LA DIFFERENZA VISIBILE TRA DESTRA E SINISTRA di Luciano Gallino

di Luciano Gallino 

da http://www.repubblica.it/

Non si sa chi sia, il regista delle due manifestazioni contemporanee della scorsa settimana, piazza San Giovanni e Leopolda. Di certo è un grande talento. Il contrasto tra lo scenario dei due eventi non poteva venire realizzato in modo più efficace. Da un lato un gran sole, il cielo azzurro, uno spazio amplissimo, una folla sterminata, brevi discorsi su temi concreti. Dall’altra un garage semibuio dove non si riusciva a vedere al di là di una decina di metri, un centinaio di tavoli dove si parlava di tutto, un lungo discorso del presidente del Consiglio in cui spiccavano acute considerazioni sull’iPhone e la fotografia digitale, e non più di sei-settemila persone — giusto 140 volte meno che a San Giovanni.
Il duplice scenario e la composizione dei partecipanti sono stati quanto mai efficaci per chiarire che a Roma sfilava un variegato popolo rappresentante fisicamente e culturalmente la sinistra, sebbene del tutto privo di un partito che interpreti e difenda le sue ragioni.
Mentre a Firenze sedeva a rendere omaggio al principe un gruppo della borghesia medio-alta orientato palesemente a destra — a cominciare dal Principe stesso.
Vi sono due condizioni che fanno, oggi come ieri, la differenza tra destra e sinistra. Una è la scelta della parte sociale da cui stare: in politica, nell’economia, nella cultura. Il che significa o sostenere che le disuguaglianze non hanno alcun peso nei rapporti sociali, o magari negare che esistano; oppure darvi il peso che moralmente e politicamente meritano, e adoperarsi per ridurle. L’altra condizione è la capacità di capire in che direzione si sta evolvendo la situazione economica e sociale del momento. Perché se non lo capisce uno sta uscendo, senza rendersene conto, dal corso della storia.
Nel caso della prima condizione la differenza tra Roma e Firenze era evidente. 
Alla manifestazione di Roma non c’erano (o erano poche) le persone che dovevano scegliere se stare o no dalla parte dei deboli, degli svantaggiati, delle classi inferiori di reddito, di quelli il cui destino dipende sempre da qualcun altro. Erano loro stessi, la massa dei partecipanti, a essere deboli, svantaggiati, poveri, perennemente in balia del parere e della volontà di qualcun altro. Collocati, in altre parole, al fondo delle classifiche delle disuguaglianze di reddito, di ricchezza, di potere politico ed economico; disuguaglianze il cui scandaloso aumento negli ultimi vent’anni, nel nostro paese come in altri, accompagnato dalla scomparsa del tema stesso nel discorso delle socialdemocrazie, ha fatto parlare più di uno studioso di nuovo feudalesimo.
Invece nel garage semibuio di Firenze c’erano soprattutto persone a cui l’idea di stare dalla parte dei più deboli e magari di dichiararlo appariva semplicemente repellente, o quanto meno fastidiosa, non meno che mettersi a parlare “in un mondo che è cambiato” di lotta alle disuguaglianze. Al massimo i più deboli si possono aiutare a soffrire di meno, non certo a diventare meno deboli, o a salire un gradino nella scala delle disuguaglianze, grazie a un sindacato o un partito. Per non dire che la parola “partito” significa appunto “aver preso parte” — idea demolita a Firenze dall’idea di un partito-nazione (ma l’ha detto qualcuno a Renzi che la parola “nazione” o “nazionale” figuravano tempo addietro nel nome di un paio di partiti che molti guai procurarono all’Italia e all’Europa?).
Anche per l’altra condizione non c’era confronto tra i partecipanti di piazza San Giovanni e quelli della Leopolda. Per i primi era evidente che quello che sta succedendo da parecchi anni è una “guerra dell’austerità”, per usare la dizione di un noto economista americano. Una guerra di classe in cui la destra si prefigge di distruggere le conquiste sociali degli anni 60 e 70, che furono un tentativo riuscito di sottoporre il capitalismo a una ragionevole dose di controllo democratico. Le misure imposte da Bruxelles, di cui il governo Renzi, a parte qualche battuta, è fedele esecutore, sono precisamente espressione di tale guerra o conflitto di classe, nella quale le classi dominanti hanno negli ultimi decenni conseguito una grande vittoria. Equivalente a una dolorosa sconfitta per i manifestanti romani.
A Firenze l’interpretazione predominante della crisi è stata quella canonica delle destre europee: lo stato ha un debito troppo alto, dovuto all’eccesso di spesa; il problema è il costo eccessivo del lavoro; per rilanciare la crescita bisogna ridurre le tasse alle imprese; i dettati di Bruxelles sono onerosi, ma bisogna pur mantenere gli impegni, ecc. Ciascuno di questi slogan è falso quanto dannoso — e si noti che a dirlo sono ormai dozzine di economisti, compresi perfino alcuni esponenti delle dottrine neoliberali. 
A parte l’interpretazione ortodossa della crisi, che non sta in piedi, chi vi aderisce non si rende conto che ci si avvicina a un momento in cui o si modificano i trattati europei e si adottano politiche economiche opposte a quelle del governo Renzi (che sono poi quelle degli ultimi tre o quattro governi, prescritte dalla Troika e da noi passivamente messe in atto), o ci si avvia ad un lungo periodo di grave recessione e di rapporti intereuropei sempre più difficili, nonché dagli esiti imprevedibili.

