Migranti, così si ferma 
l’esodo dall'Africa (English and French Colonialism in Africa)

Bastano pochi euro per creare lavoro in Africa e rallentare il flusso. Perché a nessuno piace emigrare. Ma i rari progetti italiani vengono chiusi dall’Europa. Mentre Parigi e Londra sfruttano le risorse dei Paesi che erano loro colonie. Però respingono i profughi.

DI FABRIZIO GATTI DA NIAMEY (NIGER)
da: http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/06/22/news/migranti-cosi-si-ferma-l-esodo-dall-africa-1.217579?ref=HEF_RULLO

L'alternativa all’emigrazione in Europa, al caos umanitario, ma anche all’idea di bombardare i barconi in Libia, costa davvero poco.


Con venticinquemila euro, a Sud del deserto del Sahara si possono creare venti posti di lavoro. Con i 746 milioni consumati dall’Italia per l’emergenza sbarchi nel 2014, daremmo un’attività duratura a 597 mila persone.

Con i due miliardi e 288 milioni spesi dal nostro governo negli ultimi quattro anni, avremmo potuto far lavorare un milione e 830 mila uomini e donne. E garantire una ricaduta positiva sulle loro famiglie per un totale di dodici milioni e ottocentomila persone.
In altre parole, con un investimento di 180 euro per persona in Africa e un progetto decente, e soprattutto gestito dai beneficiari, potremmo alla fine fermare al via gran parte degli emigranti in cerca di lavoro. Destinando così l’accoglienza in Europa a quanti chiedono asilo o protezione umanitaria perché davvero in fuga da guerre o dittature: come siriani, eritrei e somali. Il successo dell’esperimento è tutto qui, nel caldo torrido di Makalondi, sulla strada nazionale che dal Burkina Faso porta a Niamey, la capitale del Niger.

Un successo talmente a buon mercato che proprio in questi giorni il progetto, avviato nel 2012 dall’associazione piemontese “Terre solidali” e dall’Università di Torino, verrà chiuso e archiviato dall’Unione Europea. Non è una bocciatura. Funziona proprio così. Bruxelles ci mette il 75 per cento dei soldi necessari, gli altri bisogna trovarseli. Poi però i risultati devono essere raggiunti e rendicontati all’Ue in appena tre-quattro anni, in modo che il commissario di turno possa appropriarsi di cifre e applausi nel corso del mandato. 

L’Europa industriale sta depauperando il continente da secoli, ma noi pretendiamo che gli africani si rimettano in piedi nel giro di trentasei-quarantotto mesi. Con questi cappi al collo, qualunque Sergio Marchionne troverebbe più conveniente e capitalistico pagarsi il viaggio sul barcone.

Ridotta al caos la Libia, quello del Niger è il primo governo che si incontra a Sud di Lampedusa. Dovremmo chiederci perché negli ultimi quindici anni, da quando l’Africa ha cominciato a sbarcare, i progetti efficaci come quello di Makalondi siano rimasti una rara eccezione. E la risposta non è difficile da trovare. Eccola in bella mostra sotto i 47 gradi all’ombra del piazzale dell’aeroporto internazionale di Niamey. A sinistra, dalla pancia di un gigantesco aereo da trasporto, l’esercito di Parigi sta scaricando armi, container e mezzi per l’operazione militare “Barkhane” che dalla scorsa estate attraversa Ciad, Niger e Mali.

A destra, è parcheggiata la flotta di aeroplani noleggiati dalle organizzazioni che partecipano alla globalizzazione umanitaria: Nazioni Unite, Programma alimentare mondiale, Organizzazione mondiale della sanità. 
Il bastone e la carota, con cui il mondo ricco ha sempre dominato. È immorale che in queste ore, lassù alla frontiera di Mentone, sia proprio la Francia a impedire la libera circolazione di persone, come accade in occasione di gravi fatti di criminalità. Come se fossimo noi italiani i criminali, per aver scelto di portare soccorso in mare e ridurre il numero dei morti.

"I naufragi non ci fanno paura". Viaggio in Niger con chi arriverà in Europa

Navigazione per la galleria fotografica
1 di 32Immagine PrecedenteImmagine SuccessivaSlideshow



Mentre lo stesso governo di Parigi continua a produrre instabilità, povertà e profughi con i suoi piani strategici a sud del Sahara. 
In questi ultimi drammatici mesi, l’Unione Europea era forse troppo scossa dal massacro di “Charlie Hebdo” per rendersene conto. Ma visti da qui, i responsabili del caos dal 2011 in poi non sono certo le migliaia di persone sbarcate. E nemmeno gli italiani che le hanno soccorse. La voce è quella di Jean-Pierre Chevènement, già ministro francese della Difesa e dell’Interno, in un’intervista a “Le Figaro”: «Nel 2011 noi abbiamo distrutto la Libia... sotto la guida di Sarkozy. Abbiamo violato la risoluzione delle Nazioni Unite, che ci dava il diritto di proteggere la popolazione di Bengasi, e ci siamo spinti fino al cambiamento del regime».


Di fronte al disastro umanitario, il presidente del Niger,Mahamadou Issoufou, è altrettanto diretto: «Bisogna che francesi, americani e britannici vadano in prima linea a riparare i danni che hanno provocato», dice al quotidiano “Le Parisien”: «Che ci assicurino le service après-vente», il servizio post-vendita, aggiunge con ironia il presidente nigerino. Per ora, però, il servizio offerto dal governo socialista di Manuel Valls sono i gendarmi alla frontiera meridionale. E l’ordine perentorio: «I migranti non passano, se ne devono occupare gli italiani». 
Posizione in sintonia con il collega britannico David Cameron, che sulla proposta di trasferire almeno quarantamila rifugiati da Italia e Grecia, si rifiuta di accogliere un solo straniero al di là della Manica.

Makalondi, municipio rurale di ottantamila abitanti appena oltre la frontiera, è il primo cartello del Niger lungo la rotta percorsa ogni mese da almeno diecimila ragazzi e poche ragazze che da tutta la regione del Sahel, da Gambia, Senegal, Mali, Niger e Nigeria, continuano a salire verso la Libia e l’Europa. Fino a vent’anni fa questa era una regione semiarida di alberi d’alto fusto. Ora è una distesa di sabbia, cespugli e arbusti. La costante riduzione delle piogge e la necessità di energia hanno aperto il paesaggio al deserto. La capitale brucia per cucinare mille tonnellate di legna al giorno e nel giro di pochi anni hanno tagliato anche gli alberi di Makalondi.


