Se è solo Berlino a dettare legge alla Grecia e all’Eurozona

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L’Europa tedesca è altrettanto realistica dell’acqua secca o del legno ferroso. Lo conferma la tragedia greca, di cui stiamo sperimentando solo le prime battute.

Pur di preservare la sua stabilità la Germania ha esportato instabilità nel resto d’Europa, a cominciare dalla periferia mediterranea. Sotto il profilo economico e monetario, propugnando una ricetta unica – la propria – per contesti radicalmente diversi, sicché senza le pressioni americane e ilpragmatismo di Mario Draghi l’Eurozona sarebbe già saltata da tempo sotto i colpi dell’austerità.

Sotto il profilo geopolitico, rifiutandosi di assumere ogni responsabilità nelle crisi del Mediterraneo e lasciando che lo scontro sull’Ucraina fosse appaltato ai baltici, per i quali la distruzione della Russia è obiettivo appetibile. E adesso lasciando andare Atene alla deriva.

Smottamento economico, sociale e geopolitico che infragilisce l’euro e completa la destabilizzazione delle nostre frontiere mediterranee dopo la disintegrazione della Jugoslavia (incentivata dalla coppia austro-tedesca) e della Libia (follia franco-britannica), per tacere del Levante in fiamme e delsolipsismo turco.

Certo, il cuore tedesco del Vecchio Continente tiene. Ma al prezzo della liquidazione dell’idea stessa di Europa. Perché questo è il verdetto della crisi greca, qualunque sia il suo esito. Ci siamo scoperti tutti avvinghiati al presunto interesse particolare. Con la massima potenza economica continentale incapace di dirimere la più acuta crisi mai vissuta dalla scoppiatissima famiglia comunitaria. E nemmeno tanto desiderosa di farlo, nell’illusione che la Grexit sia faccenda greca, destinata a risolversi da sola incentivando l’autoesclusione di Atene dall’Eurozona. Dopo di che la vita continuerà come prima, meglio di prima. Ma poi, fino a quando Berlino potrà considerarsi immune dalle crisi che ha contribuito a suscitare, non fosse che per neghittosità?

Molti in Germania ambiscono a trasformarsi in Grande Svizzera, con i ponti levatoi alzati. Fisicamente e mentalmente. Si sentono protetti dalle alte mura della propria invidiabile fortezza, che esporta deflazione e importa liquidità grazie alla potenza commerciale, surrogando gli stagnanti mercati europei con la Cina. Già la Svizzera non è più un’isola felice, figuriamoci se può diventarlo la Germania.

La galoppante deriva europea nasce da un equivoco. Caduto il Muro, francesi, italiani ed altri soci comunitari si convinsero che l’ora dell’Europa americana (e sovietica) fosse finita: toccava finalmente all’Europa europea. Per questo convincemmo i più che riluttanti tedeschi a scambiare il marco con l’euro e a diluire la Bundesbank nella Banca centrale europea, in cambio della nostra altrettanto insincera benedizione all’unificazione delle due Germanie.

Nel giro di pochi anni, la forza economica della Germania e la somma delle debolezze altrui finirono per germanizzare l’euro. Ma l’egemonia tedesca si è fermata alla politica economica e monetaria. Anche qui mostrando la corda delle sue fissazioni ordoliberiste. Nella tempesta scatenata 7 anni fa dalle dissennatezze della finanza privata americana, Berlino ha reagito infliggendo ai partner lezioni di ortodossia rigoristica dal forte retrosapore ideologico. L’austerità come bene in sé, sempre e dovunque. Come scrive Hans Kundnani, direttore delle ricerche all’European Council on Foreign Relations, nel suo The Paradox of German Power di prossima pubblicazione presso Mondadori, l’instabilità diffusa dalla Germania in Europa è figlia di «una nuova forma di nazionalismo tedesco, basato sulle esportazioni, sull’idea di ‘pace’ e sul rinnovato sentimento della ‘missione’ germanica».

Testimoniato dalle acrobazie geopolitiche di Angela Merkel, che l’hanno vista talvolta allinearsi con Pechino, Mosca, Brasilia e Pretoria, oltre che dal montante antiamericanismo nella società tedesca. Con ciò mettendo in discussione la stessa appartenenza della Bundesrepublik a ciò che resta dell’Occidente.

Qui emergono anche le nostre responsabilità. Dalla paura della strapotenza tedesca che obnubilava François Mitterrand, Margaret Thatcher e Giulio Andreotti, siamo scivolati verso una sterile corrività verso il presunto egemone. Sterile perché abbiamo pensato che ai tedeschi bastasse qualche scappellamento retorico per considerare le “cicale” mediterranee degne di appartenere all’Euronucleo – la moneta delle “formiche” evocata da Wolfgang Schaeuble nel 1994, cui l’attuale superministro delle Finanze non ha mai cessato di pensare.

