I nuovi poveri sono gli autonomi a partita Iva


di
— Roberto Ciccarelli, 29.10.2014

da: http://ilmanifesto.info/storia/i-nuovi-poveri-sono-gli-autonomi-a-partita-iva/





Senza diritti alla malat­tia o al soste­gno al red­dito, non avranno una pen­sione. Ma i loro con­tri­buti finan­ziano il Wel­fare degli altri lavo­ra­tori. I dati dell’Osservatorio XX mag­gio su para­su­bor­di­nati e pro­fes­sio­ni­sti iscritti alla gestione sepa­rata dell’Inps descri­vono l’esistenza del nuovo pro­le­ta­riato in Italia



Il ritratto dei nuovi poveri a par­tita Iva lo ha fatto ieri l’Osservatorio dei lavori dell’associazione 20 mag­gio pre­sen­tando a Roma il terzo rap­porto sui dati della gestione sepa­rata dell’Inps. Anche con l’entrata in vigore delle regole della delega sul lavoro, in discus­sione in par­la­mento, su mille euro gua­da­gnati ad un auto­nomo reste­ranno in tasca 515 euro con­tro i 903 di un lavo­ra­tore dipen­dente. Gli iscritti a que­sta cassa dell’Inps hanno un com­penso lordo medio di 18.640 euro, un red­dito netto da 8.670 euro annui per 723 euro mensili.

Par­liamo di un pro­le­ta­riato a tutti gli effetti che non ha diritto alle tutele uni­ver­sali con­tro la malat­tia e versa con­tri­buti per una pen­sione (oggi il 27% del red­dito, il 33% entro il 2019), ma rischia di non avere una pen­sione. I suoi con­tri­buti ser­vono oggi a coprire i debiti delle altre gestioni Inps, quella dei diri­genti ad esem­pio. Que­sti lavo­ra­tori non hanno diritto agli ammor­tiz­za­tori sociali ma con i loro com­pensi pro­du­cono un Pil pari a 24 miliardi e assi­cu­rano all’Inps un get­tito di 5 miliardi e 805 milioni annui. Que­sti dati dimo­strano che i pre­cari finan­ziano il Wel­fare senza avere nulla in cam­bio. Al danno si aggiunge dun­que la beffa. E i red­diti restano molto bassi: 10.128 euro annui per i con­tratti a pro­getto, ad esem­pio i call center.

Bassi anche i com­pensi per i dot­tori di ricerca all’università (13.834 euro lordi) o per i medici spe­cia­liz­zandi (18.746 lordi). Per i gior­na­li­sti free­lance appena 9 mila all’anno. Le donne tra i 40 e i 49 anni sono le più pena­liz­zate: gua­da­gnano 11.689 euro in meno all’anno rispetto agli uomini.

La crisi ha aumen­tato la disoc­cu­pa­zione. Nell’ultimo anno sono stati persi 166.867 occu­pati, i col­la­bo­ra­tori a pro­getto sono dimi­nuiti di 322.101 unità dal 2007 al 2013, e nel solo 2012 sono pas­sati da 647.691 a 502.834, con una fles­sione di ben 145 mila unità. Un con­tri­buto deter­mi­nante è stato for­nito dalla riforma For­nero che ha impo­sto l’introduzione dei minimi tabel­lari dei dipen­denti. Que­sto ha pro­dotto un esodo verso il lavoro nero, le «false par­tite Iva» o la disoccupazione.

Acca­drà qual­cosa di diverso con Renzi? Per i para­su­bor­di­nati iscritti alla gestione sepa­rata no. Lo sgra­vio pre­vi­sto dalla legge di sta­bi­lità per le assun­zioni a tempo inde­ter­mi­nato (con un mas­si­male fis­sato a 6200 euro) non ren­derà «più com­pe­ti­tivi» que­sti con­tratti rispetto ai lavori dove i com­pensi minimi non sono rego­lati da accordi col­let­tivi. Per le imprese sarà sem­pre più con­ve­niente assu­mere un pre­ca­rio per poi non rin­no­var­gli il con­tratto. Il pro­blema non verrà risolto nem­meno dal sala­rio minimo ipo­tiz­zato nella Delega per­ché non può essere appli­cato nella plu­ra­lità dei set­tori del lavoro para­su­bor­di­nato e tanto meno in quello auto­nomo a par­tita Iva.