"Progetto italiano crea lavoro con 20 euro. L'alternativa soft alle bombe contro i barconi"

Navigazione per la galleria fotografica
1 di 38Immagine PrecedenteImmagine SuccessivaSlideshow





I venticinquemila euro del progetto italiano sono stati affidati a un’associazione di donne che ha scelto in autonomia come investirli: hanno aperto un laboratorio alimentato a energia solare per la trasformazione e la vendita di cereali e per la produzione di mangimi animali macinati dagli scarti dell’agricoltura. Non è stato facile, all’inizio. «I progetti di cooperazione decentrata della Regione Piemonte andavano molto bene», racconta Stefano Bechis, ricercatore del dipartimento di Economia e ingegneria agraria (Deiafa) dell’Università di Torino: «Finché è arrivata la giunta Bresso che li ha resi più difficili da gestire. E infine il presidente leghista Cota, che da una parte diceva che gli africani vanno aiutati a casa loro e dall’altra chiudeva la cooperazione regionale decentrata. Come volesse aiutare gli africani chiudendo la cooperazione, è un mistero di quella mente eccelsa dell’ex governatore».

Il progetto per il laboratorio però è sopravvissuto ai cambi di rotta della Lega grazie all’approvazione di Bruxelles, all’autofinanziamento e a una donazione della Valle d’Aosta. Ed ecco Catherine Yonli Banyoua, 38 anni, la responsabile, e Madan Terigaba, 42, la tesoriera della piccola impresa, sedute a confezionare pacchi di cuscus con altre sette donne.
«Fino a tre anni fa qui non c’era più raccolto», spiega Catherine, «il progetto ha riportato lavoro e cibo. Abbiamo clienti che rivendono i prodotti in Ghana. Siamo solo donne perché la trasformazione del raccolto la fanno le donne. Agli uomini toccano i lavori pesanti». 

Nessuno ha parenti saliti sui barconi? «No», sorride lei, «nessuna di queste famiglie ha intenzione di andare in Europa. Se c’è lavoro, nessuno si muove». 

Ousseini Adamou, 46 anni, e Paolo Giglio, 62, partito da Ivrea per l’Africa quarantadue anni fa, hanno seguito la formazione del personale e l’avviamento.

I venticinquemila euro iniziali sono serviti anche per l’acquisto di pannelli solari e batterie cinesi, più a buon mercato. Raccontano che da gennaio 2014 il laboratorio è autonomo, non riceve più soldi. Le donne trasformano e confezionano sei quintali di prodotti al mese: miglio, cuscus, farina di grano, bevande a base di cereali. E incassano ciascuna uno stipendio di 30mila franchi, quasi 46 euro. Metà viene impiegata per vivere, metà depositata sul conto dell’impresa per la manutenzione dei due congelatori e la sostituzione delle batterie tra tre anni. «Hanno già risparmiato tre milioni di franchi», rivela Paolo Giglio, «sono quattromila 500 euro. Avere quella somma a Makalondi è un grande successo.
Non servono costose campagne decise altrove. Occorrono progetti su misura, scelti da chi ne beneficerà. Come hanno fatto le donne di Makalondi. Da anni arrivano da tutto il mondo laureati in diritti umani, antropologia, macroeconomia. Costano tanto e combinano poco. Abbiamo bisogno che ci mandino artigiani, falegnami, fabbri, agricoltori che insegnino il mestiere. Ci vorrebbero tante scuole professionali, come quelle dei salesiani che negli anni Sessanta hanno contribuito a formare gli operai del nostro boom economico».

Tra i progetti a misura di famiglia ce n’è un altro realizzato dall’associazione “Terre solidali” nella zona di Niamey e dalla Ong “Bambini del deserto” di Modena ad Agadez, la porta del Sahara, passaggio obbligato verso la Libia e l’Europa. Si basa sull’intuizione di uno studente di agronomia dell’università di Perugia, Aaron Aboussey Mpacko, 23 anni. Aaron, nato in Camerun e stroncato da un infarto durante una partita di calcio, stava studiando una soluzione che riducesse la distruzione delle foreste per ricavare legna da ardere. Ha così costruito un prototipo semplificato di stufa a gassificazione. Dopo la morte del ragazzo, Stefano Bechis dall’Università di Torino e Paolo Giglio da Niamey hanno portato avanti l’idea.

Oggi 350 famiglie del Niger usano abitualmente stufe Aaron in grado di fornire la stessa energia per cucinare, riducendo però il consumo di legna del 75 per cento. Sono grandi quanto un bidone, larghe poco più di una pentola e sono state costruite da tre fabbri nella bolgia del mercato di Katako, il cuore popolare della capitale.

Il processo di gassificazione non brucia legno, ma estrae gas dalla biomassa dei pellet ricavati dalla macinatura di scarti agricoli ed eventualmente da altra legna. E come residuo fornisce il 30 per cento del peso in carbone vegetale, riutilizzabile in stufe tradizionali oppure come concime. Secondo lo studio dell’Università di Torino, con questo sistema l’attuale fabbisogno annuo di legna in tutto il Sahel basterebbe per quattro anni. Si creerebbero posti di lavoro per la produzione e la commercializzazione delle stufe e del pellet. E si ridurrebbero le malattie respiratorie di donne e bambini poiché la fiamma non produce fumi.

Il passo successivo prevede la piantumazione di alberi, sfruttando il bosco per stabilizzare il suolo e coltivare cereali nella penombra. «Soltanto con la potatura dei rami di cinquanta ettari si potrebbe dare energia a 500 famiglie», spiega Giglio. Si tratta di energia a prezzi accessibili. Costruire una stufa Aaron in Niger richiede 24 euro. Ma grazie a una parte del milione e 100 mila euro finanziati dall’Ue per una rete di interventi, sono state finora vendute a circa 6 euro. «L’Unione Europea ci ha dato fiducia. Con il progetto “Niger Energie” un migliaio di persone delle fasce più deboli mangia in modo adeguato», spiega Laura Alunno, presidente di “Terre solidali”, «e diffonde un modello socioeconomico che si basa sull’associazionismo e sul rafforzamento delle capacità locali. Siamo consapevoli che questi progetti sono una goccia nel mare. L’Africa ha bisogno di infrastrutture e di vendere al miglior offerente le proprie risorse. Se all’Africa venisse data questa opportunità, l’emigrazione si fermerebbe».

La tensione senza precedenti tra governi europei in questi giorni fa assomigliare l’Unione di Jean-Claude Juncker alla fallimentare Società delle Nazioni che accompagnò il pianeta alla Seconda guerra mondiale. Sullo sfondo, il piano militare per bombardare i pescherecci libici potrebbe essere approvato a fine giugno e aprire il Mediterraneo a ulteriori sconvolgimenti.

