Stilinga ha visto cose che voi umani non potete sapere...

Stilinga ha visto a piazza Barberini, in pieno centro storico romano, arrivare un bus fantasma: vuoto, tutto scuro, senza numero, nè sul display esterno, nè stampato su carta -come usa solitamente- appiccicata sul vetro davanti, nulla, solo l'autista.

E gli astanti, alla fermata, hanno fatto capannello, l'hanno fermato indicando con le mani e una volta aperte le porte hanno parlato con l'autista per sapere di che linea si trattasse.

Il fatto è piuttosto sorprendente perché pareva che il mezzo pubblico spuntasse ex novo dal nulla, vergine, senza fermate alle spalle, incredibile.

Poi improvvisamente l'autista ha deciso che l'autobus, che stava guidando, forse doveva o poteva essere il 61, proprio quello proveniente da Balsamo Crivelli. E allora ha illuminato la fronte del bestione e ha fatto sapere al mondo di che linea si trattasse.

Ma la cosa assai strana è che Piazza Barberini, direzione Villa Borghese/ Washington sulla palina è la 27a/28a fermata!

Quindi ci si chiede cosa abbia fatto il dipendente dell'Atac fino al momento in cui ha deciso di dare un numero al mezzo di ferro sgangherato che conduceva.

Boh!

Possibile che l'ABC sia utopia nella capitale?
O forse era una forma di sciopero selvaggio?

Certamente l'operatore non aveva il senso del valore del lavoro che fa. Mancanza di senso piuttosto diffusa recentemente e  che unita alla trascuratezza in cui sono sprofondati quasi tutti i dipendenti pubblici producono il disastro chiamato Roma, capitale d'Italia.

Il Fmi boccia il neoliberismo: stop austerity e controllo sugli investimenti


di M. Ricci
da: http://www.repubblica.it/economia/rubriche/eurobarometro/2016/06/04/news/liberismo_liberalizzazioni_austerity-141253461/

Per chi è convinto che le idee contino e, alla fine, abbiano influenza sulla realtà, è una storia di grande fascino. Serve a capire gli ultimi 30 anni e anche i prossimi. È il resoconto della lotta della più grande istituzione economica mondiale - il Fmi - con se stessa e la sua eredità sul tema più importante: le strategie per coltivare l'economia globale.

C'è un filo che lega Reagan, la Thatcher, le liberalizzazioni e le privatizzazioni degli anni '80, la resurrezione della destra contro l'egemonia socialdemocratica postbellica e il "Washington Consensus", il pacchetto di dottrine che, facendo perno sul Fmi, sarà adottato, con l'etichetta Neoliberalismo, nella crisi asiatica del '98: privatizzazioni, liberalizzazioni, austerità, bilanci in ordine, rilancio dell'export con recuperi di competitività (cioè taglio dei salari), ricerca della fiducia dei mercati internazionali, mantenendo aperto il paese ai flussi e deflussi di capitali. Piú o meno è la ricetta applicata ancora in Europa, dopo il 2008, dalla Grecia alla Spagna.

Per questo, ogni ripensamento è interessante. Ma l'articolo che tre dei piú importanti economisti del Fondo hanno appena pubblicato su una delle riviste ufficiali del Fmi, "F&D", è piú di un ripensamento. Il titolo "Neoliberalism: Oversold?" - che un romano potrebbe liberamente tradurre: il neoliberalismo é una sòla? - non tradisce
il testo. Anche se gli autori escludono di voler realizzare un riesame complessivo del Washington Consensus, siamo di fronte ad un picconamento di due pilastri del neoliberalismo.

Il movimento dei capitali, anzitutto: fiducia dei mercati o no, gli investimenti diretti vanno bene, quelli finanziari e speculativi possono essere dannosi e, se occorre, vanno rigidamente controllati. Poi, l'austerità: difficile vederne i benefici in termini di impulso alla crescita. Balzano agli occhi, invece, i costi in termini di ineguaglianze crescenti. E l'ineguaglianza colpisce il livello e la sostenibilità della crescita. L'austeritá può essere inevitabile per paesi con un alto livello di debiti, ma non vuol dire che vada bene per tutti. Assicurarsi la benevolenza dei mercati, dimostrando di fare sul serio nel voler ridurre il debito ha costi superiori ai benefici. Di solito, il Pil scende, la disoccupazione aumenta, in media, di 0,6 punti. Chi può spenda.

A Berlino hanno capito benissimo di chi parlava l'articolo e devono aver protestato, costringendo l'attuale capo economista del Fmi, Maurice Obstfeld a intervenire sul sito del Fondo, in un difficile esercizio di equilibrismo, per prendere le distanze da quello che dice nell'articolo Jonathan Ostry, che è il suo vice, senza smentirlo direttamente. D'altra parte, Ostry dice cose che i ricercatori del Fondo suggeriscono da tempo, anche se da scranni inferiori delle gerarchie. Piú pressante sarebbe capire se quanto i cervelli del Fondo rimuginano arriverà prima o poi a influenzare le scelte degli operativi, ad esempio sul caso Grecia.

Qui, però, va riconosciuto al Fondo di essere l'unico ad aver ammesso le proprie colpe nella gestione della crisi greca e nel lasciare che l'austeritá piegasse quell'economia al di là del - probabilmente - sostenibile. Si aspetta ancora un mea culpa analogo da Bruxelles e da Francoforte. E il Fondo ne ha anche tratto le ragionevoli conseguenze. Chiedendo che, del costo degli errori, si facciano carico anche coloro che li hanno determinati, cioè i creditori (dalla Ue ai governi) accettando un taglio dei debiti. Certo, sarebbe simpatico se, coerentemente, gli operativi del Fmi annunciassero di volersi comportare allo stesso modo con i crediti del Fondo verso Atene. L'Fmi non ha altro modo per riconciliarsi con se stesso.