di Enrico Marro
La politica li ha tenuti al riparo dalle riforme che negli ultimi 25 anni hanno invece tagliato la previdenza dei comuni mortali. Assegni che oscillano in media tra i 40 mila e i 200 mila euro all’anno.
Ci sono circa 30 mila pensioni in Italia che rappresentano un mondo a parte, di assoluto privilegio, che la politica ha tenuto al riparo dalle riforme che negli ultimi 25 anni hanno invece tagliato la previdenza dei comuni mortali. Sono le pensioni del personale della Camera e del Senato; quelle degli ex deputati e senatori (ipocritamente definite «vitalizi»); le pensioni dei dipendenti della Regione Sicilia; quelle del personale della presidenza della Repubblica; quelle dei dipendenti della Corte Costituzionale e degli ex giudici della stessa; i vitalizi degli ex consiglieri regionali.
Di questi assegni, che oscillano in media tra i 40 mila e i 200 mila euro all’anno, si sa poco o nulla, se non appunto che sono d’oro e costruiti su regole di assoluto favore. Eppure da dodici anni c’è una legge che imporrebbe di conoscere tutto di queste pensioni, i cui dati dovrebbero essere trasmessi al Casellario centrale della previdenza. Solo che la legge viene disattesa. E non si trova il modo di farla rispettare, perché gli organi costituzionali invocano l’autodichia, cioè il principio di autonomia regolamentare garantito dalla carta fondamentale, e la Sicilia il suo statuto speciale.
Il rapporto
Un tentativo di censire questo piccolo paradiso delle pensioni è contenuto nel rapporto «ll bilancio del sistema previdenziale italiano» appena diffuso dal centro studi di Itinerari previdenziali, presieduto da Alberto Brambilla, esperto di pensioni ed ex presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale presso il ministero del Lavoro, istituito dalla legge Dini del 1995. Il Nucleo è poi stato chiuso nel 2012. Ma Brambilla ha continuato a sfornare il rapporto annuale, aiutato dai migliori esperti del settore. E nell’ultima edizione, «per la prima volta», ha inserito un capitolo dedicato a quello che viene definito «l’altro sistema previdenziale», quello appunto che si sottrae a tutte le riforme. «Reperire questi dati è difficile – si sottolinea – poiché mancano le informazioni di questi soggetti che non comunicano i dati, come previsto dalla legge 243 del 23 agosto 2004, al Casellario centrale». Non si sa, in particolare, quanti contributi vengono pagati e quante pensioni e per quali importi sono erogate.
I dati e la mancata trasparenza
Ad oggi, le amministrazioni ed enti che non comunicano i dati sono: Camera e Senato, che hanno proprie regole previdenziali approvate dagli stessi parlamentari sia per i propri dipendenti sia per deputati e senatori; la Regione Sicilia, «che gestisce un fondo di previdenza sostitutivo per i propri dipendenti», quindi fuori dal regime Inps; la Corte costituzionale per i giudici e i propri dipendenti (anche qui vige un regolamento interno); la Presidenza della Repubblica per il proprio personale; le Regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale per le cariche elettive. Infine, c’è lo strano caso del Fama («una anomalia tutta italiana»), il Fondo agenti marittimi ed aerei, con sede a Genova, che gestisce la previdenza per gli agenti marittimi: «Non pubblica dati» e «non risulta sottoposto a particolari controlli», dice il Rapporto.
Un mondo a parte
Per ovviare a questa situazione, gli esperti coordinati da Brambilla hanno esaminato i bilanci degli enti e degli organi costituzionali per scattare una prima fotografia di questo mondo a parte. I dati sono contenuti nella tabella che pubblichiamo.
Il rapporto
Un tentativo di censire questo piccolo paradiso delle pensioni è contenuto nel rapporto «ll bilancio del sistema previdenziale italiano» appena diffuso dal centro studi di Itinerari previdenziali, presieduto da Alberto Brambilla, esperto di pensioni ed ex presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale presso il ministero del Lavoro, istituito dalla legge Dini del 1995. Il Nucleo è poi stato chiuso nel 2012. Ma Brambilla ha continuato a sfornare il rapporto annuale, aiutato dai migliori esperti del settore. E nell’ultima edizione, «per la prima volta», ha inserito un capitolo dedicato a quello che viene definito «l’altro sistema previdenziale», quello appunto che si sottrae a tutte le riforme. «Reperire questi dati è difficile – si sottolinea – poiché mancano le informazioni di questi soggetti che non comunicano i dati, come previsto dalla legge 243 del 23 agosto 2004, al Casellario centrale». Non si sa, in particolare, quanti contributi vengono pagati e quante pensioni e per quali importi sono erogate.