Non abbiamo nemmeno capito che tutto questo non servirà a nulla se chi parte ha la determinazione di Ebrima Sey, 32 anni, in viaggio con l’idea di trovare un lavoro ovunque in Europa. Il suo obiettivo è sfamare la moglie e il figlio Wally, 2 anni, rimasti ad aspettare a Serekunda, la principale città del Gambia. È partito da 34 giorni e alle tre del pomeriggio scende alla stazione degli autobus a Niamey. Con Ebrima, ecco altri 76 emigranti di Gambia, Senegal, Mali, tutti con l’intenzione di andare in Libia. E poi in Italia. Ebrima indossa la maglia della nazionale francese, numero di Zidane sulla schiena e un solo zainetto come bagaglio, il flacone di shampoo, l’asciugamano, le ciabatte di gomma, il diploma dell’istituto tecnico per “saldatori metalmeccanici” e il certificato della polizia di Banjul da cui risulta che è libero da denunce e condanne.

Lui è certo che gli serviranno in Europa. «Sono partito», racconta, «perché mia moglie mi chiedeva soldi per comprare cibo e io senza un lavoro stabile non ne avevo». Come paga il viaggio? «Ho venduto il mio motorino e ho un numero di telefono per chiamare chi mi manda i soldi. È mio cugino». Come lo rimborserà? «Quando lavorerò in Italia, lo rimborserò». Ha conoscenti già sbarcati in Italia? «Conosco nove gambiani già arrivati in Italia». Ha paura dei pericoli del deserto? «No». Sa che c’è una guerra in Libia? «Sì». Non ha paura di essere sequestrato o ucciso in Libia? «No». Ha saputo delle migliaia di morti annegati tra la Libia e l’Italia? «Sì, avevo un piccolo computer. L’ho visto su YouTube». Non ha paura che possa capitare anche a lei? «No, non ho paura perché ho fede. So che Dio mi guiderà».

La sua sicurezza vacilla solo sulle informazioni pratiche del viaggio. In quanti giorni si aspetta di arrivare in Italia? «Tre, quattro settimane», risponde Sey con eccessivo ottimismo. Quanto pensa di pagare per arrivare in Europa? «Duecento, trecento euro». I libici chiedono milleseicento dollari americani per attraversare il mare. «Per arrivare in Italia?», domanda lui. Sì. «Non lo sapevo». Guarda a lungo nel vuoto. «Però in Libia potrò lavorare per mettere da parte i soldi», dice subito dopo. E quando si aspetta di rivedere suo figlio? Davanti a obiettivi così forti come il sostegno alla propria famiglia, i sentimenti vengono pigiati in fondo al cuore dagli imperativi che la mente si impone. La domanda è involontariamente intima. Gli occhi di Ebrima cominciano a luccicare. Poi esplodono come il crollo di una diga in un pianto inconsolabile. Stanotte che doveva essere l’ultima, prima di raggiungere il deserto, ha parlato al telefono con sua moglie. E sfinito, sdraiato su un tappeto di plastica della stazione, si è addormentato con il cellulare in mano. Gliel’hanno rubato con tutti i contatti registrati in memoria per continuare il viaggio.

Il Gambia, 172esimo Paese su 187 per indice di sviluppo, nel 2014 ha dato all’Italia 8.556 richiedenti asilo. Quest’anno sono 3.115 i connazionali di Ebrima già arrivati: il sesto gruppo dopo Eritrea, Mali, Nigeria, Somalia, Siria e davanti a Senegal e Sudan. Il presidente del Gambia, Yahyah Jammeh, un ex militare al potere dal 1994, ha fatto parlare di sé un mese fa promettendo di tagliare la gola ai giovani che si dichiarano gay. L’Unione Europea, che l’ha sostenuto nel suo piano di privatizzazioni da fare invidia a Henry Ford, sei mesi fa gli ha tolto i finanziamenti. Il disastro economico all’inseguimento di una crescita squilibrata del Pil, che nel 2014 era al 4,6 per cento, è arrivato quest’anno con un meno 1,4. Come sempre, paga il popolo.

Probabilmente nelle prossime settimane vi spalmerete sulla pelle il biossido di titanio estratto a tonnellate dalle sabbie del Gambia: è la protezione bianca contenuta nelle creme solari. Stiamo parlando del più piccolo Stato dell’Africa continentale: un milione 970 mila abitanti appena, compresi i minori sotto i 15 anni che sono il 46 per cento. Gli adulti in Gambia parlano quasi tutti inglese.

Non perché si siano iscritti al British Institute per corrispondenza.
Ebrima Sey e i suoi connazionali lo parlano perché fino al 1965, un anno prima della nascita dell’attuale premier David Cameron, il Gambia era parte del Regno Unito. Con le dovute proporzioni, la stessa storia si ripete in Mali: colonia francese fino al 1960, 176esima posizione per indice di sviluppo, Paese ora spaccato in due dopo che la Francia è intervenuta per fermare le milizie di Al Qaeda e ha consegnato il Nord a un’altra fazione di terroristi tuareg. E si ripete in Niger: colonia di Parigi fino al 1960, abitanti raddoppiati in quindici anni fino agli attuali 19 milioni 268 mila, il Paese all’ultimo posto nel mondo per l’indice di sviluppo umano, nonostante l’uranio nigerino estratto a costi irrisori dall’azienda statale francese Areva. 

L’uranio che parte da qui accende un terzo dell’energia elettrica prodotta in Francia: un ospedale su tre, un treno su tre, un’industria su tre, una lampadina su tre. Mentre in Niger il 93 per cento degli abitanti non ha accesso all’elettricità. E anche dove c’è, spesso non arriva.

Stanotte, come ieri notte, la temperatura martella le tempie. Sembra di vivere nella “Febbre” di Wallace Shawn. L’aria si appiccica al sudore. Un amico medico dell’Ospedale nazionale rivela che quando manca la corrente e i ventilatori appesi ai soffitti si fermano, tra gli anziani e i bambini ricoverati si muore a grappoli. Muoiono di caldo, di complicazioni. Anche adesso, dice il medico, nell’ennesima notte di questa capitale senza luce.
Nelle stesse, identiche ore in cui a Parigi il presidente François Hollande dichiara che la fuga da questo inferno, dove ancora si parla francese, è un problema che non lo riguarda.

E Stilinga pensa che è scandaloso come Francia, Inghilterra e pure Olanda si siano disinteressate delle conseguenze del loro colonialismo africano, tanto poi scaricano sui paesi mediterranei e però si dichiarano stati civili! 

Ma chi ci va più a fare turismo in Inghilterra, Francia e Olanda? 
Ma chi compra più i loro prodotti? 

