Quando ho scoperto le disuguaglianze

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Nessuno oggi può negare che esista negli Stati Uniti una grande frattura tra i super ricchi – a volte definiti l'1 per cento – e gli altri. La loro vita è diversa: hanno preoccupazioni, aspirazioni e stili di vita diversi. Gli americani comuni si preoccupano di come pagheranno il college ai figli, di che cosa succederebbe se qualcuno in famiglia si ammalasse seriamente, di come faranno quando andranno in pensione. Negli abissi della Grande recessione, decine di milioni di persone si chiedevano se sarebbero riuscite a conservare la loro casa. Milioni di esse non ci sono riuscite.

Gli appartenenti all'1 per cento – e ancor più i membri del primo 0,1 per cento – discutono di altre questioni: che tipo di jet comprare, o il modo migliore per nascondere il reddito al fisco («Cosa accadrebbe se gli Stati Uniti dovessero premere per la fine del segreto bancario in Svizzera? Poi verrebbero le Isole Cayman? E Andorra: è sicura? »). Sulle spiagge di Southampton, a Long Island, si lamentano del rumore che fanno i vicini con l'elicottero quando tornano da New York. Si preoccupano anche di che cosa succederebbe se dovessero cadere dal piedistallo: significherebbe cadere da una certa altezza, e in rare occasioni avviene.

Non molto tempo fa, mi trovavo a una cena offerta da un brillante e preoccupato membro dell'1 per cento. Consapevole della grande frattura, il nostro ospite aveva radunato importanti miliardari, accademici e altri personaggi allarmati dalla disuguaglianza. Dopo i primi convenevoli, udii un miliardario – che si era affacciato alla vita ereditando una fortuna – discutere con un altro del problema degli americani scansafatiche che stavano cercando di vivere alle spalle degli altri. Poco dopo, i due passarono senza soluzione di continuità a parlare dei paradisi fiscali, apparentemente ignari dell'ironia. Più volte, quella sera, i plutocrati riuniti evocarono Maria Antonietta e la ghigliottina mentre si rammentavano reciprocamente i rischi di lasciar crescere troppo la disuguaglianza: «Ricordati della ghigliottina» era il ritornello. E ripetendo il ritornello concordavano implicitamente: il livello di disuguaglianza in America non è inevitabile, non è il risultato di leggi economiche inesorabili. È questione di politica e di politiche. E possibile, sembrava che dicessero quei potenti, porvi rimedio.

Questo è soltanto uno dei motivi per via dei quali i timori riguardo alla disuguaglianza sono diventati materia urgente anche tra l'1 per cento: sono sempre più numerosi gli appartenenti a questo gruppo consapevoli del fatto che una crescita economica sostenuta, condizione della loro stessa prosperità, non può aver luogo mentre la grande maggioranza dei cittadini ha redditi stagnanti.

Nel 2014, al raduno annuale dell'élite mondiale a Davos, Oxfam ha presentato con ineludibile chiarezza la misura della crescente disuguaglianza globale ricorrendo a un esempio: quell'anno, un autobus contenente 85 miliardari del mondo avrebbe trasportato una ricchezza pari a quella della metà inferiore della popolazione globale, qualcosa come tre miliardi di persone. Nel giro di un altro anno l'autobus si sarebbe rimpicciolito: sarebbero bastati 80 posti. In modo altrettanto drammatico, Oxfam rivelò che il primo 1 per cento degli abitanti del pianeta possedeva quasi la metà della ricchezza mondiale ed entro il 2016 ne avrebbe posseduta tanta quanta il restante 99 per cento complessivamente.

La grande frattura incombeva da tempo. Nei primi decenni successivi alla Seconda guerra mondiale la crescita nel nostro paese tenne un passo mai visto prima, e interessò l'intera popolazione. Tutti i segmenti della società videro aumentare il proprio reddito: era una prosperità condivisa. I redditi di chi stava in basso crescevano più velocemente di quelli di chi stava in cima.

Fu un'età dell'oro in America, ma i miei giovani occhi vi scorgevano già qualche ombra. Mentre crescevo – sulla sponda meridionale del lago Michigan, in una delle città industriali simbolo del paese, Gary, nell'Indiana – vedevo intorno a me povertà, disuguaglianza, discriminazione razziale e a volte disoccupazione, mentre una recessione dopo l'altra colpiva la nazione. I conflitti sociali erano all'ordine del giorno, perché i lavoratori lottavano per ottenere una giusta parte della meritatamente acclamata prosperità americana. Ascoltavo la retorica della società statunitense quale società della classe media, ma perlopiù la gente che vedevo occupava i livelli più bassi di quella presunta società della classe media, e le loro voci non erano fra quelle che incidevano sulla realtà del paese.

