Calzature in frenata nel 1° trimestre 2014



Calzature in frenata nel 1° trimestre 2014

“Il 2014 si è aperto con un’inversione di rotta rispetto ai buoni risultati del 2013. La competitività delle nostre imprese non basta più. Dopo 7 anni di flessione non si vede ancora una ripresa dei consumi in Italia. Siamo molto penalizzati, inoltre, dai tassi di cambio, con un euro troppo forte”. Questo il quadro pessimista dipinto dal presidente di Assocalzaturifici, Cleto Sagripanti, in occasione dell’assemblea annuale dell’associazione, tenutasi venerdì 6 giugno a Milano.

Foto: Tods.com

Mentre il 2013 si è chiuso con una sostanziale tenuta del comparto sui livelli del 2012, con esportazioni pari a 8,1 miliardi di euro (in crescita del 5,7% sull’anno precedente) e una produzione italiana che vale 7,5 miliardi, i primi mesi del 2014 mostrano dinamiche molto meno brillanti. Nel primo trimestre la produzione del calzaturiero s’iscrive in negativo, calando dello 0,3% in termini di volume rispetto all’analogo periodo del 2013, mentre in termini di valore si prevede una lieve crescita dell’1,5%, indica Assocalzaturifici in una nota.

Si conferma quindi per il 2014 un mercato domestico “totalmente fermo”. “Le esportazioni tuttavia non riescono da sole a compensare il continuo prosciugamento dei consumi interni”, sottolinea l’associazione. Nel primo bimestre l’export delle calzature italiane presenta una crescita moderata in valore del 3,1% (era del +5,5% nel primo bimestre 2012), a fronte di un calo del 2,8% in volume.

Il trend continua ad essere particolarmente negativo, con arretramenti a doppia cifra, nei Paesi dell’Est Europa e dell’ex URSS. La svalutazione del rublo, la stagnazione dell’economia in Russia, cui si aggiungono le tensioni politiche in Ucraina, hanno provocato di fatto un’importante frenata delle esportazioni di calzature italiane verso questi Paesi.

Il totale dell’export per gennaio e febbraio 2014 si attesta a 1,58 miliardi di euro, e il saldo commerciale risulta attivo per 786,3 milioni di euro (+6% rispetto all’analogo periodo del 2013).

Cleto Sagripanti all'assemblea di Assocalzaturifici

Per quel che riguarda l'occupazione, infine, la situazione continua a peggiorare. “Nei primi tre mesi del 2014 nel settore calzaturiero, includendo la componentistica, abbiamo perso lo stesso numero di addetti, circa 1.400 persone, che nell’intero 2013, e hanno chiuso altre 100 imprese”, nota Cleto Sagripanti, che auspica un ritorno della produzione manifatturiera in Europa, diminuita del 12,4% dal 2008 a oggi.

"Nonostante il deficit competitivo che abbiamo, il nostro Paese risulta al secondo posto per numero di imprese che hanno deciso di far rientrare la produzione nel Paese d’origine. Su 194 riallocazioni in Europa, il 41% delle aziende è italiano, solo il 20% è tedesco. Tra tutte le riallocazioni internazionali considerate a livello mondiale, l'abbigliamento e le calzature rappresentano il 21% e sono il primo settore davanti all'elettronica e alla meccanica”, puntualizza il presidente.

La Cina, in particolare, dove avevano delocalizzato la produzione numerose imprese, sta cambiando pelle, con un innalzamento dei salari e una compressione dei profiti delle imprese industriali. Da player manifatturiero sta diventando un mercato di consumo, meno attraente come sede produttiva delle filiere globali.

"Noi crediamo nel reshoring", conclude Cleto Sagripanti, ma perché si attui questo 'ritorno', ci deve essere un contributo da parte della politica, che "deve rimettere al centro la manifattura, con una legge ad hoc che aiuti i distretti e le piccole imprese, per esempio lavorando sui mini-bond, con agevolazioni fiscali per gli investimenti, con la riduzione fiscale su imprese e famiglie, e con la semplificazione della burocrazia".




"Mamma li comunisti: panico a Wall Street" di ilsimplicissimus

da: https://ilsimplicissimus2.wordpress.com/tag/piketty/

Mamma li comunisti: panico a Wall Street

pikettyQualche giorno fa avevo parlato della bomba caduta nel quartier generale del liberismo, con due conferenze dell’economista Thomas Piketty che sia a Washington che ad Harvard aveva contestato alla radice le tesi economiche del pensiero unico. E lo aveva fatto non con intervento estemporaneo, ma presentando una monumentale ricerca – Il Capitale nel XXI° secolo – che attraverso i dati di realtà raccolti durante 15 anni da decine e decine di ricercatori in tutto il mondo, confuta le teorie economiche correnti, scardina i miti con cui esse si accompagnano – come ad esempio quello del merito in una società tornata ad essere immobile o quello del marcato - e infine mostra come tale assetto non produce benessere per tutti, come affermano gli ipocriti, ma solo ricchezza stratosferica per pochi e povertà per molti.