I politici idioti che governano questi paesi si guardassero allo specchio, in quanto non possono farsi un'esame di coscienza, visto che la coscienza non l'hanno mai avuta.

Alaia: i giovani escono dalle scuole e vogliono essere subito grandi

da: http://www.corriere.it/moda/news/15_giugno_19/alaia-giovani-escono-scuole-vogliono-essere-subito-grandi-1bff62ce-16ac-11e5-9531-d169a57fe795.shtml

Azzedine Alaïa, tunisino di nascita, francese di vita, classe 1940, stilista fra i più venerati al mondo, restìo ad apparire, figurarsi a parlare, preferisce da sempre esprimersi con i suoi abiti che raccontano di curve e dolcezze, di materia e spazio, di rispetto e bellezza. E di tempo che non passa.
di Paola Pollo
Non è dunque strano se a luglio saranno alla Galleria Borghese, fra le meraviglie del Bernini e del Canova, 80 pezzi «adattati», come dice lui. «Saranno grandi come le statue. Ma mai invadenti e invasivi: la gente è li per vedere le opere d’arte, non i miei abiti!». Eppure quando attraversa corso Como, a Milano, qualche ora prima di presentare il suo nuovo profumo, più di una persona bisbiglia: «Guarda c’è Alaïa!».
Non si è mai pentito di aver scelto la strada della discrezione? Sfilate fuori dai circuiti, niente pubblicità e rare apparizioni?
«Non tornerei indietro».
Fare moda oggi è?
«Qualcosa di diverso da un tempo. I ritmi sono disumani, ci sono troppe collezioni. E personalmente non ne vedo l’utilità. E poi i prezzi sono esorbitanti. A volte vado nelle boutique e quando giro i cartellini non ci posso credere! Penso sempre a quella ragazza che compererà quell’abito e che dovrà avere un budget incredibile e uno stipendio altrettanto enorme».
Sta dicendo che la moda è tutta un bluff?
«No, quello no. Semplicemente ha un ritmo inutilmente frenetico a causa delle esigenze industriali. Io ho un po’ di libertà, io rispetto gli altri e le esigenze, ma contesto questo sistemo e ne sono uscito».
Spesso a Parigi la si vede in prima fila dai colleghi: ci sono artisti, le star, i business man...Le piacciono insomma i nuovi designer?
Ride. «Non va forse così il mondo? la gente si adatta. Io preferisco il mio studio, che credo sia il più piccolo al mondo, con due soli assistenti».
La sua giornata?
«Dormo poco, 4-5 ore. E lavoro sempre. Non è una corvè per me. Io mi diverto. E ho incontrato e incontro sempre gente meravigliosa».
Lei dice sempre che il mondo è «troppo» pieno di vestiti
«Tutti i giorni, ovunque, si aprono boutique: le pasticcerie diventano boutique, le panetterie diventano boutique, i fioristi diventano boutique, ma è anche vero che ci sono tanti stoccheristi! D’altronde non si lascia neppure il tempo alla gente di scegliere e acquistare. Dopo una collezione, subito un’altra. E cosa succede? Che una camicia che ho disegnato nel 2005 e che allora nessun acquistò, quest’anno è stata venduta e venduta. Lasciamo il tempo alle donne di scegliere e alla moda di essere scelta. Non si può spingere la gente a consumare».
All’orizzonte che c’è?
«È difficile per un giovane, da solo, andare avanti. Ma escono dalle scuole e vogliono essere subito grandi».
Colpa dei maestri?
«Non credo. Sono le industrie che spingono perché diventino subito delle star... ma senza passione. Ma capisco e non voglio dare consigli né tantomeno invitare i giovani a seguire il mio cammino».
Perché no? Diventare Azzedine Alaïa è il sogno di tanti.
«Quando ho cominciato non mi sentivo un immortale. Avevo la mia maison, vestivo le donne ed ero contento. Adesso nessuno ha voglia di aspettare, arrivano in un atelier e dopo poco pretendono il ruolo principale: è pericoloso e poi i posti sono pochi».
Una maison deve sempre sopravvivere al fondatore?
«Io penso che sarebbe meglio si fermasse. E che i giovani cominciassero altre storie, con il proprio nome. Credo oltretutto che sia anche meno caro e più stimolante. Ora per esempio ho sentito dire che qualcuno vuole riprendere il nome di Poiret: ma che bêtise! Non devono».
Lei non ha allievi?
«Vengono. Ma non credo sia bene insegnare la moda, più giusto però imparare a vivere».
Lei sembra odiare il business, però è un uomo di business!
«Per forza, seguo tutto. Dal profumo agli accessori: non mi piace che la gente metta il mio nome su ciò che non conosco».
Moda e tecnologia?
«Fantastica, ma non guardo Internet per ispirarmi mi basta la mia amica-sorella Carla Sozzani».

Quelle leggi mai attuate simbolo di malgoverno


da: http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2015/06/15/news/palazzo_europa-116952815/
Ogni Paese ha i suoi paradossi. Un paradosso tutto italiano è contenuto nel rapporto della Commissione europea sul nostro Paese per il 2015.
 Esso recita così: l'inefficienza della pubblica amministrazione italiana è una delle principali cause della bassa produttività e della bassa crescita del Paese, ma è anche il principale ostacolo ai numerosi tentativi fatti da governi successivi di riformare la pubblica amministrazione. 
Secondo il rapporto, «a metà febbraio 2015, 348 provvedimenti esecutivi che derivano da norme adottate dai governi Monti e Letta sono ancora in attesa di adozione.
 Inoltre 401 misure che derivano dalla legislazione del governo Renzi già pubblicata sulla Gazzetta ufficiale sono ancora in attesa di essere messe in pratica». 
La Commissione europea punta il dito su molti fattori di penalizzazione dell'inefficienza amministrativa: dalla lunghezza degli adempimenti burocratici per aprire un'azienda, alla difficoltà di pagare le tasse; dallo scarsissimo uso di Internet da parte della pubblica amministrazione, alla lentezza della giustizia civile oberata da una mole di arretrati. 
Ma forse, in tempi di Mafia Capitale, la cosa più interessante è la parte dedicata al malgoverno pubblico. «La debolezza della pubblica amministrazione in Italia - è scritto nel rapporto - comprende mancato rispetto delle competenze, mancanza di trasparenza e clientelismo». E la Commissione rinvia allo «European Quality of Government Index», uno studio fatto da Bruxelles che nella sua ultima edizione, del 2013, offre un quadro desolante della qualità della governance pubblica in Italia.
 Dall'indagine risulta che sei regioni italiane, Lazio, Molise, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, hanno il più basso indice di qualità dell'amministrazione pubblica in Europa, a livelli condivisi solo dalle peggiori regioni di Romania, Bulgaria e Turchia.
 Liguria, Abruzzo, Basilicata e Sardegna sono molto al di sotto della media europea. Lombardia, Piemonte, Toscana, Umbria e Marche sono nettamente al di sotto. Veneto ed Emilia sono leggermente al di sotto. Solo Friuli, Valle d'Aosta e Trentino Alto Adige registrano livelli di qualità della pubblica amministrazione che sono invece la norma in Francia, Germania, Gran Bretagna, Austria e Belgio mentre Olanda, Danimarca, Svezia e Finlandia hanno su tutto il loro territorio i massimi livelli di efficienza registrati in Europa. Difficile immaginare che, dal 2013, le cose siano significativamente migliorate. 

