Mario Monti ne spara una al giorno

Dopo 12 mesi di governo Monti, il signor Mario si rivela per quello che è: imbecille.

E su tutta la linea. Ne avesse azzeccata una a livello politico.
Ne avesse azzeccata mezza a livello sociale.
Ne avesse azzeccata un terzo a livello umano.

Già, è proprio l'umanità di cui codesto sobrio bocconiano (ormai essere bocconiani equivale ad un insulto) difetta.

La sua arroganza e protervia lo caratterizza. La sua personalià è imbevuta di superfluo e dannoso narcisismo. La sua incapacità sociale è pari solo alla voglia di ricorrere sempre e comunque a Napolitano, come alle gonne della mamma (ammesso che le donne ancora ne indossino di gonne).

Non riesce il Mario a confrontarsi pari a pari con i suoi simili, non riesce a capire la realtà, non riesce a vedere oltre il suo naso.

Il Mario è messo così male che ormai se volesse partecipare alle prossime elezioni politiche associandosi a qualche nefasta e fessa lista di centro, avrebbe sicuramente solo un voto: il suo. Manco la moglie lo voterebbe.

E siccome il Mario sa che il suo tempo è scaduto (peggio di un latticino andato a male) allora ogni giorno ha deciso di ammorbare i poveri italiani con sconcezze intellettuali di ogni genere: dalla scuola alla sanità.

Inoltre, il Mario dovrebbe capire che gli ordini del Bilderberg club sono indigeribili e dovrebbe annussare l'aria di fine del capitalismo turbo liberale. Ma nulla, è imbecille il Mario!

Passerà alla storia come colui a cui gli italiani hanno dovuto pagare la pigione (IMU) nonostante avessero comprato casa e avessero acceso i mutui, e passerà alla storia come colui che figlio del Vaticano, manco per nulla fa pagare alla madre Chiesa (stato straniero in suolo italiano) il giusto e il dovuto.
Ma che bella reputazione signor Mario!

Il welfare ferito al cuore di Chiara Saraceno


IL WELFARE FERITO AL CUORE di Chiara Saraceno.

NON si sentiva proprio il bisogno di questa ultima esternazione di Monti che adombra la possibilità che il sistema sanitario nazionale possa venir smantellato, o ridotto, a favore di un allargamento dello spazio per le assicurazioni private. 
Maliziosamente, qualcuno potrebbe pensare che, dopo aver colpito la sanità (come la scuola) in modo indiscriminato e a colpi d’accetta, rendendone sempre più difficile il funzionamento, ritenga che essa sia ormai così squalificata agli occhi dei cittadini da potersi permettere di prevederne la messa in liquidazione. 
Che la sanità italiana sia in affanno è sotto gli occhi di tutti, ma le cause di questo affanno sono molto meno chiare e univoche di quanto vogliano far credere le parole di Monti. E tra queste cause c’è anche il modo un po’ sconsiderato con cui si sta procedendo a contenerne i costi. 
Che siano state parole da tecnico così super partes e così preso dalla propria tecnicità da non curarsi dell’effetto delle proprie parole, o da politico che sta mettendo a punto la propria prossima agenda, le parole di Monti sembrano voler forzare ulteriormente il senso di allarme sociale in un momento in cui le tensioni sono già forti. 
Rivelano anche una singolare cecità, o insensibilità, rispetto alla situazione economica delle famiglie italiane. 
Queste per una buona parte non possono certamente permettersi la spesa aggiuntiva di una assicurazione sanitaria. Lo ha certificato oggi, quasi nelle stesse ore dell’esternazione di Monti, la Banca d’Italia, segnalando come il reddito disponibile delle famiglie sia diminuito di nuovo, per la quinta volta. 
Minacciare di togliere la sanità pubblica in questi frangenti significa colpire proprio chi sta già facendo fatica a tirare avanti. 
Chi può permetterselo ha già una assicurazione, anche se per le cose importanti usa il servizio pubblico, perché più affidabile e di migliore qualità media. L’istituzione del servizio sanitario nazionale nel 1977 è stata una importante conquista di civiltà nel nostro Paese. Come ha fatto la scuola pubblica per l’istruzione, ha garantito a tutti coloro che vivono in questo paese il diritto alle cure quando ammalati. Venivamo da un sistema mutualistico che non solo offriva prestazioni differenziate a seconda della mutua di appartenenza, ma non copriva neppure tutti i cittadini. Se il nostro sistema di welfare, così inadeguato già prima della crisi, non si esaurisce nelle pensioni, è perché c’è anche una sanità pubblica di tipo universalistico.
 Nonostante i periodici episodi di malasanità ed anche di corruzione, è un sistema che ha fatto bene il proprio dovere, come riconosciuto anche dall’organizzazione mondiale della salute che anni fa aveva collocato il sistema sanitario italiano tra i primi al mondo per efficienza ed efficacia. 
Non è perfetto, come testimoniano gli episodi, appunto, di malasanità e corruzione, le disuguaglianze territoriali nei livelli di prestazione, gli scarti spesso intollerabili tra qualità dell’intervento medico e qualità del contesto ambientale. È stato il primo settore in cui si sono verificate con mano tutte le potenzialità, ma anche i rischi e gli effetti perversi, della regionalizzazione. Ci sono certamente molte cose da riformare, per aumentare l’efficienza, eliminare gli sprechi, impedire che la sanità diventi l’ambito dell’arricchimento privato ai danni del pubblico.
 C’è un enorme spazio di efficienza da recuperare ed anche di rigidità inutili e dannose da rompere.
 Il settore della non autosufficienza è un caso esemplare, ove sanità e assistenza non si parlano e piuttosto scaricano l’una sull’altra le responsabilità, per contenere i costi.
 Con il risultato che sono le famiglie a dover compensare le inefficienze quando non le totali mancanze. Nelle proposte di riforma della sanità che circolano ci sono cose interessanti anche dal punto di vista del contenimento dei costi. 
Varrebbe la pena di discuterne in modo più allargato. Si può anche discutere che cosa (non chi) può rimanere nella sanità pubblica e che cosa no. Ma se intanto si procede per tagli lineari senza criterio e con un’opera di sistematica delegittimazione, analogamente a quanto si è fatto e si fa per la scuola, poi restano solo le macerie, su cui fioriscono i rancori e si allargano le disuguaglianze.
Da La Repubblica del 28/11/2012.

