Lo studio: “Il sistema fiscale italiano è regressivo, contribuisce alle disuguaglianze. Per correggerlo serve una tassa sul 5% più ricco”
Le conclusioni di un paper cofirmato da Andrea Roventini della Scuola superiore Sant'Anna e Alessandro Santoro dell'Università di Milano Bicocca. Per il 5% della popolazione che ha i redditi più alti la tassazione risulta regressiva. E se si osserva l'andamento delle aliquote medie all'aumentare della ricchezza netta, la regressività riguarda l'intera architettura. Per invertire la rotta, è la proposta, servono una tassa personale progressiva (eliminando quindi le flat tax sui redditi da capitale) e una wealth tax dell'1% oltre i 600mila euro
Il sistema fiscale italiano sembra disegnato apposta per aumentare le disuguaglianze. Per il 5% della popolazione che ha i redditi più alti risulta addirittura regressivo: in pratica l’aliquota media pagata da quei contribuenti diminuisce all’aumentare del loro reddito, con il risultato che per chi guadagna più di 500mila euro si ferma intorno al 37%. Meno di quella applicata a chi sta nelle fasce più basse della piramide. Se poi si osserva l’andamento delle aliquote medie all’aumentare della ricchezza netta, si scopre che la regressività riguarda l’intera architettura: più si sale nella classifica del patrimonio posseduto, più diminuisce l’aliquota media dovuta. Sono i risultati – eclatanti – di un paper pubblicato dall’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna e firmato da Andrea Roventini dell’ateneo pisano, Alessandro Santoro dell’Università di Milano Bicocca (consigliere del Tesoro e presidente della commissione che scrive la relazione annuale sull’evasione fiscale) e dai ricercatori Demetrio Guzzardi ed Elisa Palagi. La conclusione del lavoro è che per correggere la rotta – considerato che la regressività è in contrasto con l’articolo 53 della Costituzione – “occorrono misure radicali come una tassa sulla ricchezza“.
Il lavoro presenta nuove evidenze sulla distribuzione dei redditi in Italia, ottenute riconciliando per la prima volta dati macro e microeconomici, usando informazioni più accurate sui consumi e migliorando le stime sui redditi da capitale che sono usualmente molto sottorappresentati. Il risultato è una revisione al rialzo dei numeri che descrivono le disuguaglianze nella Penisola: la concentrazione di reddito nelle fasce che comprendono il 10%, l’1% e lo 0,1% di contribuenti con introiti maggiori risulta più alta di una percentuale tra il 2 e il 3% e la quota di reddito nazionale in mano a quelle fasce è sempre cresciuta dalla crisi finanziaria del 2008. Al contrario il 50% più povero tra 2004 e 2015 ha visto via via ridursi la propria quota di reddito nazionale al lordo delle tasse, ad un ritmo maggiore che negli Usa. “La disuguaglianza di reddito prima delle tasse è cresciuta lasciano indietro i poveri, mentre la quota dei redditi aumentava costantemente”. I più danneggiati dall’allargamento dei divari sono i soliti: gli under 35, le donne, gli abitanti del Meridione.
Partendo dai nuovi dati gli autori calcolano le aliquote effettive pagate dai contribuenti in base a reddito e distribuzione della ricchezza. Trovando che al crescere dei redditi l’aliquota “è solo moderatamente progressiva fino al 95esimo percentile circa” per poi rivelarsi addirittura regressiva. Un chiarimento è d’obbligo, visto che sulla carta l’imposizione è ovviamente crescente al salire del reddito (lo era fino allo scorso dicembre e lo rimane dopo il taglio delle aliquote da cinque a quattro con la riforma Irpef entrata in vigore a gennaio, di cui lo studio non tiene conto): l’aliquota media dipende in maniera cruciale dal tipo di introito e dall’incidenza dei contributi sociali, che sono regressivi così come le imposte indirette sui consumi (Iva). Per chi guadagna oltre 78mila euro l’anno, cioè il top 5%, il sistema diventa regressivo perché in quella fascia fino al 45% del reddito deriva dal possesso di strumenti finanziari e aziendali e di conseguenza non è soggetto all’Irpef bensì gode di aliquote piatte come quella sui dividendi, al 26%. E sopra non ci si pagano contributi. Risultato: il gruppo a più alto reddito, sopra i 500mila euro, si vede applicare “le aliquote stimate più basse, intorno al 37%“.
L’evidenza dell’iniquità è ancora più schiacciante quando si ordinano gli individui in base alla ricchezza netta: “Visto che i redditi da capitale sono proporzionali alla ricchezza”, spiega il paper, “maggiore è la ricchezza più alto è il flusso di redditi tassati in maniera proporzionale“, cioè non soggetti all’Irpef ma ad un’aliquota piatta. “Questo porta a una complessiva regressività del sistema nel suo complesso, quando si considera la ricchezza”. Cosa che, secondo gli autori, “fornisce ulteriore supporto per l’introduzione di una tassa sulla ricchezza in linea con il lavoro di Saez e Zucman“.
Dalle simulazioni risulta del resto che anche introducendo una tassa personale progressiva applicabile a tutte le fonti di reddito (cioè eliminando le tasse piatte sui redditi da capitale) non si otterrebbe una sensibile riduzione della progressività. L‘unica strada per garantire perlomeno un sistema di tassazione proporzionale per i redditi più alti, è la conclusione dello studio, consiste nell’affiancare alla tassa personale progressiva “una wealth tax solo sul top 5% della distribuzione della ricchezza”. L’ipotesi è quella di un prelievo dell’1% oltre i 600mila euro di ricchezza netta: in questo modo si colpirebbe il 10% più ricco ma “l’incidenza sarebbe significativa solo per il 5% più ricco” e si otterrebbe una lieve progressività lungo tutta la distribuzione dei redditi. Oltre ad un aumento del gettito stimato in 27,5 miliardi. “Questi nuovi risultati dovrebbero essere tenuti in conto nell’attuale dibattito sulla riforma del sistema fiscale italiano“, auspicano gli autori.
Lo stato della discussione non promette nulla di buono: l’esame della riforma in commissione Finanze alla Camera è in stallo, con il centrodestra sulle barricate contro la revisione del catasto descritta come una patrimoniale occulta (anche se nel 2014 ne ha votata una identica). Dall’ipotesi di qualsiasi intervento sulle ricchezze, pure raccomandato anche dal Fondo monetario internazionale, il Parlamento ha deciso di tenersi ben lontano e il governo ne ha preso atto. Con le elezioni politiche in calendario nel 2023, è materia radioattiva.