Un’ultima nota: a saperlo interpretare (non che ci voglia molto), la massa dei partecipanti di Roma ha lanciato un messaggio chiaro. Ha detto in sostanza “siamo tanti, non contiamo niente, vogliamo essere qualcosa”. Tempo fa, un messaggio analogo ebbe effetti rilevanti. Ignorarlo, o parlarne con disprezzo, potrebbe rivelarsi un serio errore, a destra come a sinistra.

E Stilinga pensa che è ora di riprendersi la sinistra! 
Se il premier e segretario del PD,non eletto alle politiche, non capisce le basi dell'essere di sinistra allora si faccia da parte, ci sono sempre alternative e non abbiamo bisogno di un comunicatore, ma di un problem solver vero o vera che tiri fuori idee condivisibili, idee umane, idee che parlino di società, di benessere di possibilità per tutti, idee che per ora solo Papa Francesco ha enunciato. Così siamo messi!

Alla Leopolda applausi pilotati al Renzi

da: http://www.beppegrillo.it/la_cosa/2014/10/29/video-smaschera-renzie-gli-applausi-taroccati/

vedi video nel link sopra

La disinformazione di regime ha spacciato la Leopolda per un grande successo di pubblico e di critica, infiocchettando lunghi servizi sull’enorme affluenza e lo straripante consenso tributato a Renzi. 

È accaduto esattamente il contrario: la manifestazione del premier è stata un flop, gli stessi dati ufficiali parlano di 17mila persone in tre giorni, di cui quasi 1000 giornalisti. Ha visto più partecipazione un gazebo di Italia 5 Stelle in mezza giornata. 

Soprattutto, sono state trasmesse immagini a reti unificate sulla standing ovation ricevuta dal premier. 
La realtà è che sono applausi finti, pilotati e organizzati a comando. 

Si vede chiaramente un capo claque che incita gli spettatori inebetita a battere le mani, neanche fossimo su un canale berlusconiano! 

Renzi è stato impietosamente scoperto a parlare ad una platea telecomandata: un Presidente del Consiglio ridotto alla stregua del più incapace comico di Zelig, che ha bisogno degli applausi taroccati per tentare di ingannare i cittadini. 

I suoi ridicoli mezzucci dimostrano che Renzi è un leader senza base, gli unici a battere spontaneamente le mani sono stati i poteri forti che gli ordinano le controriforme in cambio dei finanziamenti opachi alla sua perenne campagna elettorale. Ok, il prezzo è giusto!”, Riccardo Fraccaro M5S

E Stilinga pensa che il premier voleva e vuole fare il presentatore TV, ma siccome non è riuscito a farsi una carriera televisiva, allora ha ripiegato su quella politica. 

Consideriamo che oggi la politica è  pura fiction: scenografie belle, attori e corte di giornalisti che si accalcano a parlare con i politici  che imparano una parte, la recitano, si truccano, si mettono in posa, fanno le foto, inseguendo la fama mente il Paese fa la fame! 

Considerando tutto questo, Renzi ha colto la palla al balzo per catapultarsi al parlamento, dove sembra, non è, asserisce, ma non capisce il Paese, si circonda di pupattoli che abilmente ammaestra e poi ripone. Insegue i forti, abbandona i deboli. Nel suo governo i lavoratori onesti vengono ricevuti a manganellate vere con sangue vero, non sono foto ritoccate, non sono selfie, è pura realtà. E quella è sempre più forte di quanto non si sospetti neppure in MonteFictiorio!

Italiani svegliatevi e invece di farvi male tra voi, assediate le piazze, comunicate, dite al mondo quanto state vivendo, male, e cambiamo 'sta situazione assurda! 