Insieme, restiamo sufficientemente corrivi da rinunciare a ridisegnare l’unione monetaria in nome di un’idea politica di Europa, così condannandoci alla marginalità nel farraginoso processo decisionale comunitario. Francia compresa, perché fin troppo consapevole della sua vulnerabilità sui mercati finanziari, nel momento in cui osasse smarcarsi dall’ombra lunga della Germania.

Sui funesti errori che hanno portato la Grecia nel burrone dal quale difficilmente potrà riemergere nei prossimi anni, inutile diffonderci. Troppi,troppo evidenti, troppo ripetuti. Purché questo non diventi un alibi per accomodarci alla deriva greca (e cipriota) verso lidi mediorientali o russo-ortodossi. L’impresa sarà improbabile, ma vale la pena tentarla.

Aiutare Atene a non affogare, dismettere i panni del moralismo e della facile censura, per sporcarsi le mani con quel solidale pragmatismo che può almeno alleviare la vita quotidiana di un popolo alla disperazione.

La risalita dell’Europa passa per la salvezza della Grecia. Con il contributo di tutti, italiani in testa, in quanto prima grande nazione europea esposta alla risacca ellenica.

Non per peloso “umanitarismo”, come stizzosamente suggerito da qualche politico nordico. Per puro senso di responsabilità nazionale ed europea.

La Corte dei Conti: "Ora meno tasse l'emergenza è finita"

ROBERTO PETRINI
da: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/06/12/la-corte-dei-conti-ora-meno-tasse-lemergenza-e-finita31.html

ROMA . Messa alle spalle la recessione, evitate manovre restrittive nel corso del 2014 e sostanzialmente consolidato il rispetto del limite del 3 per cento, è ora di «riportare la discussione sui veri nodi strutturali della finanza pubblica italiana» e per farlo ci vuole un nuovo «patto sociale » volto a riscrivere il Welfare State e «riorganizzare i servizi ». 

Mentre il paese si trova ancora una volta in un clima di impasse, la Corte dei Conti si assume la responsabilità di lanciare un messaggio politico al governo e al Parlamento. Nel corposo e dettagliato «Rapporto sulla finanza pubblica 2015», illustrato ieri dal presidente Raffaele Squittieri in Senato, la magistratura contabile sollecita, finita l'emergenza, l'esigenza di riportare in prima linea l'iniziativa su conti pubblici, tasse e riforme strutturali.

Le manovre della crisi, dal 2009 al 2014, dice la Corte, sono state conseguite soprattutto sul lato delle entrate: l'aumento del gettito è stato di 55 miliardi, mentre la spesa attribuibile sostanzialmente a Welfare e prestazioni sociali è continuata ad aumentare totalizzando una crescita di 16 miliardi. L'effetto di riduzione c'è stato invece sul resto della spesa primaria corrente (dagli investimenti, ai beni e servizi e agli stipendi) che è precipitata di 21 miliardi.
Una situazione che deve essere corretta: per riprendere la crescita sarà necessario un «effettivo allentamento della pressione fiscale» processo che al momento sembra ostacolato dalle «incertezze» e dalle «difficoltà » che riguardano la piena attuazione della spending review e dal «permanere di un elevato grado di rigidità nella dinamica delle prestazioni sociali». 

Senza contare che per assicurare la sostenibilità futura dei conti pubblici è necessario prevedere per l'Italia un tasso di crescita pari all'1,5 per cento annuo di Pil e un ritorno della disoccupazione al 7 per cento. Obiettivi che , dice chiaramente la Corte dei Conti, necessitano di «interventi profondi», maggiore produttività e «ritorno della centralità » del tema delle riforme strutturali.

L'elenco di criticità sulle politiche economiche e di bilancio offerto dalla Corte dei Conti è ampio e comincia dal "fallimento" del processo di autonomia di spesa e tassazione da parte dei livelli locali di governo previsto fin dalla fine degli Anni Novanta dal processo del federalismo.

La pressione fiscale «periferica »è raddoppiata in vent'anni, spiega la Corte, passando dall'11,4 del 1995 al 21,9 del 2014. Tutto ciò per effetto di «scelte del governo centrale» senza che l'autonomia di spesa degli enti locali sia aumentata.

Siamo in ritardo con il taglio delle agevolazioni fiscali (la maggioranza dei 202 provvedimenti varati in materia tra il 2008 e il 2014) le hanno estese. Flop della lotta ll'evasione: nello stesso periodo si attendevano 145 miliardi invece ne sono arrivati solo 64 (il44%).
La pressione fiscale "periferica" raddoppiata in vent'anni ma senza benefici per gli enti locali.