Produzione industriale, i numeri di un disastro che non ha precedenti

Dal dopoguerra non s’era mai visto un crollo come quello degli anni scorsi. E con Renzi? L’indice in ventotto mesi è passato da 91,6 a 91,8: l’Italia non riparte
Di Alberto Bagnai
Due elettori mediani commentano il fatto politico del giorno: “Hai visto che scandalo? Poi dicono che c’è la crisi! Ma il problema è che se sò magnatitutto…”. L’amico, sconsolato: “Che ci vuoi fare: ogni popolo ha i politici che si merita…”. Su queste parole i due si congedano, ebbri di assolutoriaautocommiserazione. Ognuno di noi ha assistito a simili siparietti. Qualcuno invece potrebbe essersi perso un fatto che apparentemente non ha nulla a che vedere con quanto precede. Il 5 agosto scorso, alle 12:19, l’Ansa ha twittato: “Istat, economia frena, meglio ultimi mesi”. Frenare, in italiano, significa diminuire la propria velocità. Letto così, il lancio sembrerebbe indicare che l’economia italiana cresca di meno (freni), ma che negli ultimi mesi la situazione stia migliorando (cioè si stia tornando a crescere di più). Nei dati leggiamo che a giugno l’indice della produzione industriale (Ipi) è diminuito dello 0,4%, mentre a maggio la diminuzione era stata dello 0,6%.
L’Ansa ha ragione: la velocità dell’economia italiana è diminuita. Quindi tutto bene? Non me ne voglia l’agenzia di stampa, ma direi di no. Non stiamo andando “meglio” (crescendo di più): stiamo andando “meno peggio” (diminuendo di meno). Non stiamo frenando: stiamo andando amarcia indietro, e questa non è una sfumatura, ma un fallimento epocale.
Renzi è in carica dal febbraio 2014, quando l’indice della produzione industriale era a 91,6. Ventotto mesi dopo l’indice è a 91,8: un aumento dello 0,2%, e questo mentre l’Unione Europea, nostro principale cliente, è ripartita, passando dall’1,4% al 2% di crescita fra 2014 e 2015. Certo, nessuno si aspetta che oggi la produzione industriale possa raddoppiare in un decennio, come al tempo del miracolo economico (fra 1955 e 1965), con un paese da ricostruire. Ma il -18% del decennio 2005-2015 è una catastrofe senza precedenti.
Negli ultimi 64 anni le due annate più infauste per l’Ipi sono state il 2009 (-19%) e il 1975 (-9%). La terza ce l’ha regalata Monti (-6% nel 2012), riportando l’indice ai valori di 26 anni prima (ma questo i media ce l’hanno taciuto, vantando i successi delle “riforme”). Da quando siamo nell’euro, un anno su due è stato in rosso (ci verrebbe un bel titolo, che nessun giornale ha mai scritto).
Le recessioni, naturalmente, ci sono sempre state: il problema è che oggi non ci sono le riprese. Questo non è un caso: è il cambio rigido, che in caso di crisi costringe a tagliare i salari per recuperare competitività. Rendere i lavoratori ricattabili col Jobs act facilita il compito. Incassata questa “riforma” la Confindustria ricambia il favore al governo: i suoi economisti elogiano la riforma costituzionale, con uno studio sbriciolato daMassimiliano Tancioni sul “Menabò di etica ed economia” (cosa che la stampa allineata non credo vi abbia detto). Quanto agli industriali, poverini, loro proprio non arrivano a capire che dipendenti sottopagati sono clienti col braccino corto: distruggere il mercato interno per inseguire quello estero non è una buona idea, e il fallimento di Renzi è tutto in questa frase (che lui non capirebbe, e che chi lo circonda, occupato a mettersi in salvo, non ha tempo di spiegargli).
I danni dell’euro sono ormai conclamati. L’ultimo rapporto sui mercati esteri del Fondo monetario internazionale, pubblicato il 27 luglio, è cristallino: a 17 anni dall’adozione, l’euro è ancora troppo forte di circa il 5% per Italia e Francia, e troppo debole di circa il 15% per la Germania (nessun giornale italiano ve l’ha detto, ma ai francesi ne ha parlato il Figaro). Non a caso il 29 aprile il dipartimento del Tesoro americano ha messo la Germania nella lista dei manipolatori di valute (cosa che avete letto solo qui). I nostri media, però, continuano tetragoni a ripeterci che ci siamo scelti degli ottimi compagni di strada (sarebbero quelli della Volkswagen, per capirci), e che se non ce la facciamo è colpa nostra.
Il grafico è eloquente: gli episodi di contrazione prolungata dell’Ipi sono tre, e coincidono con l’entrata nel Sistema Monetario Europeo (inizio degli anni ’80), con il suo irrigidimento (inizio degli anni ’90) e con l’entrata nell’euro (dal 1999). È naturale che in un paese esportatore come il nostro l’eccessiva rigidità del cambio porti con sé de-industrializzazione. Porta anche accresciuta mobilità dei capitali, che fa molto comodo all’industria finanziaria. Insomma: alle banche.
Come dimostra Luigi Zingales sul blog dell’Università di Chicago, queste controllano in vari modi i giornali, con l’unica eccezione del Fatto Quotidiano (ipse dixit). Sarà per questo che qui ogni tanto trovate notizie non allineate. Torno al punto: per scegliere bene i politici, gli elettori hanno bisogno di informazioni corrette, senza le quali la democrazia non funziona.
Se siamo nei guai, quindi, non è solo per colpa dei politici che ci siamo scelti noi (e che quindi ci meriteremmo), ma anche per colpa dei media che ci hanno scelto le banche (e che forse non ci meritiamo). Non è insomma colpa loro se, bombardati dal messaggio che “va tutto bene”, gli italiani non riescono a scegliere politici che facciano anche i loro interessi, e non solo quelli della finanza internazionale. Parafrasando Brecht: “Sventurata lademocrazia che ha bisogno di blogger”.

