“Il Porcellum ha creato il Monstrum”

di Silvia Truzzi da www.ilfattoquotidiano.it


Se chiedi ad Alessandro Pace perché è contrario alla riforma Boschi ti risponde così: «Le ragioni sono molte. Intanto perché privilegia la governabilità sulla rappresentatività; elimina i contro-poteri esterni alla Camera senza compensarli con contropoteri interni; riduce l’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del governo; prevede almeno sei tipi diversi di votazione delle leggi ordinarie con conseguenze pregiudizievoli per la funzionalità delle Camere; nega l’elettività diretta del Senato ancorché gli ribadisca la spettanza della funzione legislativa e di revisione costituzionale; sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune; pregiudica il corretto adempimento delle funzioni senatoriali, divenute part-timedelle funzioni dei consiglieri regionali e dei sindaci». Tutte queste ragioni saranno illustrate domani al primo incontro del Comitato per il No, i cui lavori saranno introdotti proprio dal presidente Alessandro Pace.

Da dove cominciamo? 
«Dall’inizio, da quello che io credo essere il vizio d’origine della riforma. La Corte costituzionale, nel dichiarare l’incostituzionalità del Porcellum consentì espressamente alle Camere di continuare a operare, ma non in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, bensì grazie al “principio fondamentale della continuità dello Stato”. La Corte aggiunse a tal riguardo che, al fine di assicurare la continuità dello Stato, è la stessa Costituzione sia a prevedere, all’articolo 61, che, a seguito delle elezioni, sussiste la prorogatio dei poteri delle Camere precedenti finché non siano riunite le nuove Camere; sia a prescrivere, all’articolo 77, che, per la conversione in legge di decreti legge adottati dal governo “le Camere anche se sciolte sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni”». 

La sentenza della Consulta è di due anni fa... 
«È vero, ma i due limiti temporali del principio della continuità dello Stato, richiamati dagli articoli 61 e 77, sono assai brevi (meno di tre mesi!). E quindi, ammesso che il Parlamento non potesse essere sciolto nei primi mesi del 2014 perché lo scioglimento avrebbe portato alle stelle lo spread, è però evidente l’azzardo istituzionale, da parte del premier Matteo Renzi e dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di iniziare una revisione costituzionale di così ampia portata nonostante la dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum avesse fotografato un Parlamento di “nominati”, insicuri di essere rieletti, e quindi ricattabili ed esposti alla mercé del migliore offerente. Il che è dimostrato dal record, nella XVII legislatura, di passaggi da un gruppo parlamentare all’altro con 325 migrazioni tra Camera e Senato in poco più di due anni e mezzo, per un totale di 246 parlamentari coinvolti». 

Renzi si è impegnato a dimettersi se il referendum bocciasse la riforma. 
«Evidentemente nel lanciare questa sfida alle opposizioni e agli elettori, Renzi ha inequivocabilmente ammesso che la paternità della riforma costituzionale è del governo e non del Parlamento. Come invece dovrebbe essere e avrebbe dovuto essere. Il che risponde alla semplice, ma ovvia, ragione di non coinvolgere nell’indirizzo politico di maggioranza il procedimento di revisione costituzionale, che si pone a ben più alto livello della politica quotidiana, un livello nel quale anche le opposizioni dovrebbero avere un adeguata voce in capitolo». 