Once in Rome, do as the the Romans do!

Maybe you are visiting the eternal city.

And maybe you are really weary of traffic jam, of beautiful but tiring tourism.

And you just want to relax, to free your soul and breathe.

And maybe laugh too so that lots of energy returns in your body.

In the heart of Trastevere, in Via della Luce, 32, there's a Cultural Association, called Gioia Pura, that organizes lots of activities: from laughter yoga to Gibberish conversations, from workshops to free your soul to Reiki sessions and much more.

Just one hour of Laughter Yoga and you'll feel so good that you can climb mountains.

L'origine della crisi? Vedi alla voce "delocalizzazione"

di Riccardo Staglianò 
dahttp://stagliano.blogautore.repubblica.it/

Non hai lavoro. Se ce l'hai, non guadagni abbastanza. Eppure una volta tuo padre, che faceva il tuo stesso mestiere, possedeva una bella casetta e vi portava regolarmente al ristorante e in settimana bianca. «È cambiato il mondo» commenta qualcuno, scuotendo la testa. Con la stessa ineluttabilità che si sfodererebbe davanti a un terremoto. Sì, ma non è successo da solo. E soprattutto non è andata così per tutti se quel tipo che conoscevi con una Porsche ora ha anche due Ferrari. Bisogna passare dalla constatazione (amara, amareggiante, complessivamente inutile) alla domanda (complessa, ma a questo punto ineludibile) che pone, già dal titolo, lo storico Ignazio Masulli nel suo Chi ha cambiato il mondo? (Laterza, pag. 254, e. 18). Perché poteva andare diversamente. La «ristrutturazione tardo-capitalista» in atto dagli anni 70 ad oggi poteva avere esiti diversi, anche opposti. Aumentare l'eguaglianza, come nel dopoguerra, invece che esasperare la disuguaglianza, come nell'800 rievocato dal bestseller di Piketty. Nel determinare la destinazione la scelta della strada non è mai un dettaglio. Noi – l'occidente industrializzato – abbiamo apparentemente imboccato tutte quelle sbagliate, scambiandole per scorciatoie. Verso il precipizio.
L'economia ha cominciato a cambiare strutturalmente a metà anni 70. Ma la causa principale, lei sostiene, non è stata lo shock petrolifero del '73 quanto una «crisi di valorizzazione del capitale». Ci spiega meglio?Significa che si era arrivati a un punto di saturazione del capitalismo dei consumi. Tv, elettrodomestici, auto: se ne erano venduti sin troppi. Ed esportarli nei Paesi meno sviluppati all'epoca era impraticabile. Ciò provocò un calo dei profitti per gli industriali. Ovvero: a parità di capitale investito, l'investitore realizzava un profitto minore. Questo era il problema cui dare risposte. C'era una soluzione difficile ma duratura e una facile. La prima sarebbe stata innovare radicalmente, investire in tecnologie e offrire prodotti nuovi. Era la strada maestra, ma non fu presa.

Si preferirono tre scorciatoie. La prima è la delocalizzazione. In pratica, cosa cambiò?I profitti calano? La risposta più ovvia è tagliare i costi. Per farlo si andò a cercare dove la manodopera costava meno. Il rapporto tra la retribuzione media di un lavoratore cinese rispetto a uno statunitense resta oggi di 396 dollari al mese contro 2970. In aggiunta a questa disuguaglianza tra Paesi, c'era anche quella interna, tra gente di città e gente di campagna, abituata a standard ancora più bassi e che continua a costituire una riserva inesauribile di manodopera low cost.

Lei ha calcolato in dettaglio l'entità di questi investimenti diretti all'estero. Di che cifre parliamo?Enormi. La loro crescita, soprattutto, fu impressionante. Nel 1980 la Francia investiva all'estero (in attività produttive durevoli che creino posti di lavoro) somme pari al 3,6 per cento del suo Pil. Nel 2012 erano oltre la metà (57 per cento) della ricchezza del paese. La virtuosa Germania è passata, nello stesso intervallo, dal 4,7 al 45,6 per cento. Mentre la Gran Bretagna è schizzata dal 14,8 al 62,5. Noi abbiamo registrato una moltiplicazione di quasi venti volte: dall’1,6 al 28 per cento.

È possibile calcolare quanti posti di lavoro sono andati perduti delocalizzando così massicciamente?Io l'ho fatto applicando la legge di Okun (dall'economista che la propose nel '62) per la quale a ogni punto in meno di disoccupazione il Pil cresce di 2-3 punti. Immaginando che quella ricchezza fosse rimasta in Francia, sarebbe equivalsa a circa 5,9 milioni di posti di lavoro potenziali. In Germania 7,3 mentre in Italia i 475 miliardi di dollari spesi fuori sarebbero potuti trasformarsi in 2,6 milioni di posti di lavoro. Non è un caso che quasi tutti i paesi che hanno fatto largo ricorso all'outsourcing siano stati scavalcati nelle classifiche internazionali».

Paradossalmente la delocalizzazione, invece di arrestarla, ha anche moltiplicato l'emigrazione...
Quel modello di produzione si è avvantaggiato delle vecchie contraddizioni nei paesi di destinazione, acuendole. Per i cinesi di campagna non è stato facile trasferirsi in città e lavorare alle condizioni imposte dai committenti stranieri. A quel punto però, fatto il primo salto, è stato più naturale fare anche il secondo e trasferirisi direttamente nei paesi dei committenti, dove guadagnare meglio. Così si è passati da poco o niente ai 7 milioni di immigrati in Francia e Gran Bretagna, i 10 in Germania e i 5 in Italia.