C’è anzi il rischio che, con il per­du­rare della crisi e con la con­fu­sione del governo det­tata da una scarsa cono­scenza delle forme del lavoro, il sala­rio minimo diventi il mas­simo che le aziende pagano. La strada potrebbe essere quella di sta­bi­lire un equo com­penso per le par­tite Iva indi­vi­duali per evi­tare che il Jobs Act le spinga verso il lavoro nero o l’inoccupazione. Per l’Associazione 20 mag­gio la solu­zione sarebbe quella di ricon­durre gli «ati­pici» nella con­trat­ta­zione col­let­tiva, un’opzione fin’ora tra­scu­rata dai sin­da­cati. Resta da capire la situa­zione di coloro che non pos­sono, o non vogliono, diven­tare dipen­denti. Ver­ranno lasciati al loro destino di esuli invo­lon­tari, oppure si pos­sono imma­gi­nare forme di tutele uni­ver­sali o un red­dito di base?

I freelance esclusi dalle politiche per l’occupazione


di Anna Soru

da: http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view&id=2078&Itemid=1
L’occupazione è un’emergenza ed è al centro non solo del jobs Act, ma anche della legge di stabilità.
In entrambi questi importanti disegni di legge è evidente che l’attenzione è tutta sul lavoro dipendente ed è particolarmente sconfortante la totale disattenzione nei confronti del nuovo lavoro autonomo, dei freelance, che pure rappresentano una parte consistente e imprescindibile del nostro sistema produttivo.

Il jobs Act
Sin dalle prime enunciazioni è stato evidente che il jobs Act, contrariamente alle illusioni generate dalla s di jobs, avrebbe riguardato esclusivamente il lavoro dipendente. Gli oltre otto mesi di dibattito non hanno cambiato questa impostazione. Né forse avrebbe potuto essere diversamente, dopo che in incontri pubblici, giornali, riviste, talk show si è discusso a lungo solo di lavoro dipendente (soprattutto di articolo 18). I contributi della commissione lavoro e, successivamente, le modifiche inserite nel maxiemendamento hanno addirittura accentuato la centralità del lavoro dipendente. Nell’ultima versione si sottolinea che il contratto a tempo indeterminato deve essere promosso come “forma privilegiata di contratto di lavoro”.
La lettura delle misure che costituiscono l’ossatura del Jobs Act confermano che il lavoro autonomo (vecchio e nuovo) non compare neppure come “forma di seconda scelta”.
Il primo punto, dedicato alle politiche passive, prevede un sistema di garanzia universale per tutti i lavoratori, ma esclude quelli autonomi. Un uso del termine “universale” che la dice lunga: il lavoro autonomo non rientra nella definizione di lavoro!
Diversa è l’accezione di universale utilizzata a proposito delle tutele, ma si parla solo di maternità, l’unica garanzia già esistente per i freelance. Non è invece previsto nulla di nuovo sulla malattia, dove le tutele attuali sono ridicole. Acta appoggia una campagna avviata da una sua socia per chiedere un’indennità di malattia decente e duratura a copertura delle malattie che impediscono l’attività lavorativa per lunghi periodi. Una battaglia di civiltà che ha raccolto quasi 50.000 firme e su cui ci aspettavamo una risposta, che non è arrivata.
Mentre si propone l’introduzione di un salario minimo per tutti i lavori dipendenti non coperti da contrattazione collettiva, non è prevista nessuna misura volta a contrastare la riduzione dei compensi dei freelance. Certo per i freelance la misura della prestazione spesso non è il tempo e non ha senso parlare di salari. Sta di fatto che è vietata la fissazione di tariffe o compensi minimi, che sarebbero in contrasto con le norme sulla libera concorrenza. In questo modo si dimentica che il nuovo lavoro autonomo è rivolto a imprese ed enti pubblici, e che quindi la parte contrattualmente più debole è indubbiamente il freelance. E’ difficile immaginare i freelance che fanno cartello per strangolare le imprese! Mentre sono all’ordine del giorno le imprese che prendono per il collo i freelance. La fissazione di parametri, di tariffe di riferimento aiuterebbe sia i committenti sia i lavoratori a dare il giusto valore al lavoro e sarebbe prioritaria nei rapporti con enti e amministrazioni pubbliche, dove attualmente coesistono consulenze lautamente pagate (spesso ingiustificate, come ricordano i continui scandali) e forme di vero e proprio sfruttamento.
Il lavoro autonomo è citato nel Jobs Act solo nella parte di riforma delle politiche attive. E’ prevista la razionalizzazione degli incentivi per autoimpiego e autoimprenditorialità. Poiché razionalizzazione nel nostro paese è sinonimo di riduzione, possiamo aspettarci una contrazione dei pochi incentivi esistenti.