Il governo voleva andare in fretta. I senatori Mario Mauro e Corradino Mineo furono rimossi dalla commissione Affari costituzionali del Senato per aver invocato il rispetto della libertà di coscienza per ciò che attiene alle modifiche della Carta.
Fu dapprima loro assicurato che, per i lavori in aula, diversamente da quelli in commissione, l’art. 67 Cost. sarebbe stato rispettato. Il che era ed è contraddittorio perché se sussiste la tutela della libertà di coscienza del parlamentare su dati argomenti, la tutela non viene meno a seconda del luogo o del contesto nel quale essa viene eccepita. Successivamente, venne altresì eccepito, dall’allora vice capogruppo del Pd in Senato, che la libertà di coscienza non poteva essere invocata perché “tra i principi fondamentali della Costituzione non rientrano certo le modalità di elezione del Senato”, evidentemente confondendo lo stravolgimento in atto del ruolo e delle funzioni del Senato con una semplice modifica del sistema elettorale».
Altre violazioni? 
Quella commessa l’ultimo giorno dei lavori del Senato, il 2 ottobre, nel quale si trattava di votare l’art. 2 del disegno di legge che modificava l’art. 57 della Costituzione. La maggioranza, pur di non confermare l’elettività diretta del Senato, che consegue dall’art. 1 della Costituzione, che garantisce al popolo l’esercizio della sovranità “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ha partorito un monstrum inconcepibile nel testo di una Costituzione. Ha approvato, nello stesso articolo, due commi tra loro antitetici: uno che prevede che i senatori saranno eletti dai Consigli regionali, l’altro che tale elezione dovrà avvenire “in conformità alle scelte degli elettori”. Dunque o l’elezione da parte dei Consigli regionali sarà meramente riproduttiva della volontà degli elettori e quindi inutile; oppure se ne distaccherà, e in tal caso finirebbe per violare l’art. 1 sopra riportato, che garantisce appunto l’elettività diretta degli organi titolari della potestà legislativa, come tra l’altro sottolineato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014.

"La miseria genera odio" o meglio Charlotte Brontë l'eterna signora del longseller

da: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/12/29/charlotte-bronte-leterna-signora-del-longseller40.html?ref=search

