115 i connazionali di Ebrima già arrivati: il sesto gruppo dopo Eritrea, Mali, Nigeria, Somalia, Siria e davanti a Senegal e Sudan. Il presidente del Gambia, Yahyah Jammeh, un ex militare al potere dal 1994, ha fatto parlare di sé un mese fa promettendo di tagliare la gola ai giovani che si dichiarano gay. L’Unione Europea, che l’ha sostenuto nel suo piano di privatizzazioni da fare invidia a Henry Ford, sei mesi fa gli ha tolto i finanziamenti. Il disastro economico all’inseguimento di una crescita squilibrata del Pil, che nel 2014 era al 4,6 per cento, è arrivato quest’anno con un meno 1,4. Come sempre, paga il popolo.

Probabilmente nelle prossime settimane vi spalmerete sulla pelle il biossido di titanio estratto a tonnellate dalle sabbie del Gambia: è la protezione bianca contenuta nelle creme solari. Stiamo parlando del più piccolo Stato dell’Africa continentale: un milione 970 mila abitanti appena, compresi i minori sotto i 15 anni che sono il 46 per cento. Gli adulti in Gambia parlano quasi tutti inglese.

Non perché si siano iscritti al British Institute per corrispondenza.
Ebrima Sey e i suoi connazionali lo parlano perché fino al 1965, un anno prima della nascita dell’attuale premier David Cameron, il Gambia era parte del Regno Unito. Con le dovute proporzioni, la stessa storia si ripete in Mali: colonia francese fino al 1960, 176esima posizione per indice di sviluppo, Paese ora spaccato in due dopo che la Francia è intervenuta per fermare le milizie di Al Qaeda e ha consegnato il Nord a un’altra fazione di terroristi tuareg. E si ripete in Niger: colonia di Parigi fino al 1960, abitanti raddoppiati in quindici anni fino agli attuali 19 milioni 268 mila, il Paese all’ultimo posto nel mondo per l’indice di sviluppo umano, nonostante l’uranio nigerino estratto a costi irrisori dall’azienda statale francese Areva. 

L’uranio che parte da qui accende un terzo dell’energia elettrica prodotta in Francia: un ospedale su tre, un treno su tre, un’industria su tre, una lampadina su tre. Mentre in Niger il 93 per cento degli abitanti non ha accesso all’elettricità. E anche dove c’è, spesso non arriva.

Stanotte, come ieri notte, la temperatura martella le tempie. Sembra di vivere nella “Febbre” di Wallace Shawn. L’aria si appiccica al sudore. Un amico medico dell’Ospedale nazionale rivela che quando manca la corrente e i ventilatori appesi ai soffitti si fermano, tra gli anziani e i bambini ricoverati si muore a grappoli. Muoiono di caldo, di complicazioni. Anche adesso, dice il medico, nell’ennesima notte di questa capitale senza luce.
Nelle stesse, identiche ore in cui a Parigi il presidente François Hollande dichiara che la fuga da questo inferno, dove ancora si parla francese, è un problema che non lo riguarda.

E Stilinga pensa che è scandaloso come Francia, Inghilterra e pure Olanda si siano disinteressate delle conseguenze del loro colonialismo africano, tanto poi scaricano sui paesi mediterranei e però si dichiarano stati civili! 

Ma chi ci va più a fare turismo in Inghilterra, Francia e Olanda? 
Ma chi compra più i loro prodotti? 

I politici idioti che governano questi paesi si guardassero allo specchio, in quanto non possono farsi un'esame di coscienza, visto che la coscienza non l'hanno mai avuta.