I dati e la mancata trasparenza
Ad oggi, le amministrazioni ed enti che non comunicano i dati sono: Camera e Senato, che hanno proprie regole previdenziali approvate dagli stessi parlamentari sia per i propri dipendenti sia per deputati e senatori; la Regione Sicilia, «che gestisce un fondo di previdenza sostitutivo per i propri dipendenti», quindi fuori dal regime Inps; la Corte costituzionale per i giudici e i propri dipendenti (anche qui vige un regolamento interno); la Presidenza della Repubblica per il proprio personale; le Regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale per le cariche elettive. Infine, c’è lo strano caso del Fama («una anomalia tutta italiana»), il Fondo agenti marittimi ed aerei, con sede a Genova, che gestisce la previdenza per gli agenti marittimi: «Non pubblica dati» e «non risulta sottoposto a particolari controlli», dice il Rapporto.
Un mondo a parte
Per ovviare a questa situazione, gli esperti coordinati da Brambilla hanno esaminato i bilanci degli enti e degli organi costituzionali per scattare una prima fotografia di questo mondo a parte. I dati sono contenuti nella tabella che pubblichiamo.
Le 29.725 pensioni d’oro censite costano più di un miliardo e mezzo l’anno.
Gli assegni medi oscillano tra i circa 40 mila euro lordi dei 16.377 pensionati della Regione Sicilia (3.338 euro al mese) ai 200 mila euro dei 29 ex giudici costituzionali (16.666 al mese), passando per i circa 91 mila euro dei vitalizi di Camera, Senato e Regioni (7.583 al mese), i 55 mila euro dei pensionati ex dipendenti del Parlamento e del Quirinale (4.583 al mese), che stanno un po’ peggio – si fa per dire – di quelli della Consulta, che ricevono in media 68.200 euro (5.683 al mese). Per avere un’idea di quanto siano ricchi questi assegni, basti dire che la pensione media dei dipendenti statali è di 26 mila euro lordi l’anno (2.166 euro al mese), quella dei dipendenti privati di 12.500 euro (1.041 al mese), quella degli avvocati di 27 mila euro (2.250 al mese) e quella dei dirigenti d’azienda di 50 mila (4.166 al mese).
Regole «autonome»
Ma non c’è solo questa sperequazione negli importi. C’è che le pensioni dell’«altra previdenza» hanno seguito sempre proprie regole sull’età di pensionamento, infischiandosene delle riforme generali. Sulla base di anacronistici e malintesi principi di autonomia hanno subito solo qualche timido correttivo ai loro privilegi e comunque con molto ritardo. Prendiamo i parlamentari. Fino al 1997 bastava aver fatto una legislatura (anche se le camere erano state sciolte anticipatamente) per andare in pensione a 60 anni e per ogni ulteriore legislatura il limite per ottenere il vitalizio si abbassava di 5 anni. Solo dal 2012 l’età di pensionamento è stata portata a 65 anni e servono 5 anni effettivi di legislatura. E comunque per ogni anno in più di presenza in Parlamento l’età pensionabile scende di un anno fino al limite dei 60 anni. Giova ricordare che per i comuni mortali, nel regime Inps, servono 66 anni e 7 mesi d’età per la pensione di vecchiaia oppure 42 anni e 10 mesi di lavoro per ottenere la pensione anticipata. Certo, un miliardo e mezzo di euro all’anno di spesa per le pensioni dell’«altra previdenza» sono una goccia rispetto al mare magnum dei 250 miliardi di euro che si spendono ogni anno per tutte le pensioni (pensioni, invalidità, superstiti). Ma una goccia che ancora oggi non accetta di confondersi con le altre.
Regole «autonome»
Ma non c’è solo questa sperequazione negli importi. C’è che le pensioni dell’«altra previdenza» hanno seguito sempre proprie regole sull’età di pensionamento, infischiandosene delle riforme generali. Sulla base di anacronistici e malintesi principi di autonomia hanno subito solo qualche timido correttivo ai loro privilegi e comunque con molto ritardo. Prendiamo i parlamentari. Fino al 1997 bastava aver fatto una legislatura (anche se le camere erano state sciolte anticipatamente) per andare in pensione a 60 anni e per ogni ulteriore legislatura il limite per ottenere il vitalizio si abbassava di 5 anni. Solo dal 2012 l’età di pensionamento è stata portata a 65 anni e servono 5 anni effettivi di legislatura. E comunque per ogni anno in più di presenza in Parlamento l’età pensionabile scende di un anno fino al limite dei 60 anni. Giova ricordare che per i comuni mortali, nel regime Inps, servono 66 anni e 7 mesi d’età per la pensione di vecchiaia oppure 42 anni e 10 mesi di lavoro per ottenere la pensione anticipata. Certo, un miliardo e mezzo di euro all’anno di spesa per le pensioni dell’«altra previdenza» sono una goccia rispetto al mare magnum dei 250 miliardi di euro che si spendono ogni anno per tutte le pensioni (pensioni, invalidità, superstiti). Ma una goccia che ancora oggi non accetta di confondersi con le altre.