IL BLUFF SULL’IMU ALLA CHIESA (Gianluigi Pellegrino).

MENTRE Mario Monti ribadisce la religione del rigore, il suo esecutivo cerca di confezionare un regalo miliardario per gli enti ecclesiastici.
  Un buco finanziario, ma soprattutto una voragine di ingiustizia e disuguaglianza. 
E il rischio di una figuraccia in Europa.
E prima ancora in Italia visto che gli atti dicono l’esatto opposto del comunicato di Palazzo Chigi.
Ma andiamo con ordine.
Era stato il governo Berlusconi a scatenare la reazione della Commissione Europea, concependo una circolare del gennaio 2009. In questa si determinavano mille escamotage per garantire le gerarchie ecclesiastiche che poco o nulla sarebbe stato pagato. Arrivò Monti e solenne fu l’impegno: niente sconti, né privilegi.
E così per evitare la sanzione europea il Parlamento approvò una disciplina chiara quanto banale. 
La Chiesa avrebbe pagato per tutti gli immobili in cui svolge attività commerciale, come definita nel nostro ordinamento in conformità alle direttive europee. 
Ma il diavolo è nei dettagli.
Il governo si riserva di emettere un regolamento, apparentemente relativo alla disciplina di ipotesi marginali e residuali. E però con questa scusa ritorna sulla decisione del Parlamento per introdurre criteri grazie ai quali l’esenzione Imu per la Chiesa anche dove svolge attività commerciali diventerebbe amplissima: un rosario di eccezioni idonee quasi ad azzerare quello che il Parlamento aveva dovuto approvare per evitare la sanzione europea.
Fortunatamente i primi di ottobre il Consiglio di Stato investito dall’obbligatoria richiesta di parere ha bocciato in tronco il colpo di mano governativo, ammonendo l’esecutivo sulla procedura di infrazione europea e sui limiti delle delega che aveva ricevuto.

Per tutta risposta l’esecutivo anziché fare ammenda dello scivolone, si costruisce una legge ad hoc con un codicillo inserito nel Decreto Legge sugli enti locali. E torna a confezionare un regolamento che se venisse definitivamente approvato consentirebbe alla Chiesa rilevantissime esenzioni per la gran parte della sua attività commerciale: alberghi, sanità e scuole.

Il tentativo è sempre il medesimo di Tremonti; introdurre criteri di definizione dell’attività non commerciale diversi e ben più ampi di quelli dettati dall’ordinamento comunitario e nazionale; per farli valere soltanto per la Chiesa e per gli altri enti non profit, che invece ai fini della tassa immobiliare quando svolgono attività commerciale devono essere ovviamente trattati come chiunque altro; in difetto si avrebbe un clamoroso aiuto di stato a danno delle pubbliche casse e della corretta concorrenza.