I nuovi poveri sono gli autonomi a partita Iva


di
— Roberto Ciccarelli, 29.10.2014

da: http://ilmanifesto.info/storia/i-nuovi-poveri-sono-gli-autonomi-a-partita-iva/





Senza diritti alla malat­tia o al soste­gno al red­dito, non avranno una pen­sione. Ma i loro con­tri­buti finan­ziano il Wel­fare degli altri lavo­ra­tori. I dati dell’Osservatorio XX mag­gio su para­su­bor­di­nati e pro­fes­sio­ni­sti iscritti alla gestione sepa­rata dell’Inps descri­vono l’esistenza del nuovo pro­le­ta­riato in Italia



Il ritratto dei nuovi poveri a par­tita Iva lo ha fatto ieri l’Osservatorio dei lavori dell’associazione 20 mag­gio pre­sen­tando a Roma il terzo rap­porto sui dati della gestione sepa­rata dell’Inps. Anche con l’entrata in vigore delle regole della delega sul lavoro, in discus­sione in par­la­mento, su mille euro gua­da­gnati ad un auto­nomo reste­ranno in tasca 515 euro con­tro i 903 di un lavo­ra­tore dipen­dente. Gli iscritti a que­sta cassa dell’Inps hanno un com­penso lordo medio di 18.640 euro, un red­dito netto da 8.670 euro annui per 723 euro mensili.

Par­liamo di un pro­le­ta­riato a tutti gli effetti che non ha diritto alle tutele uni­ver­sali con­tro la malat­tia e versa con­tri­buti per una pen­sione (oggi il 27% del red­dito, il 33% entro il 2019), ma rischia di non avere una pen­sione. I suoi con­tri­buti ser­vono oggi a coprire i debiti delle altre gestioni Inps, quella dei diri­genti ad esem­pio. Que­sti lavo­ra­tori non hanno diritto agli ammor­tiz­za­tori sociali ma con i loro com­pensi pro­du­cono un Pil pari a 24 miliardi e assi­cu­rano all’Inps un get­tito di 5 miliardi e 805 milioni annui. Que­sti dati dimo­strano che i pre­cari finan­ziano il Wel­fare senza avere nulla in cam­bio. Al danno si aggiunge dun­que la beffa. E i red­diti restano molto bassi: 10.128 euro annui per i con­tratti a pro­getto, ad esem­pio i call center.

Bassi anche i com­pensi per i dot­tori di ricerca all’università (13.834 euro lordi) o per i medici spe­cia­liz­zandi (18.746 lordi). Per i gior­na­li­sti free­lance appena 9 mila all’anno. Le donne tra i 40 e i 49 anni sono le più pena­liz­zate: gua­da­gnano 11.689 euro in meno all’anno rispetto agli uomini.

La crisi ha aumen­tato la disoc­cu­pa­zione. Nell’ultimo anno sono stati persi 166.867 occu­pati, i col­la­bo­ra­tori a pro­getto sono dimi­nuiti di 322.101 unità dal 2007 al 2013, e nel solo 2012 sono pas­sati da 647.691 a 502.834, con una fles­sione di ben 145 mila unità. Un con­tri­buto deter­mi­nante è stato for­nito dalla riforma For­nero che ha impo­sto l’introduzione dei minimi tabel­lari dei dipen­denti. Que­sto ha pro­dotto un esodo verso il lavoro nero, le «false par­tite Iva» o la disoccupazione.

Acca­drà qual­cosa di diverso con Renzi? Per i para­su­bor­di­nati iscritti alla gestione sepa­rata no. Lo sgra­vio pre­vi­sto dalla legge di sta­bi­lità per le assun­zioni a tempo inde­ter­mi­nato (con un mas­si­male fis­sato a 6200 euro) non ren­derà «più com­pe­ti­tivi» que­sti con­tratti rispetto ai lavori dove i com­pensi minimi non sono rego­lati da accordi col­let­tivi. Per le imprese sarà sem­pre più con­ve­niente assu­mere un pre­ca­rio per poi non rin­no­var­gli il con­tratto. Il pro­blema non verrà risolto nem­meno dal sala­rio minimo ipo­tiz­zato nella Delega per­ché non può essere appli­cato nella plu­ra­lità dei set­tori del lavoro para­su­bor­di­nato e tanto meno in quello auto­nomo a par­tita Iva.

C’è anzi il rischio che, con il per­du­rare della crisi e con la con­fu­sione del governo det­tata da una scarsa cono­scenza delle forme del lavoro, il sala­rio minimo diventi il mas­simo che le aziende pagano. La strada potrebbe essere quella di sta­bi­lire un equo com­penso per le par­tite Iva indi­vi­duali per evi­tare che il Jobs Act le spinga verso il lavoro nero o l’inoccupazione. Per l’Associazione 20 mag­gio la solu­zione sarebbe quella di ricon­durre gli «ati­pici» nella con­trat­ta­zione col­let­tiva, un’opzione fin’ora tra­scu­rata dai sin­da­cati. Resta da capire la situa­zione di coloro che non pos­sono, o non vogliono, diven­tare dipen­denti. Ver­ranno lasciati al loro destino di esuli invo­lon­tari, oppure si pos­sono imma­gi­nare forme di tutele uni­ver­sali o un red­dito di base?