Non eravamo ricchi, ma i miei genitori avevano adeguato il loro stile di vita al reddito che percepivano, il che alla fine fa molto. I miei vestiti erano quelli che mi passava mio fratello e che mia madre comprava sempre durante i saldi [...]. Insieme a molti miei contemporanei, anelavo a un cambiamento. Ci veniva detto che cambiare la società era difficile, che ci voleva tempo. Anche se non avevo patito il genere di difficoltà che tanti miei amici affrontavano a Gary (a parte un po' di discriminazione), mi identificavo con loro. Mancavano decenni al giorno in cui avrei esaminato nei dettagli le statistiche sui redditi, ma sentivo che l'America non era la terra di opportunità che dichiarava di essere: esistevano grandi occasioni per alcuni, ma poche per altri. I racconti di Horatio Alger, almeno in parte, erano favole: molti americani che lavoravano duramente non ce l'avrebbero mai fatta. Eppure fui uno dei fortunati ai quali il paese offrì un'opportunità: una borsa di studio nazionale al merito presso l'Amherst College. Più di qualunque altra cosa, quell'opportunità apriva un mondo di altre opportunità nel corso del tempo. [...] Purtroppo, a causa della crescente disuguaglianza, il modello economico statunitense non ha funzionato per ampie fette della popolazione: la tipica famiglia americana oggi sta peggio di come stava venticinque anni fa, tenendo conto dell'inflazione. La percentuale dei poveri è aumentata. Benché l'espansione della Cina sia anch'essa caratterizzata da elevati livelli di disuguaglianza e da un deficit di democrazia, la sua economia funziona meglio per la maggior parte dei suoi abitanti, avendone fatti uscire dalla povertà qualcosa come 500 milioni nello stesso periodo in cui la stagnazione imprigionava la classe media americana.

Un modello economico che non serve alla maggioranza dei suoi cittadini difficilmente può assumere il ruolo di modello da emulare per altri paesi.[…] Di fatto, la crisi non è stata il frutto di un volere divino, come un diluvio o un terremoto che capita un'unica volta in un secolo. È stata una cosa che ci siamo procurati da soli: al pari della nostra smisurata disuguaglianza, è stata il risultato delle nostre politiche e della nostra politica.

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Published by arrangement with Agenzia Letteraria Santachiara Pubblichiamo parte dell'introduzione a La grande frattura in uscita da Einaudi




* IL LIBRO La grande frattura

( Einaudi, trad. di D. Cavallini e M. L. Chiesara pagg. 435 euro 22)
Joseph E. Stiglitz

Deputati, assessori e giudici: ecco chi sono i 30 mila pensionati «d’oro»


di Enrico Marro

La politica li ha tenuti al riparo dalle riforme che negli ultimi 25 anni hanno invece tagliato la previdenza dei comuni mortali. Assegni che oscillano in media tra i 40 mila e i 200 mila euro all’anno.


Ci sono circa 30 mila pensioni in Italia che rappresentano un mondo a parte, di assoluto privilegio, che la politica ha tenuto al riparo dalle riforme che negli ultimi 25 anni hanno invece tagliato la previdenza dei comuni mortali. Sono le pensioni del personale della Camera e del Senato; quelle degli ex deputati e senatori (ipocritamente definite «vitalizi»); le pensioni dei dipendenti della Regione Sicilia; quelle del personale della presidenza della Repubblica; quelle dei dipendenti della Corte Costituzionale e degli ex giudici della stessa; i vitalizi degli ex consiglieri regionali. 

Di questi assegni, che oscillano in media tra i 40 mila e i 200 mila euro all’anno, si sa poco o nulla, se non appunto che sono d’oro e costruiti su regole di assoluto favore. Eppure da dodici anni c’è una legge che imporrebbe di conoscere tutto di queste pensioni, i cui dati dovrebbero essere trasmessi al Casellario centrale della previdenza. Solo che la legge viene disattesa. E non si trova il modo di farla rispettare, perché gli organi costituzionali invocano l’autodichia, cioè il principio di autonomia regolamentare garantito dalla carta fondamentale, e la Sicilia il suo statuto speciale.