Un ritorno insomma alle società della diseguaglianza e delle oligarchie autoritarie ottenuto grazie all’iniezione di dosi letali di pensiero unico resa grazie ai media ormai generalmente in possesso dei grandi gruppi e condotta con strumenti monetari come in Europa o legislativi sfruttando le paure del nuovo nemico appositamente creato, il terrorismo (o magari la Russia in un sinergico ritorno al passato). 

Inutile dire che la presentazione dell’opera di Piketty ha fatto scalpore, dal momento che è difficile confutarla e riparare lo strappo prodotto sullo sfondo di scena: rappresenta intellettualmente un chiaro segno di svolta. 

Tanto più che i centri di potere economico finanziario stanno producendo il loro massimo sforzo nel convincere le popolazioni europee di una fantomatica ripresa, ricorrendo anche a temporanee elemosine, per evitare intoppi alle cessioni di sovranità al sistema finanziario che si verificherebbero con la sconfitta dei partiti dell’austerità alle europee.

Così la reazione liberista, incapace di dare una risposta razionale a Piketty, si è espressa attraverso una desolante accusa di marxismo venuta dal Wall Street Journal e ripresa poi dai media delle colonie, compreso il Corriere della Sera, organo ufficiale della massima comun reazione del sistema politico italiano

Nessuna analisi e nessun ragionamento, ma solo l’evocazione del nome di Marx per segnalare agli incliti della finanza e ai colti del grande fratello i confini di appartenenza.

Del resto i dati di realtà sono difficili da contestare e lo stesso Paul Krugman sostiene che il Piketty panic che si è impadronito degli ideologi del pensiero unico deriva semplicemente dalla loro mancanza di idee

Figuriamoci dunque l’imbarazzo di quelli che avevano esaltato Renzi perché non aveva letto Marx (come se poi avesse letto Adam Smith, Bentham, Weber, Keynes o un qualunque manuale scolastico di economia politica : non risulta infatti siano stati pubblicati sull’albo di Topolino).

Ma in questa esplosione di panico e di fascino (le prenotazioni del Capitale nel XXI° secolo sono andate alle stelle) c’è qualcosa di più: il libro è come una liberazione da una cappa. 

Piketty non è marxista,  è definito tale solo da chi non sopporta che alcun dogma del liberismo venga messo in discussione, ma non sa come replicare: la costruzione è intellettualmente così fragile, posticcia, così chiaramente di natura politica, che anche a grattarne un po’ di malta rischia di cadere rovinosamente trascinando a fondo anche chi ha costruito nome e fortuna suonando ottusamente l’organetto. E lo si vede anche da queste reazioni: il solo accenno all’eguaglianza rende tout court marxisti, quindi comunisti, quindi nemici da additare alle vittime opportunamente addestrate a farlo e a colpevolizzarsi. 

Di certo quell’1% che detiene la metà della ricchezza mondiale e quegli 85 super ricchi che guadagnano come 3 miliardi e mezzo di persone, non amano che se ne parli. E lo si capisce: con quello che hanno speso per costruirsi un alibi che avesse la parvenza della scienza, adesso rischiano di essere messi a nudo.

L'internazionale neoliberista contro Thomas Piketty e al storia delle diseguaglianze sociali

da:http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/05/31/perche-hanno-paura-delle-idee-di-piketty51.html?ref=search

Perché hanno paura delle idee di Piketty

di Federico Rampini

Thomas Piketty è il Nemico Pubblico da abbattere. L'Internazionale neoliberista si mobilita per demolire un economista francese semi-sconosciuto (al pubblico di massa) fino all'altroieri. 

Dal Wall Street Journal al Financial Times, gli organi più autorevoli del pensiero unico mercatista, è un crescendo di attacchi contro lo studioso parigino, "colpevole" di aver messo le diseguaglianze sociali al centro dell'attenzione nella comunità scientifica.

Il Financial Times ha messo al lavoro per settimane una task force di economisti e giornalisti. La loro missione: scovare errori nel saggio Il Capitale nel X-XI secolo , il monumentale studio che Piketty ha dedicato alle diseguaglianze nel capitalismo degli ultimi due secoli. 

Gli attacchi pubblicati dal Financial Times — e rintuzzati dall'economista francese con una risposta molto dettagliata, ripres a dal New York Times — lasciano interdetti e perplessi per la loro futilità. Se non fosse che quelle accuse lasciano intuire ben altro; l'accanimento contro Piketty sembra una resa dei conti, il tentativo di mettere a tacere una voce scomoda screditandola sotto il profilo scientifico. 

