QUAL È IL PREZZO DELLA GOVERNABILITÀ


La Repubblica 07.09.13

“QUAL È IL PREZZO DELLA GOVERNABILITÀ”, di VITTORIO SERMONTI

Caro Presidente Napolitano,
ma che cosa sta succedendo in Italia? Possibile mai che a un cittadino della Repubblica sia permesso (come è stato permesso ai primi di agosto) di additare con le lacrime agli occhi allo scherno di un migliaio o due di cittadini adoranti che brandiscono bandieroni stampati in serie e cartelli girati all’indietro per essere ripresi dalle telecamere, i giudici della Corte di Cassazione, colpevoli di averlo condannato per frode fiscale? Possibile che gli sia consentito (come gli è stato consentito) di ridicolizzare magistrati del più alto ordine giudiziario come «impiegati che hanno fatto un compitino vincendo un concorso», lui unto dal popolo, cioè presidente-padrone di un partito che ha riscosso parecchi consensi, comunque meno di un quarto del corpo elettorale, e che personalmente è disprezzato da quasi tutti gli altri elettori, e irriso nel resto d’Europa e del mondo? Possibile che quella bella manifestazione di strada, diffusa in diretta tv, e introdotta dall’inno nazionale, si sia insediata protervamente al centro dell’informazione televisiva e della vita politica e civile della nazione da settimane e settimane? E che le parole del cittadino con le lacrime agli occhi siano poi state citate impunemente dal suo staff a esempio di responsabilità istituzionale e di moderazione politica? E che Lei, signor Presidente, davanti alla nazione che la Sua persona ha onorato nel mondo con tanta fermezza e tanto equilibrio sia scandalosamente convocato ogni giorno che passa a tamponare una ininterrotta serie di ricatti per evitare il collasso dell’esecutivo, mentre il Paese intero arranca per sopravvivere e il Mediterraneo è spazzato da venti di guerra?
Presidente, mio Presidente, Lei sa molto meglio di me come una comunità tessuta di parole che non hanno più peso né senso perché ogni affermazione vale la sua smentita, e in cui l’iniquità si perfeziona nel cavillo, non è un Paese decente, certo non è un Paese per giovani. 
Una accettabile stabilità di governo in una fase di estrema labilità economica e di grande turbamento sociale entro un quadro internazionale minacciosissimo va accanitamente difesa (chi non se ne rende conto?): ma forse non a qualsiasi prezzo. E se il prezzo è l’ossatura morale del Paese, l’onore della sua lingua, cioè della sua identità profonda, la povera faccia di ciascuno di noi, io penso disperatamente che quel prezzo non vada pagato.
La politica svolga il suo compito; le istituzioni, il loro. Ma è arrivato il momento che ogni singolo cittadino – in democrazia il solo soggetto che dia corpo e legittimità alla maggioranza e, in casi estremi, l’unico contrappeso alla maggioranza – si metta in piazza per dire chiaro che non sopporta più di vivere ostaggio dell’egolatria eversiva di un frodatore del fisco, e tanto meno (è un problema di noi vecchi), di morirci.

La strategia del ricatto per blindare il porcellum

“La strategia del ricatto per blindare il porcellum”, di Gianluigi Pellegrino


Senza il Porcellum, il caimano non avrebbe il pantano dove minacciare il suo ultimo disperato colpo di coda. 
L’estorsione istituzionale di Berlusconi (salvacondotto personale o niente governo) una quintessenza della concussione, già sin troppo tollerata, sarebbe un’arma del tutto spuntata. Un’arma inefficace se non ci fosse la legge porcata da lui del resto a suo tempo voluta e approvata. 