Basti pensare che per le attività sanitarie il regolamento predisposto dall’attuale Governo proprio con le stesse parole utilizzate nella circolare Tremonti afferma che l’esenzione scatterebbe per il solo fatto della presenza di un accreditatamento con il servizio sanitario; il che però è semplicemente un modo per essere pagati dal pubblico anziché dal privato e certo non esclude ma anzi conferma la natura commerciale dell’attività. O ancora per le scuole si prevede l’esenzione se solo i costi di gestione non risultino “interamente” coperti dalle rette. Basta quindi che non lo siano per lo 0,1 per cento per far passare in cavalleria l’intera imposta; anche qui con sostanziale ripetizione di quel che aveva scritto Berlusconi.

Misure e balletti che la commissione europea ha già contestato come abusivo aiuto di stato in danno di conti pubblici, aziende e cittadini e che ora invece proprio il governo del rigore vuole riproporre in spregio agli impegni solenni di Monti e alla stessa legge approvata dal Parlamento.

Per fortuna la questione è di nuovo tornata in Consiglio di Stato che almeno su questi aspetti eclatanti non potrà non rilevare il contrasto con principi elementari che lo stesso atto del governo declama nelle sue premesse, salvo tradirli nello specifico dei criteri relativi ai campi principali dove si gioca la partita Chiesa-Imu (sanità, scuole, attività ricettiva).

I giudici pur nei limiti della loro funzione che in questo caso è solo consultiva non potranno che evidenziare la necessità che quei criteri per essere ammissibili dovranno necessariamente essere ricondotti ai parametri comunitari di definizione dell’attività commerciale da chiunque effettuata.

Solo attività veramente gratuita può essere esclusa. Altrimenti la sanzione europea sarebbe alle porte e sicuramente spietata come la relativa figuraccia internazionale e l’inaccettabile ingiustizia verso il resto del Paese, cittadini cattolici compresi.

Per non dire che le Camere con un rigurgito di dignità (ma c’è poco da sperarci) dovrebbero negare la conversione in legge di quel colpo di mano con cui il governo con un codicillo al Decreto Legge sugli enti locali si è arrogato il potere di rimettere in discussione ciò che era stato finalmente deciso.

Nel comunicato di ieri di Palazzo Chigi c’è insomma, spiace dirlo, tanto bluff nel metodo e nel merito. 

Nel metodo perché è stato proprio un blitz quello con cui l’esecutivo si è auto ampliato la delega per poter rimettere in discussione ciò che il Parlamento aveva finalmente deciso.

Nel merito perché basta leggere lo schema di regolamento che l’esecutivo ha confezionato per verificare che nei tre settori fondamentali la volontà del governo è proprio quella di ampliare a dismisura l’ambito di esenzione Imu in favore della Chiesa. 
Il documento è lì, basta leggerlo.
É un fatto e contro i fatti è inutile polemizzare. 

 Da La Repubblica del 13/11/2012

La strada da seguire per creare più lavoro di Luciano Gallino


LA STRADA DA SEGUIRE PER CREARE PIÙ LAVORO (Luciano Gallino).