Il governo Renzi sa come farsi odiare...

Il governo Renzi sa davvero come darsi la zappa sui piedi e farsi lungamente odiare e disprezzare: dalla questione delle Banche (Etruria in primis e le altre) al papocchio incasinato delle assunzioni dei precari della scuola si apprezza il totale cinismo impastato di cattiveria distillata e gratuita che non solo il capo ma anche tutti i suoi ministri esprimono contro il popolo italiano.

E ci risiamo!

Odiare i cittadini e conterranei porta a ricevere altrettanto odio e desertificazione alle elezioni (il Pd ancora non lo scarica? aspetta l'eutanasia politica?).

Poi se Renzi fosse il portavoce dei poteri occulti (tipo massoneria) allora si deve proprio dirlo: i massoni sono INCAPACI. E si capisce il flop della classe politica al governo del paese.

Ma su tutta la linea: idioti, presuntuosi e ignoranti. Abbagliati solo dalla propria grettezza e avidità.

Meglio che sparisca lui e i suoi sodali, i ministri che sostengono l'insostenibile con arguta vacuità, ammantata di saper fare ma sostanzialmente si  capisce lontano km che non sono all'altezza della situazione.

Pare comunque che la cosa stia disintegrandosi da sola: a breve non parleremo più nè di Matteo nè dei renziani e già  per questo ringraziamo il cielo! Davvero!

Assocalzaturifici: “La Cina non è un’economia di mercato”

da: http://it.fashionmag.com/news/Assocalzaturifici-La-Cina-non-e-un-economia-di-mercato-,715539.html#utm_source=newsletter&utm_medium=email

Assocalzaturifici, l’associazione dei calzaturieri italiani, dice “no” allo Status di Economia di Mercato (MES) alla Cina, che vanificherebbe le difese antidumping dell’Europa. È quanto ribadisce il presidente dell’Associazione, Annarita Pilotti, alla vigilia della riunione a Bruxelles del Collegio dei Commissari dell’Unione. Il vertice, presieduto dal presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, fa seguito al recente Summit bilaterale UE-Cina avvenuto a Pechino e rappresenta un passaggio fondamentale in vista dell’ormai prossima presentazione in sede europea della proposta legislativa che porterà a una decisione definitiva entro dicembre.


“Il rischio per il settore calzaturiero”, ha affermato Annarita Pilotti, che ha inviato una lettera alla Commissione europea e al Consiglio, “è di non potersi più tutelare in modo efficace perché la concessione dello status di economia di mercato alla Cina avrebbe un impatto immediato sull’efficacia degli strumenti europei di difesa commerciale. Un cambiamento di metodologia che accettasse i prezzi e costi cinesi, palesemente distorti data la pesante ingerenza dello stato nell’economia, renderebbe il sistema antidumping dell’Unione europea inefficace a contrastare le pratiche commerciali sleali della Cina”.

“Assocalzaturifici ha partecipato attivamente all’inchiesta condotta a Bruxelles dalla CEC, Confederazione Europea della Calzatura, che ha portato nel 2006 all’approvazione del Consiglio dei Ministri UE di misure antidumping contro le importazioni sottocosto da Cina e Vietnam; misure mantenute in vigore sino al 2011”, ha continuato Pilotti. “Con un diverso regolamento non sarebbe stato possibile adottare dazi efficaci. La Commissione deve prendere una posizione chiara contro il riconoscimento del MES al Paese, difendendo la produzione industriale europea e italiana. Ciò anche in considerazione del fatto che la Cina rispetta attualmente solo uno dei cinque criteri economici stabiliti dalla UE per il riconoscimento dello status di economia di mercato”.

Il Parlamento europeo, lo scorso 12 maggio, si è espresso contro il riconoscimento di economia di mercato a Pechino, in una risoluzione approvata a larga maggioranza e dalle principali forze politiche europee.

La posta in gioco, per un settore che si confronta con una domanda interna in calo da otto anni e che fatica a uscire dalla crisi iniziata nel 2008, è molto elevata. In termini di paia di calzature la Cina ha pesato per il 40% del totale delle importazioni italiane nel 2014 e per il 39% nel 2015. Aegis Europe, un’alleanza di oltre 30 associazioni manifatturiere europee, stima la perdita di oltre 300mila posti di lavoro, qualora il mercato comunitario venisse nuovamente inondato di prodotti cinesi sottocosto. L’Italia, oltretutto, sarebbe il paese
più colpito.



Di Laura Galbiati