Il nucleo sostanziale delle 600 pagine di Piketty è questo: il capitalismo è stato accompagnato da diseguaglianze estreme dalla Rivoluzione francese fino alla prima guerra mondiale; è seguito un periodo di relativo livellamento dei patrimoni e dei redditi fra le classi sociali nel XX secolo (compreso il trentennio "glorioso" dopo la seconda guerra mondiale); infine negli ultimi trent'anni le disparità hanno ripreso a salire a livelli estremi. 

Anche perché una oligarchia di privilegiati — in particolare i top manager — hanno "fatto secessione" dal resto della società, conquistandosi il potere di auto-determinare i propri compensi senza alcun nesso con la loro produttività reale. Tesi doppiamente scomoda. Sia perché individua cause precise dietro le diseguaglianze. Sia perché dimostra che queste non sono affatto inevitabili. 

Gli "errori" che il Financial Times pretende di aver individuato sono marginali e contestabili. Il quotidiano sostiene ad esempio che Piketty avrebbe dovuto usare statistiche sulla tassa patrimoniale svedese del 1920 anziché del 1908; oppure contesta alcune stime sul "differenziale di mortalità" in Francia. 

La difesa argomentata di Piketty si avvale del fatto che il suo studio non è un exploit individuale: ci hanno lavorato più di trenta economisti di vari continenti, da 15 anni, inclusi docenti di Berkeley, California. 

Il libro viene accompagnato da sterminate appendici di dati archiviate online per non appesantire oltremodo la lettura. La vera notizia è proprio questo accanimento. Cosa c'è dietro? La gelosia è uno dei possibili moventi visto che Piketty si è imposto come un fenomeno da star-system che non ha precedenti nella "scienza triste" (come viene definita l'economia): invitato da Barack Obama per un incontro coi consiglieri della Casa Bianca; poi dai due Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz a New York, infine da Harvard. 

Il suo libro è in vetta alle classifiche negli Stati Uniti. Ma l'ostilità verso Piketty ha motivazioni più profonde. Il francese non è sconosciuto negli ambienti accademici. Enfant prodige della sua disciplina, brillante matematico, insegnava al prestigioso Massachusetts Institute of Technology quando era ventenne. Poi fece un affronto imperdonabile: voltò le spalle alle università americane e tornò a lavorare in Francia. Con due accuse pesanti: criticando gli economisti Usa per la loro "deriva matematica" (modelli sempre più complessi e sempre meno attinenti ai problemi reali), ed anche per i loro latenti conflitti d'interessi. Quest'ultima accusa venne lanciata, a livello divulgativo, anche dal celebre documentario Inside Job: con nomi e cognomi di illustri economisti arricchiti grazie a consulenze per i big di Wall Street, l'industria petrolifera, ecc.

Il Financial Times è un ottimo giornale, ma non ha mai preso le distanze dall'ideologia neoliberista, neppure dopo il disastro sistemico del 2008. Il mercato è (quasi) sempre la soluzione dei nostri problemi, a leggere i suoi editoriali. Le energie che oggi il Financial Times dispiega per demolire Piketty, non le ha dedicate con la stessa intensità e coerenza a individuare tutti gli errori della scienza economica neoclassica e liberale degli ultimi trent'anni. 

In questo il Financial Times e il Wall Street si accodano ad un comportamento omertoso che accomuna gran parte degli economisti: una scienza colpevole di tanti danni e incredibilmente avara di autocritiche. Piketty ironizza sul fatto che «secondo il Financial Times l'Inghilterra di oggi sarebbe una società più egualitaria di quanto lo sia stata la Svezia» nel periodo di massima redistribuzione sotto governi socialdemocratici. Una tesi che contraddice l'evidenza empirica e sbeffeggia il buonsenso comune

Un altro economista controcorrente, l'australiano David Gruen, ha descritto in questi termini il comportamento dell'establishment neoliberista alla vigilia del disastro sistemico del 2008: «È come se sul Titanic, avviato alla collisione finale contro l'iceberg, tutti quelli che avrebbero potuto e dovuto avvistare il disastro, fossero rimasti chiusi dentro una cabina senza oblò, impegnati a disegnare una nuova nave meravigliosa, fatta per un mare senza iceberg». 

Un grande intellettuale inglese scomparso, Tony Judt, ricordava quel che fu l'austerity del dopoguerra: la ricchezza e il reddito in Gran Bretagna vennero redistribuiti con una fiscalità progressiva che oggi sembrerebbe da esproprio. La quota del patrimonio nazionale detenuta dall'1% dei più ricchi era scesa brutalmente, dal 56% del 1938 al 43% nel 1954. Il 13% di ricchezza redistribuita è un'operazione "livellatrice" di rara potenza. Ben diversa dal segno sociale dell'austerity di oggi. Tutto questo accadde in un'economia capitalistica, che seppe poi sprigionare il boom degli anni Sessanta. 

Piketty risulta insopportabile alle poderose armate del neoliberismo, perché lui non è un neomarxista, non è un pensatore utopico e radicale. Dimostra che un capitalismo meno diseguale è possibile, perché in realtà è già esistito.