Legge di stabilità: nessun miglioramento in vista
Esclusi dal jobs Act, ci aspettavamo di essere inclusi nella legge di stabilità. Ma anche qui le attese sembrano destinate ad essere deluse. Le principali misure o ci ignorano o sono peggiorative rispetto alla situazione attuale.
L’intervento sull’Irap riguarda solo il costo dei dipendenti, non c’è nessuna chiarificazione che finalmente fornisca una definizione oggettiva di autonoma organizzazione al fine di individuare senza possibilità di dubbio le situazioni di esenzione. Eppure questa misura era stata promessa dalla delega fiscale (art. 11 comma 2).
Un’altra novità riguarda il TFR. Al lavoratore dipendente viene riconosciuto il diritto di spendere la quota annualmente accantonata per il TFR, perché, come ha affermato il Presidente del Consiglio, è “un adulto consapevole, non può essere lo stato a decidere per lui”. I freelance non hanno il TFR, ma hanno una contribuzione pensionistica altissima, più alta di quella dei dipendenti se calcolata sulla stessa base di partenza. Non solo, se non si interviene essa aumenterà dal 27% attuale al 29% nel 2015 e poi ancora sino a raggiungere il 33%. Perché anche ai freelance, a cui si lascia tutta la responsabilità di dover provvedere in autonomia ad ogni situazione di difficoltà, non si riconosce la possibilità di decidere in autonomia sull’investimento pensionistico e anzi, pur nella consapevolezza che comunque avranno pensioni da fame, li si costringe a versare all’INPS quote esorbitanti e crescenti del proprio reddito?
Ma la voce di spesa più importante della legge di stabilità riguarda il bonus di 80 euro mensili, che sarà riconosciuto ai lavoratori con un imponibile non superiore ai 24.000 euro (e in parte anche a chi ha un reddito tra i 24 e i 26.000 euro). Come già nel 2014, questo bonus non sarà concesso agli autonomi.
L’iniquità di questa esclusione è evidente. Forse per cercare di compensare e sostenere gli autonomi con redditi bassi, è in arrivo un nuovo regime dei minimi. Pur nell’incertezza di un testo incompleto (non sono ancora stati pubblicati gli allegati, indispensabili per cogliere gli effetti dei nuovi meccanismi) e provvisorio, il nuovo regime si delinea peggiorativo rispetto a quello attuale, almeno per i freelance. Sulla base della bozza di legge e delle anticipazioni del sole 24 ore(http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2014-10-18/partite-iva-ecco-chi-vale-e-come-funziona-nuovo-regime-minimi-142636.shtml) sappiamo che:
a)      l’aliquota sostitutiva passerà dal 5% al 15%,
b)    il regime fiscale sarà aperto anche a chi non ha una nuova attività,
c)    il reddito non si calcolerà più come differenza tra ricavi e spese, ma applicando un coefficiente di redditività presuntivo, diverso a seconda dell’attività (quanto più il coefficiente è basso tanto minore sarà la base su cui calcolare l’imposta),
d)    la soglia di fatturato che identifica l’area di applicazione del nuovo regime fiscale potrà variare tra i 15.000 euro e i 40.000 euro (contro i 30.000 dell’attuale regime), sempre a seconda dell’attività.
Al limite inferiore dei 15.000 euro troviamo i freelance (le attività professionali), al limite superiore dei 40.000 i commercianti, baristi e ristoratori; la percentuale di redditività presunta sarà pari al 78% per i primi e al 40% per i secondi. Difficile non leggere queste differenze come effetto del diverso potere delle lobby di freelance e commercianti!
Se il nuovo regime può essere considerato una compensazione rispetto all’esclusione del bonus di 80 euro per i commercianti, di certo non lo è per i freelance. Un freelance avrà diritto ad agevolazioni solo se il fatturato non supererà i 15.000 euro, un dipendente avrà diritto ad un bonus se il suo imponibile (si badi bene: imponibile, al netto degli oneri sociali che paga l’azienda e senza costi di attività, non fatturato!) non supererà i 26.000 euro.
E’ innegabile il peso e il ruolo del lavoro dipendente e in particolare del lavoro dipendente a tempo indeterminato, ma è inaccettabile che tutte le politiche siano incentrate su di esso.Davvero si pensa di poter uscire dagli spaventosi livelli attuali di disoccupazione (specie giovanile) solo aumentando il lavoro dipendente a tempo indeterminato? Davvero si pensa che nell’economia postfordista tutto il lavoro possa essere ricondotto al lavoro dipendente? I primi a non crederci sono i giovani, ma anche gli adulti rimasti disoccupati, che sempre più spesso cercano di inventarsi un lavoro, per non doversi adeguare a una domanda quantitativamente e qualitativamente inadeguata. E che legittimamente si aspetterebbero di essere sostenuti in questi percorsi, ma al contrario vedono aumentare ostacoli e svantaggi.