MENTRE le cifre della disoccupazione sono sempre più drammatiche, il governo non pare avere alcuna idea per creare d’urgenza un congruo numero di posti di lavoro. I rimedi proposti alla spicciolata, dalla riduzione del cuneo fiscale alle facilitazioni per creare nuove imprese, dagli sgravi di imposta per chi assume giovani alla semplificazione delle procedure per l’avvio di cantieri e grandi opere, non sfiorano nemmeno il problema. Per di più il governo sembra sottovalutare la gravità della situazione.
 La disoccupazione di massa rappresenta tutt’insieme un’enorme perdita economica, uno scandalo intollerabile dal punto di vista umano, e un minaccioso rischio politico. 
Sotto il profilo economico, quasi tre milioni di disoccupati comportano una riduzione del Pil potenziale dell’ordine di 70-80 miliardi l’anno.
 Anche se ricevono un modesto reddito dal sussidio di disoccupazione o dai piani di mobilità, i disoccupati sono lavoratori costretti loro malgrado alla passività. Non producono ricchezza sia perché non lavorano, sia perché i mezzi di produzione, cioè gli impianti e le macchine che potrebbero usare, giacciono inutilizzati. 
Un’altra perdita economica deriva dal fatto che lunghi periodi di disoccupazione comportano che le capacità professionali si logorano e sono difficili da recuperare.
 Dal punto di vista umano la disoccupazione di massa, insieme con la povertà che diffonde, è uno scandalo perché i loro effetti, come ha scritto Amartya Sen, scardinano e sovvertono la vita personale e sociale.
 Elementi fondamentali di questa, dall’indipendenza personale alla possibilità di accedere per sé e i figli a una vita migliore, dalla realizzazione di sé alla sicurezza socio-economica della famiglia, sono strettamente legati alla disponibilità di un lavoro stabile, dignitosamente retribuito. 
Quando esso viene a mancare, anche tali elementi crollano, e la persona, la famiglia, la comunità sono ferite nel profondo delle loro strutture portanti. 
Quanto al rischio politico, qualcuno dovrebbe ricordarsi che uno dei fattori alla base dell’ascesa del fascismo e ancor più del nazismo è stata la disoccupazione di massa. 
E la capacità di ridurla mostrata da tali regimi dopo la crisi del ’29 è una delle ragioni del sostegno popolare di cui hanno goduto fino alla guerra che li ha abbattuti.
 Di certo oggi né l’uno né l’altro dei due regimi avrebbero la stessa faccia. Ma i sintomi di autoritarismo che affiorano in Europa, e i movimenti di estrema destra dagli alti tassi elettorali in almeno dieci Paesi, non sono da sottovalutare. 
Sperando che qualche movimento non cominci a promettere “ridurrò la disoccupazione a zero”. La promessa che fece e poi mantenne Hitler, fra il 1933 e il ’38.
 Poiché le austere ricette dei tecnici finora hanno aggravato il tasso di disoccupazione anziché ridurlo, sarebbe ora di pensare a qualcosa di più efficace, e magari sperimentarlo
Ho fatto riferimento altre volte all’idea che sia lo Stato a creare direttamente occupazione, in merito alla quale esistono solidi studi. Tempo fa si chiamavano schemi per un “datore di lavoro di ultima istanza”, ma oggi si preferisce chiamarli schemi di “garanzia di un posto di lavoro” (job guarantee, JG); il che non significa affatto una garanzia per quel posto di lavoro, ma per un posto di lavoro dignitoso e ragionevolmente retribuito. Coloro che elaborano simili schemi sono economisti e giuristi americani, australiani, canadesi, argentini, indiani; i quali, diversamente dai nostri governanti di oggi e di ieri, sembrano tutti aver meditato sull’articolo 4 della nostra Costituzione, quello per cui “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”: non del lavoro, si noti, di cui tratta invece l’articolo 35. Il primo mai attuato, il secondo in via di estinzione nella legislazione e nelle relazioni industriali. Uno schema di JG prevede che in via di principio esso sia accessibile a chiunque, essendo disoccupato, vuole lavorare ed è in grado di farlo. 
Di fatto sarebbe inevitabile, visti i numeri in gioco, dare la preferenza a qualche strato di persone in peggiori condizioni di altre, quali, per dire, i disoccupati di lunga durata. 
L’attuazione di uno schema di JG richiede un’agenzia centrale che stabilisce le regole di assunzione e i livelli di retribuzione, e gran numero di imprese (o centri di servizio o cooperative) a livello locale che assumono, al caso addestrano e impiegano direttamente i lavoratori, oppure li assegnano a imprese locali in progetti di immediata e rilevante utilità collettiva. 
Dando la preferenza a settori ad alta intensità di lavoro e bassa intensità di capitale, dai beni culturali ai servizi alla persona, dal recupero di edifici e centri storici alla ristrutturazione di scuole e ospedali.
 I centri locali trattano con le imprese le condizioni a cui esse possono impiegare i lavoratori del programma, dalla partecipazione ai costi del lavoro fino all’eventuale passaggio del dipendente dal pubblico al privato. 
Trovare le risorse per finanziare simili schemi è una questione complicata, nondimeno vari studi attestano che non è impossibile risolverla. Prima però di trattare tale tema c’è una premessa inderogabile: deve manifestarsi la volontà politica di affrontare con nuovi mezzi la catastrofe disoccupazione. Chiedere a un governo neoliberale di esprimere una simile volontà è forse troppo, ma le crisi sono sia uno stimolo, sia una buona giustificazione per cambiare idee e politiche. 
C’è una novità a livello europeo che dovrebbe indurre a discutere di simili schemi, e magari a sperimentarne qualcuno in singole regioni. Ai primi di settembre 2012 si è svolta a Bruxelles una conferenza internazionale sulle politiche del lavoro, organizzata dalla Commissione europea. Una sessione era dedicata a “La garanzia di un posto di lavoro – Concetto e realizzazione”. Hanno perfino invitato a parlare uno degli studiosi più noti e polemici in tema di JG, l’australiano Bill Mitchell. Posto che nei programmi di JG rivivono le teorie di Keynes in tema di politiche dell’occupazione, nonché la memoria del successo che gli interventi statali ebbero durante il New Deal rooseveltiano, aprire alla discussione di tali programmi uno dei templi della teologia neo-liberale, qual è la Commissione europea, è un segno che qualcosa sta cominciando a cambia-re sul fronte ideologico delle politiche del lavoro. 
Il documento base della sessione in parola formula varie domande: “Quali sono i maggiori ostacoli in Europa alla realizzazione di schemi di garanzia d’un posto di lavoro… volti ad affrontare la crisi della disoccupazione? Possono tali ostacoli venire superati? In quali aree potrebbero o dovrebbero essere sviluppati degli impieghi pubblici per disoccupati? Quanto tempo ci vorrebbe prima che a un disoccupato sia dato un lavoro nel settore pubblico?”. Sono domande a cui anche il nostro governo dovrebbe cercare di dare risposta, meglio se non soltanto in forma cartacea. Dopotutto, ce lo chiede l’Europa.
Da La Repubblica del 03/11/2012.
E Stilinga chiede a Mario Monti e al suo Governo:" Che c***o state facendo? e che c***o aspettate a rilanciare l'occupazione italiana?"