Il rapporto

Un tentativo di censire questo piccolo paradiso delle pensioni è contenuto nel rapporto «ll bilancio del sistema previdenziale italiano» appena diffuso dal centro studi di Itinerari previdenziali, presieduto da Alberto Brambilla, esperto di pensioni ed ex presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale presso il ministero del Lavoro, istituito dalla legge Dini del 1995. Il Nucleo è poi stato chiuso nel 2012. Ma Brambilla ha continuato a sfornare il rapporto annuale, aiutato dai migliori esperti del settore. E nell’ultima edizione, «per la prima volta», ha inserito un capitolo dedicato a quello che viene definito «l’altro sistema previdenziale», quello appunto che si sottrae a tutte le riforme. «Reperire questi dati è difficile – si sottolinea – poiché mancano le informazioni di questi soggetti che non comunicano i dati, come previsto dalla legge 243 del 23 agosto 2004, al Casellario centrale». Non si sa, in particolare, quanti contributi vengono pagati e quante pensioni e per quali importi sono erogate.


I dati e la mancata trasparenza

Ad oggi, le amministrazioni ed enti che non comunicano i dati sono: Camera e Senato, che hanno proprie regole previdenziali approvate dagli stessi parlamentari sia per i propri dipendenti sia per deputati e senatori; la Regione Sicilia, «che gestisce un fondo di previdenza sostitutivo per i propri dipendenti», quindi fuori dal regime Inps; la Corte costituzionale per i giudici e i propri dipendenti (anche qui vige un regolamento interno); la Presidenza della Repubblica per il proprio personale; le Regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale per le cariche elettive. Infine, c’è lo strano caso del Fama («una anomalia tutta italiana»), il Fondo agenti marittimi ed aerei, con sede a Genova, che gestisce la previdenza per gli agenti marittimi: «Non pubblica dati» e «non risulta sottoposto a particolari controlli», dice il Rapporto.

Un mondo a parte

Per ovviare a questa situazione, gli esperti coordinati da Brambilla hanno esaminato i bilanci degli enti e degli organi costituzionali per scattare una prima fotografia di questo mondo a parte. I dati sono contenuti nella tabella che pubblichiamo.

Le 29.725 pensioni d’oro censite costano più di un miliardo e mezzo l’anno. 

Gli assegni medi oscillano tra i circa 40 mila euro lordi dei 16.377 pensionati della Regione Sicilia (3.338 euro al mese) ai 200 mila euro dei 29 ex giudici costituzionali (16.666 al mese), passando per i circa 91 mila euro dei vitalizi di Camera, Senato e Regioni (7.583 al mese), i 55 mila euro dei pensionati ex dipendenti del Parlamento e del Quirinale (4.583 al mese), che stanno un po’ peggio – si fa per dire – di quelli della Consulta, che ricevono in media 68.200 euro (5.683 al mese). Per avere un’idea di quanto siano ricchi questi assegni, basti dire che la pensione media dei dipendenti statali è di 26 mila euro lordi l’anno (2.166 euro al mese), quella dei dipendenti privati di 12.500 euro (1.041 al mese), quella degli avvocati di 27 mila euro (2.250 al mese) e quella dei dirigenti d’azienda di 50 mila (4.166 al mese).



Regole «autonome»

Ma non c’è solo questa sperequazione negli importi. C’è che le pensioni dell’«altra previdenza» hanno seguito sempre proprie regole sull’età di pensionamento, infischiandosene delle riforme generali. Sulla base di anacronistici e malintesi principi di autonomia hanno subito solo qualche timido correttivo ai loro privilegi e comunque con molto ritardo. Prendiamo i parlamentari. Fino al 1997 bastava aver fatto una legislatura (anche se le camere erano state sciolte anticipatamente) per andare in pensione a 60 anni e per ogni ulteriore legislatura il limite per ottenere il vitalizio si abbassava di 5 anni. Solo dal 2012 l’età di pensionamento è stata portata a 65 anni e servono 5 anni effettivi di legislatura. E comunque per ogni anno in più di presenza in Parlamento l’età pensionabile scende di un anno fino al limite dei 60 anni. Giova ricordare che per i comuni mortali, nel regime Inps, servono 66 anni e 7 mesi d’età per la pensione di vecchiaia oppure 42 anni e 10 mesi di lavoro per ottenere la pensione anticipata. Certo, un miliardo e mezzo di euro all’anno di spesa per le pensioni dell’«altra previdenza» sono una goccia rispetto al mare magnum dei 250 miliardi di euro che si spendono ogni anno per tutte le pensioni (pensioni, invalidità, superstiti). Ma una goccia che ancora oggi non accetta di confondersi con le altre.