Il secondo importante fattore della ristrutturazione che lei cita è l'automazione. È un solito sospetto dai tempi della prima rivoluzione industriale: cosa sarebbe cambiato stavolta?Che le macchine, grazie al software, hanno incorporato il programma con le istruzioni che la fanno funzionare. Quindi sempre meno bisogno di interventi esterni (più economiche) e sempre maggior autonomia. Prima i robot sostituivano i colletti blu (che magari si riciclavano nei servizi), ora l'algoritmo sostituisce i colletti bianchi, e non c'è più rifugio. Storia ed economia, scienze inesatte, non hanno capacità predittive. Però l'automazione attuale procede a un ritmo inedito che sta innescando un dibattito sempre più preoccupato anche tra gli addetti ai lavori.

Il terzo responsabile è la finanza. Cosa succede e perché?Risparmiando con cinesi e robot si è ridotto l'effetto del crollo dei profitti, ma non si è invertita la tendenza. Ormai sembra che il valore di un'industria dipenda meno dalla qualità del prodotto che dall'immagine finanziaria che è capace di proiettare. Se procedi a ristrutturazioni, con tagli drastici della manodopera, il mercato ti premia. Anche le imprese non finanziarie hanno introiettato questa attitudine.

Spinte dai fondi pensione e dalle grandi assicurazioni?
Sì. Questi enormi raccoglitori di denaro che dovevano garantire una vecchiaia serena ai lavoratori sono diventati sempre più aggressivi. Non gli bastavano più gli interessi declinanti generati dalla manifattura, volevano quelli a due cifre della finanza. Ci hanno investito e convinto anche i consigli di amministrazione che controllavano a farlo. Una volta una banca concedeva un mutuo e intascava gli interessi. Poi ha messo insieme tanti mutui, li ha cartolarizzati, impacchettandoli in prodotti finanziari nuovi e pericolosi, che rivendeva subito sul mercato. Nel 2007 il capitale finanziario valeva 240 trilioni di dollari, ovvero più di quattro volte il Pil mondiale. Un fanta-denaro che, a differenza della finanza delle origini, non serviva a trovare risorse per la produzione ma a far arricchire i già ricchi che potevano permettersi di giocare a quel casinò.
Ecco chi ha cambiato il mondo, negli ultimi quarant'anni. Tra le tante vittime, fa eccezione la Germania. «Ha delocalizzato, sì, però mantenendo una politica industriale e investendo in ricerca e sviluppo. Predica l'austerity per gli altri ma mantiene un welfare robusto. Già dalla Costituzione del '52 prevedeva nelle aziende commissioni paritetiche datori-lavoratori». Ci sono ancora. Da quelle parti hanno chiara la distinzione tra diritti e privilegi. E di avviare i primi a una carriera di modernariato, nonostante la moda del momento, proprio non se ne parla.

COSA DICONO DAVVERO I DATI ISTAT SULLA RIPRESA

da: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/05/30/cosa-dicono-davvero-i-dati-istat-sulla-ripresa29.html?ref=search

di Alberto Bisin

IL PAESE ha finalmente ripreso a crescere; il timore della deflazione è finito. I titoli dei giornali si sprecano, ed è giusto che sia così. Il Paese ha bisogno di buone notizie e la pubblicazione dei conti economici trimestrali da parte dell'Istat permette un qualche ottimismo. Persino il Financial Times titola, "L'Italia torna in piedi". La notizia del ritorno alla crescita mette in secondo piano addirittura le previsioni di tracollo definitivo della Grecia che in questi giorni hanno innervosito non poco i mercati, così come i timori di scoppio della presunta bolla sull'azionario in Cina.
Commentare queste notizie per un economista è sempre compito ingrato. Se il rapido ciclo delle notizie rende i giornali inclini a concentrarsi sui dati congiunturali, una prospettiva più analitica non può che soffermarsi con maggiore attenzione sulle tendenze di crescita dell'economia e quindi sulle indicazioni che le diverse componenti dei dati congiunturali permettono di trarre sulla situazione economica generale. Da questo punto di vista i dati Istat vanno purtroppo letti in modo meno trionfale di quanto non vorremmo fare.
Innanzitutto la crescita del Pil nel primo trimestre 2015 è stata dello 0,1% rispetto allo stesso trimestre dell'anno precedente (questa è la cosiddetta "crescita tendenziale"). Non è molto se confrontata all'1% della Germania, al 3% degli Stati Uniti, al 2,4% del Regno Unito e anche allo 0,7% della Francia. Il risultato è ancora peggiore se si tiene conto che la crisi ha colpito il nostro paese più severamente di questi altri e che quindi sarebbe naturale aspettarsi un effetto "rimbalzo" più pronunciato in Italia. L'immagine che meglio riassume la situazione economica del Paese purtroppo è quella della crescita cumulata del Pil negli ultimi 15 anni. Se il Regno Unito è cresciuto di circa il 30% e l'Eurozona di circa il 15%, l'Italia è rimasta al palo. Zero. Questo è il risultato di una combinazione di tre fattori: una minore crescita fino al 2008, una recessione più profonda fino al 2013, e una ripresa più tarda e più lenta da allora.
Una lettura più ottimistica dei nuovi dati Istat è però chiaramente possibile. I dati sulla crescita tendenziale in Italia patiscono il ritardo della ripresa, che ha notevolmente faticato negli ultimi tre trimestri del 2014. I dati di "crescita congiunturale", relativi cioè all'ultimo trimestre, sono invece più favorevoli, sia in assoluto che relativamente agli altri paesi. L'Italia cresce dello 0,3%, come la Germania e il Regno Unito, e più degli Stati Uniti. Questi sono i dati che potrebbero farci pensare di aver svoltato l'angolo. Difficile a dirsi naturalmente: estrapolare da un trimestre in controtendenza è operazione statisticamente suicida che evito con piacere. Ma un'occhiata ai dati disaggregati è utile per cercare di farsi un'idea più precisa di cosa stia succedendo.
Innanzitutto la crescita del primo trimestre del 2015 è dovuta in misura sostanziale alla crescita degli investimenti fissi lordi e delle scorte, senza un contributo positivo dei consumi finali nazionali. La spesa delle famiglie è leggermente diminuita e quella della Pubblica Amministrazione è aumentata in pari entità percentuale. Questo non è un buon segno naturalmente, nel senso che una solida ripresa dopo una recessione è associata tipicamente ad una rinnovata fiducia dei consumatori e quindi ad una ripresa dei consumi assieme a quella degli investimenti. Anche il fatto che cresca l'Agricoltura e non i Servizi non è un buon presagio: è nei Servizi che si nascondono le maggiori opportunità di sviluppo di una economia moderna e avanzata come la nostra. Anche a "nutrire il pianeta" e produrre "energia per la vita" si arriva attraverso innovazione e tecnologia, è lì che si genera crescita.
Ma il dato più rilevante, non so dire se allarmante, è che la crescita congiunturale degli investimenti si è manifestata in larga parte nel settore Mezzi di trasporto. Sarà anche vero che quando va bene la Fiat va bene il Paese, ma una crescita più omogenea tra settori avrebbe indicato più nettamente una ripresa in atto.
Infine, è necessario anche ridimensionare i commenti sulla fine della deflazione. L'inversione di tendenza dei prezzi è dovuta in parte sostanziale al fatto che il calo dei prezzi dei beni energetici abbia rallentato notevolmente. Il deflatore della spesa delle famiglie residenti e quello degli investimenti sono calati ma non direi in modo preoccupante. La notizia rilevante riguardo ai prezzi è quindi che possibili tendenze deflattive continuino a non manifestarsi.
Riassumo quindi, per chi si fosse perso nella noiosa ma inevitabile analisi dei dati. A costo di apparire Cassandra, come spesso accade agli economisti che discutono della situazione economica del nostro Paese, i dati dell'Istat sono meno positivi di quanto non possa sembrare. Vi sono pochi dubbi che la ripresa, ammesso che sia iniziata, rimanga debole e fragile. E certo, meglio che niente, ma uno 0.1%, o 0,3% che dir si voglia, non ha un gran potere taumaturgico di per sé.