"La miseria genera l'odio": è l'epigrafe scelta da Lord William Beveridge per presentare all'attenzione degli inglesi una "Relazione sulla piena occupazione in una società libera". Il titolo diceva tutto. Dopo quello del 1942, mentre la guerra dilagava nel mondo, dedicato alla protezione e sicurezza sociale, era questo il secondo Piano Beveridge voluto dal governo conservatore di Winston Churchill per predisporre i programmi della ricostruzione postbellica, a cominciare dal lavoro e dall'occupazione. La prefazione di Beveridge alla Relazione aveva la data di giugno 1944, quando gli Alleati erano appena sbarcati in Normandia e liberato Roma. Ma nelle librerie di Londra arrivavano racchiusi in un volume di oltre seicento pagine, un messaggio di pace, di giustizia sociale e la speranza di un
futuro assolutamente nuovo. Nasceva infatti il Welfare State.
«Debbo a mia moglie – scriveva Beveridge nella prefazione – la citazione che appare nel frontespizio. Essa è tratta da quello che Charlotte Brontë, nel secondo capitolo di Shirley, dice dei tessitori su telai a mano, i quali centoventicinque anni fa furono portati alla disoccupazione e ad una miserevole rivolta dall'introduzione dei telai meccanici per maglieria. È questo il mio testo fondamentale. Il male maggiore della disoccupazione non è fisico ma morale; non il bisogno che essa può generare, ma l'odio e il timore che alimenta. Così come il male maggiore della guerra attuale non è fisico ma spirituale: non le distruzioni delle città e l'uccisione delle persone, ma il pervertimento di tutto quello che costituisce la parte migliore dello spirito umano, per servire a scopi di distruzione, di odio, di crudeltà, di inganno e di vendetta». Queste le parole di Beveridge che suggerivano, nell'accostare i disastri della guerra alla perdita del lavoro, l'idea guida, l'ispirazione filosofica della Relazione. Le riporto nella traduzione che per l'editore Einaudi ne fece nel 1948 l'economista Paolo Baffi, futuro, impeccabile governatore della Banca d'Italia. Ispirazione filosofica, ma anche letteraria. E allora lasciamo la parola proprio a Charlotte Brontë: nel 2016 l'Inghilterra e il mondo festeggeranno il duecentesimo anniversario della nascita: 21 aprile 1816. Divenne famosa per Jane Eyre, il bellissimo romanzo apparso nello stesso anno, il 1847, in cui veniva pubblicato Cime tempestose della sorella Emily. Due scrittrici che con queste opere di grande successo hanno lasciato un segno profondo nella letteratura moderna. Jane Eyre era una donna, e una donna è Shirley, protagonista, insieme a un'altra suggestiva figura femminile, Caroline, del romanzo successivo pubblicato nel 1849,da Charlotte. Le date dei tre romanzi ci riportano ad anni decisivi e travagliati della vita politica dell'Inghilterra e di tutta l'Europa al cui centro, il 1848, maturava anche una rivoluzione dei diritti civili, sociali e di liberazione delle donne, delle identità nazionali, dei popoli oppressi. Ebbene con Shirley Charlotte voleva raccontare non solo complessi problemi psicologici e singolari costruzioni esistenziali che coinvolgevano l'universo femminile, ma anche il tessuto reale e storico di una società come quella inglese sconvolta dalla rivoluzione industriale e dai suoi effetti culturali e sociali. Shirley è dunque un romanzo storico sullo sfondo anche della guerre napoleoniche, delle conseguenti crisi economiche e del sistemi produttivi di quei primi anni dell'Ottocento che apparivano pieni di "magnifiche sorti e progressive". Dove tra le minacce più gravi agli equilibri e alle consuetudini civili vi era certamente l'introduzione delle macchine, l'accelerata sostituzione del lavoro umano, l'"alienazione" dei lavoratori nelle fabbriche, lo squallore della disoccupazione e della povertà nelle città e nei distretti industriali. Il "luddismo", cioè la distruzione delle macchine ne fu il primo, immediato segno. «La miseria genera l'odio: l'indigente odiava le macchine che, a suo avviso gli toglievano il pane; odiava gli stabilimenti che le ospitavano; odiava i proprietari di quegli stabilimenti…». Parole che introducono pagine di eccezionale significato storico oltre che poetico. Nel raccontare queste cose Charlotte con Shirley superava di gran lungo le patetiche descrizioni sociali dickensiane per cogliere invece quelle ricadute morali e spirituali di un mondo in trasformazione di cui parlerà Beveridge e per riconoscere però anche nelle macchine il disegno di una "civilizzazione" da analizzare nel profondo, oltre le leggi inesorabili del profitto capitalistico e dimostrando così di essere una delle più acute osservatrici della società contemporanea. Morta giovane nel 1855, Charlotte è stata sempre una presenza importante, grazie soprattutto a Shirley, nel panorama letterario e politico inglese (da Marx a Virginia Woolf). Il lettore italiano ha in questi giorni l'occasione di leggere finalmente e contemporaneamente sia il romanzo di Charlotte, grazie alla traduzione di Fedora Dei per Fazi (pagg. 686, euro 16,50), sia la documentata e commossa biografia che di Charlotte pubblicò nel 1857 la sua amica e quasi coetanea Elizabeth Gaskell, tradotta per la prima volta da Castelvecchi (trad. di Simone Buffa di Castel ferro, pagg. 461, euro 22).
Il fascino di Shirley è nella compenetrazione tra poesia, storia, descrizioni splendide della natura e dei paesaggi umani. È nella sua struttura critica e dialettica. Charlotte Brontë, figlia di un colto e illuminato pastore anglicano, non esaltava certo la violenza dei luddisti ma la "capiva". Però il personaggio maschile del romanzo, Robert Moore, col quale si intrecciano i sentimenti amorosi di Caroline e di Shirley, è un imprenditore capitalista serio e moderno che nelle macchine vedeva l'occasione di una evoluzione sociale e civile. Gliele distruggeranno e col romanzo Charlotte svelava anche una amara e diversa verità: la lotta di classe e l'esordio del conflitto tra capitale e lavoro. La storia di Shirley è dunque una storia di sentimenti e d'amore e ha per sfondo le guerre napoleoniche e il blocco continentale, ma c'erano altri fondali di cui bisognava tener conto. Charlotte pubblicando il romanzo sapeva bene che due anni dopo si sarebbe aperta a Londra la prima, grande Esposizione Universale che avrebbe esaltato proprio la modernità delle macchine. Il successo decretato dai lettori di
Shirley fu anche in questa doppia verità poetica e storica. Non sappiamo se anche Cavour, che frequentava il mondo liberale e economico inglese, abbia letto Shirley, ma in un articolo del 1850 scriveva: «A nostro avviso l'Esposizione generale di Londra è il più bel "congresso della pace" che possa immaginarsi, è il primo passo nel gran problema la cui soluzione è riserbata alla seconda metà di questo secolo... Mentre si agitano in tutte le parti di Europa le questioni politiche, religiose, sociali, l'umanità non trascura il suo progresso industriale, alla cui testa si pone l'Inghilterra…».