Con un qualsiasi decente sistema di voto, il Paese avrebbe poco da temere dalla restituzione della parola ai cittadini, e già solo per questo il Cavaliere e la sua corte avrebbero altrettanto poco da minacciare.
Invece tornando al voto con il Porcellum non solo tutto il peggio è possibile ma bene che vada il caos è garantito e il risultato incostituzionale pure. Per non dire che tra gli obbrobri di quella legge c’è anche che un condannato, interdetto dai pubblici uffici e da ogni incarico di governo, parlamentare decaduto e incandidabile, possa ugualmente figurare al centro della scheda nel ruolo a quel punto sovversivo di capo e padrone della sua squadriglia.
Berlusconi tutto questo lo sa e quindi brandeggia la sua ultima disperata minaccia di provocare immediate elezioni ancora deturpate dal Porcellum se Pd e capo dello Stato non gli abbuonano sentenze e reati.
Da qui due immediate e stringenti conclusioni. La prima è quanto miopi siano state le titubanze e le ipocrisie con cui anche il governo e i democratici hanno fatto melina sulla riforma elettorale che pure avevano promesso come primo improcrastinabile impegno. Lo hanno fatto nella malcelata paura, quasi il terrore, che cambiare il sistema di voto avrebbe accelerato la fine di esecutivo e legislatura che evidentemente si volevano tenere in piedi a prescindere dalla loro utilità per il Paese, secondo l’immarcescibile comandamento del “tirare a campare che è sempre meglio che tirare le cuoia”. E così fingendo confronti e approfondimenti si rinviava tutto nel tempo, giungendo persino ad inserire in un disegno di legge costituzionale la blindatura del Porcellum sino alle calende greche di riforme che non hanno le condizioni minime per essere varate. Questo giornale aveva più volte evidenziato quanto la scelta di rinvio fosse sleale nei confronti del Paese ed ingiusta sul versante istituzionale. 
Le direttive europee ammoniscono come il tempo migliore per approvare nuove regole elettorali sia l’immediato inizio della legislatura, perché più avanti si va, più il merito della riforma viene inquinato dalle necessità di posizionamento delle forze politiche in vista del ritorno alle urne.
E comunque la presenza di una praticabile legge elettorale costituisce ogni giorno il polmone essenziale per l’agibilità democratica di una repubblica costituzionale.
Oggi quelle ipocrisie che imploravamo di abbandonare, si ritorcono contro chi l’ha praticate perché è proprio il Porcellum l’ultima arma disperata che consente a Berlusconi il suo estremo ricatto contro governo e Paese, per le incognite che aprirebbe un ritorno alle urne inquinato dalla legge porcata. E così la nemesi si con l’esecutivo e le larghe intese che speravano di blindarsi dietro alla sopravvivenza del Porcellum e invece rischiano di finirne fagocitati. Come apprendisti stregoni di una scellerata politica del rinvio.
Allora, ed è qui la seconda conclusione, oggi sono proprio Pd e governo che devono rompere gli indugi e varare una legge di urgenza di riforma elettorale. Adottando nel merito una soluzione che nessuno può contestare: primo turno di collegio come vogliono Pd e cittadini, ma ballottaggio nazionale di coalizione come preferisce il centrodestra. Con un quota proporzionale per le piccole formazioni e il diritto di tribuna. Si garantirebbe così in un colpo solo governabilità, rappresentanza e restituzione della scelta ai cittadini. Chi potrebbe credibilmente protestare?
I democratici quando su questo tema (rigettando la mozione Giacchetti) hanno affermato un sorprendente principio di “solidarietà” con il Pdl, hanno rischiato di cambiare natura alla cosiddette larghe intese: da convergenza su un esecutivo di necessità, a un patto di complicità tra i gruppi dirigenti che è quanto di più paludoso e nefasto per il Paese. Complicità che non a caso oggi Berlusconi richiama nel pretendere i voti per un eversivo salvacondotto.
Si spezzi quindi il circuito vizioso non solo votando la decadenza come impone la legge e la Costituzione, ma anche paralizzando il ricatto ritorsivo del Cavaliere, proponendo subito la riforma elettorale con procedura di urgenza e sulla sua approvazione se del caso mettendo anche la fiducia. A quel punto sì il re sarà nudo e chiare le responsabilità di ciascuno; Cinquestelle compresi.
La Repubblica 07.09.13