PERCHÉ VANNO ABOLITE LE REGIONI

PERCHÉ VANNO ABOLITE LE REGIONI NON SOLO SPRECHI E "MUTANDE VERDI": NEI REGNI DEI PRESIDENTI VICERÉ LE TASSE SONO ALTISSIME E I CONTROLLI IMPOSSIBILI
di Carlo Di Foggia

da:http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/29/edicola-sabato-30-maggio-de-luca-impresentabile-guerra-pd-antimafia/1732132/

Too big to fail, troppo grandi per fallire, ma anche troppo grandi per essere governate bene. Il primo dicembre del 2013 Stefano Caldoro, presidente della Campania ora in corsa per la riconferma, mise a verbale quanto segue: "Le Regioni vanno abolite, sono mesi che lo diciamo: la Costituzione non voleva farne dei mini-Stati. Si potrebbe iniziare con lo svuotarle". Il 2 marzo scorso, a 58 giorni dalle elezioni di domenica, invece, la sua Giunta firma in un solo giorno una raffica di delibere che fanno piovere 23,6 milioni di euro - fondi europei co-finanziati dallo Stato - in decine di piccoli comuni: 1,3 milioni per la "fruizione turistica" del territorio di Riardo, nel Casertano; due per la fogna sotto via Torquato Tasso a Sant'Antimo; 800 mila euro per i versanti in frana di Valfortore etc. Cosa c'entrano i fondi Ue con tutto questo? Poco o nulla. La Regione l'ha chiamata "accelerazione della spesa", per i consiglieri d'opposizione è il nuovo nome delle mancia pre-elettorale: in tutto "l'accelerazione" riguarda 1700 progetti che vanno dalle "vie dell'Expo" alle emittenti locali che sono passate al digitale, dai campi da basket fino ai corsi di guida sicura ad Avellino. 

C'è di tutto, ma Caldoro è in buona compagnia. Luca Zaia, presidente leghista del Veneto in corsa per il secondo mandato, ha destinato 50 milioni per le sagre più disparate. Claudio Burlando, governatore uscente della Liguria, ha firmato questa settimana l'accordo che destina 140 milioni per il nuovo ospedale di La Spezia, atteso da decenni, e a febbraio - ha rivelato l'Espresso - 51 milioni sono andati alle fondamenta del "Galliera Bis", il nuovo ospedale di Genova presieduto dall'arcivescovo Angelo Bagnasco. Magari non c'entra, ma quando la candidata Pd alla presidenza della Regione, Raffaella Paita, delfino di Burlando, si è vista recapitare un avviso di garanzia, Bagnasco non l'ha presa bene: "Chissà perché certe indagini esplodono in certe ore e in certi momenti". Indagati, spese pazze, stipendi e rimborsi. 

Da tempo, più o meno dalle mutande verdi di Roberto Cota, ex governatore del Piemonte, il quesito fondamentale non è più un tabù: e se al posto delle province, trasformate in zombie, ci si fosse concentrati sulle Regioni? Argomenti anti-casta non mancano: dalla gestione della Sanità di Roberto Formigoni in Lombardia alle mutandine di pizzo e al cibo per gatti rimborsati dai liguri; dai manuali erotici nelle Marche ai vibratori in Emilia-Romagna, fino ai consiglieri toscani che si facevano pagare le interviste

Negli ultimi tre anni - racconta Goffedo Buccini nel suo Governatori, così le Regioni hanno devastato l'Italia - sono stati almeno 300 i consiglieri regionali inquisiti. 

Poi c'è il tema madre: i costi della politica. Le Regioni danno lavoro a 1356 politici, per un costo di macchina complessivo - ha stimato l'economista Roberto Perotti, ora consigliere di Palazzo Chigi per la spending review - di 958 milioni di euro. Qui dentro ci sono pure i rimborsi elettorali. Quelli che nel solo 2013 hanno portato 29,39 milioni di euro nelle casse dei gruppi consiliari. Il Molise, a fronte di una popolazione di poco più di 300mila persone, ha sborsato 934mila euro, 3 euro a cittadino. Fare politica costa, si dirà, eppure non una sola volta le spese accertate sono state pari ai rimborsi portati a casa: stando ai dati di Openpolis, nel '95 il guadagno netto sfiorò i 22 milioni di euro, saliti a 57 nel 2000 e a 147 nel 2005, per attestarsi ai 56 milioni dell'ultima tornata elettorale. Un affare da 300 milioni in vent'anni. "Non si può impedire che vengano usati per clientelismo - ha spiegato Perotti - Vanno tolti e va dimezzato il numero dei consiglieri". Eravamo nel 2013, nessuno ci è mai riuscito, neanche Carlo Cottarelli. L'ex supercommissario rispedito al Fmi nell'ottobre scorso, stimò un risparmio di 300 milioni solo applicando i costi standard almeno agli apparati regionali. Per i consiglieri l'indennità media è di "900 mila euro, ma Lazio, Calabria e Sicilia spendono più di 1,5 milioni, mentre Molise e Marche sono attorno ai 500 mila", si legge nel dossier sui costi della politica. In media, fanno più o meno 200 mila euro l'anno. 