Se Monti dicesse: “Trovate quei soldi, cazzo” - Antonio Padellaro - Il Fatto Quotidiano

Se Monti dicesse: “Trovate quei soldi, cazzo” - Antonio Padellaro - Il Fatto Quotidiano




Gentile professor Monti, penso che a questa lettera non risponderà mai o forse neppure la leggerà. Non certo per mancanza di garbo. Lei è persona assai cortese e da quando gli italiani la frequentano non le hanno mai sentito pronunciare una parola men che levigata, anzi vien da pensare che la sera, prima del sonno del giusto, lei rifaccia la piega a sostantivi e avverbi con il ferro da stiro e una spruzzatina di amido. Siete tutti forbiti e irreprensibili, voi tecnici di governo.
Sere fa la tv mostrava una giornalista di “Servizio Pubblico” nel vano inseguimento di un ministro, credo fosse Profumo, per chiedergli qualcosa a proposito dei sacrifici richiesti sempre agli stessi mentre in troppi se la spassano. Domande che forse Sua Eccellenza neppure poteva percepire, immerso come sembrava in una felice condizione spirituale, del resto consona al suo cognome. E quel sorriso stampato che portava in processione, con al seguito trafelate salmerie di segretari e addetti, era già una risposta: io sono io e voi non siete niente.
Ho preferito, presidente Monti, evitare la celebre espressione del marchese Onofrio del Grillo a lei certamente nota, per uniformarmi allo stile della casa, anche se, le confesso, mi sento ribollire il sangue come, credo, tanti miei concittadini. Infatti, se sopravvive, come dicono, una certa fiduciaverso la sua persona (e a ciò concorre il ricordo ancora vivido del suo predecessore), la crescente iniquità delle misure adottate dal suo governo è ogni giorno di più intollerabile.
 C’è un limite tuttavia che non dovrebbe mai essere superato ed è il rispetto per la sofferenza degli altri, quando questa sofferenza è oltre ogni limite. Negare trecento milioni ai malati di Sla e alle loro infelici famiglie è un atto scellerato. 
Trecento milioni sono una goccia nel mare della finanza pubblica, un piccolo osso da sottrarre alle fauci della casta, la metà del tesoretto che a Montecitorio non sanno come sperperare.
E non veniteci a parlare di risorse da reperire a saldi invariati o di compatibilità di bilancio, perché di fronte alla tragedia di quelle persone è più onesto mostrare la faccia di un governo “maledetto” (lo ha detto lei) piuttosto che rifugiarsi in vomitevoli scuse. 
Se mi leggesse, gentile professore, le chiederei: è troppo sperare di vivere in un paese civile dove un premier possa sobriamente chiedere al signor ministro dell’Economia: “Trovate subito quei soldi, cazzo!”?
Il Fatto Quotidiano, 4 Novembre 2012