Niente da fare anche qui. E il motivo è semplice: i compensi dei consiglieri regionali li decide la Regione, cioè i consiglieri stessi, non è cosi per Comuni e Province, dove si rischia l'accusa di danno erariale. L'autonomia senza freni genera mostri (e tasse). Costituzione e statuti speciali permettono ai governatori di stabilire tributi propri, incassare i trasferimenti dallo Stato e una quota-parte delle imposte statali. Così succede che alzino le tasse senza controllo, né sanzioni. Anzi, quando i deficit esplodono, come nella sanità, vengono perfino nominati commissari. 

E il federalismo fiscale, la panacea di tutti i mali? Non pervenuto. Nel suo La finanza pubblica in Italia. Rapporto2013 (il Mulino), l'economista Alberto Zanardi, consigliere dell'Ufficio parlamentare di Bilancio, ha provato a individuare i colpevoli della morte silenziosa della più sbandierata delle riforme berlusconiane, avviata nel 2009: l'inerzia della politica e i tagli feroci imposti a partire dalle manovre dell'estate 2011 e poi continuate dal governo Monti che "ne hanno sgonfiato la consistenza finanziaria". Gran parte della riforma semplicemente è morta prima ancora di nascere. È il caso della "fiscalizzazione" dei trasferimenti dello Stato. L'idea era quella di cancellarli in buona parte, delegando alle amministrazioni decentrate funzioni e tributi, ma garantendo un gettito equivalente: "II decreto che avrebbe dovuto farlo non è stato adottato", ha spiegato Zanardi. Non esiste neanche "un censimento dei Lep, i Livelli essenziali delle prestazioni, ne i costi applicati nei diversi settori di intervento pubblico fuori dalla sanità". Il federalismo prevedeva poi l'invarianza della pressione fiscale: se aumenta l'addizionale Irpef locale, deve scendere quella nazionale. "Purtroppo non si trovano tracce di questa compensazione", ha spiegato l'anno scorso il presidente della Corte dei conti, Raffaele Squitieri. Solo tra il 2011 e il 2012, secondo uno studio della Bocconi, i cittadini hanno sborsato 5 miliardi di tributi locali, aumentati dalle Regioni per evitare di sforare i conti della sanità, peraltro senza riuscirci. Negli ultimi cinque anni, i presidenti hanno dovuto rinunciare a 13 miliardi, coperti facendo schizzare verso l'alto le addizionali: esordirono nel '98 con lo 0,5 per cento, ora possono arrivare al 3,33 per cento (è il caso del Piemonte). Risultato? Nel 2014 il gettito complessivo ha toccato i 10,9 miliardi (erano 2,4 miliardi a fine anni Novanta, in 15 anni l'aumento è stato del 350 per cento). Senza la possibilità di applicare economie di scala, le grandi dimensioni moltiplicano sprechi e inefficienze. Bilanci creativi e buchi reali "Vinceremo le elezioni regionali per abolire le Regioni", promette ora Beppe Grillo. Vasto programma in un macrocosmo pullulato da presidenti Viceré, a cui ogni cosa è concessa. Regioni che possono tutto. Perfino scrivere il bilancio in base a regole che si sono scelte da sole, al di là di qualunque controllo esterno. Possibile? Il 27 novembre, davanti alla commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale, la Corte dei conti ha reso noto il primo bilancio delle verifiche effettuate sui conti dei governatori - grazie a una norma dell'ottobre 2012 - per "armonizzarli", cioè renderli credibili. Ad oggi, però, la situazione è che ogni regione fa quello che gli pare. Solo alcuni esempi. Nel bilancio della Liguria - si legge nella relazione della magistratura contabile - ci sono 91 milioni di "residui attivi" (crediti, in realtà inesigibili) sui poco più di 100 incassati a suo tempo cedendo gli immobili delle Asl all'Arte (l'ente regionale che gestisce le case popolari) per colmare i buchi del bilancio sanitario e sulle operazioni in derivati per 17 milioni con la banca americana Merrill Lynch.
Sempre i derivati coprivano buona parte dello scollamento dei conti in Veneto, dove non vengono nemmeno conteggiati i rendiconti delle società partecipate. La Campania ha ottenuto per ora il ritiro del devastante giudizio dei magistrati contabili sul bilancio 2012, chiuso con un deficit di 1,7 miliardi. In Piemonte l'accusa è di aver usato i 2,5 miliardi che il Tesoro aveva prestato per pagare i debiti ai fornitori della sanità, per "passività extra bilancio", cioè per saldare "altri debiti" che non c'entravano niente. Per non farsi mancare nulla, la Regione non ha poi inserito il prestito come debito a bilancio. Motivo? La legge regionale lo consente, ma per la Corte dei conti è un trucchetto su cui dovrà pronunciarsi la Consulta e il vero "rosso" supera i 5 miliardi. In Toscana, nel 2013, tra preventivo e consuntivo ballano 8 miliardi - un po' troppi - mentre la Regione di Enrico Rossi è salita nel capitale di diverse partecipate in forte perdita. Stessa cosa ha fatto l'Emilia Romagna con le "Terme di Salsomaggiore e di Tabiano Spa.", società "che continua a registrare rilevanti perdite di esercizio". Il Friuli Venezia-Giulia si è "scordato" di conteggiare nel proprio personale 1700 lavoratori impiegati in "un sistema satellitare composto da enti, agenzie, aziende, società e enti funzionali", e così nel bilancio ne risultano 2800 al posto di 4500. In Calabria semplicemente i controlli non ci sono e la Regione non ha gli strumenti per verificare la liquidità di cassa. Nel 2013 - scrivono i magistrati contabili - i residui attivi rappresentavano il 96 per cento del totale delle entrate: "Ciò significa che i crediti (in gran parte difficilmente esigibili, ndr) sono quasi pari all'ammontare delle attività prodotte nell'esercizio finanziario". Nelle virtuose Trento e Bolzano, invece, buona parte delle spese di rappresentanza dei presidenti non presenta "giustificazioni credibili". In Sicilia metà delle leggi presentate dalla Giunta non hanno relazione tecnica e il 90 per cento delle uscite va per spese "correnti", con un serio rischio per la "sostenibilità futura dei conti". La Puglia di Nichi Vendola nel 2013 sforava il tetto di spesa farmaceutica e pagava i fornitori della Sanità a 204 giorni.

E Stilinga è convinta che se non aboliamo le regioni, le province e tutte quelle propaggini ingiustificate in cui si catapultano i politici a fine carriera, questo povero Paese continuerà la discesa lenta verso il default. La ripresa sbandierata dal governo è illusione gettata negli occhi dell'opinione pubblica estera, è belletto per una situazione pesante. Inoltre, la burocrazia, creata per favorire determinate lobby e contro la popolazione, contribuiscono a tenere in stallo l'Italia, a farla marciare all'indietro, a farla marcire. Italiani riprendiamoci la patria!