I debiti della Germania e l'austerità della Merkel di Luciano Gallino

Da La Repubblica del 22/08/2013

L’intervista concessa giorni fa dalla Cancelliera Merkel alla Frankfurter Allgemeine, apparsa
anche su Repubblica, si presenta con due facce. La prima è quella di un manifesto elettorale, in
vista della tornata di settembre. Angela Merkel è nota per saper interpretare come pochi altri
politici le idee e gli umori del cittadino medio del suo paese.
Che si possono così compendiare: noi lavoriamo sodo, sappiamo fare il nostro mestiere e
amministriamo con cura il denaro pubblico e privato; quasi tutti gli altri, nella Ue, lavorano poco,
sono degli incapaci e vivono al di sopra dei loro mezzi. La seconda faccia dell’intervista è una
calorosa difesa delle politiche di austerità e delle riforme che la Cancelliera ha imposto ai Paesi
Ue affinché risanino i bilanci pubblici e riducano i debiti.
Ogni personaggio politico sceglie le strategie comunicative che crede ed è probabile che quelle
di Angela Merkel le assicurino il terzo mandato consecutivo. Su di esse non c’è quindi nulla da
dire. Ma la difesa strenua dell’austerità e il messaggio implicito nell’intervista “i Paesi Ue sono
pieni di debiti e noi no, per cui ci tocca insegnargli come si fa ad uscirne” meritano qualche
osservazione.
La prima è che la Germania, se si guarda alla sua storia, non ha nessun titolo per
impartire lezioni in tema di debiti. Un paio di anni fa un docente tedesco di storia economica,
Albrecht Ritschl, ebbe a definire la Germania, in un’intervista a “Spiegel Online”, il debitore più
inadempiente del XX secolo. La Germania di Weimar aveva contratto tra il 1924 e il 1929 grossi
debiti con gli Stati Uniti per pagare le riparazioni della I Guerra mondiale.
 La crisi economica del 1931 consentì al paese debitore di azzerarli, con un danno enorme per gli Usa. La Germania di Hitler smise semplicemente di pagare le riparazioni, sebbene esse fossero state drasticamente ridotte a confronto dell’entità punitiva indicata dal trattato di Versailles del 1919. Per parte sua il nuovo stato federale ha pagato somme minime per i danni provocati dalla Germania nella II Guerra mondiale, grazie anche al benvolere degli americani che gradivano si rafforzasse per fare da argine all’Urss. Ma soprattutto non ha pagato quasi nulla per restituire ai Paesi europei
occupati tra il 1940 e il 1944 le ingenti risorse economiche che la Germania nazista aveva
prelevato a forza da essi. Lo stesso professor Ritschl ha stimato, in un articolo presentato nel
2012 alla 40a Conferenza di Scienze Economiche, che in moneta attuale codesto debito verso
l’estero ammonterebbe a 2,2-2,3 trilioni di euro, equivalente all’incirca a un anno intero di Pil
della Germania attuale.
 Avesse dovuto restituire anche soltanto un trilione ai Paesi spogliati dai nazisti, la nuova Germania avrebbe dovuto sborsare decine di miliardi l’anno per parecchi
decenni.
A parte l’oblio del pessimo record della Germania come debitore, la orgogliosa difesa delle virtù
dell’austerità che Angela Merkel fa nella sua intervista male si accorda con le cifre. Secondo
dati Eurostat nei Paesi Ue si contano oggi oltre 25 milioni di disoccupati e 120 milioni di persone
a rischio povertà per varie cause: reddito basso anche quando lavorano, gravi deprivazioni
materiali, appartenenza a famiglie i cui membri riescono a lavorare soltanto poche ore la
settimana.
La scarsità di impieghi, i tagli alla spesa sociale e all’occupazione nel settore pubblico hanno ridotto male anche le classi medie dei Paesi Ue. Neanche i lavoratori tedeschi se la passano bene. I “minijobbers”, coloro che debbono accontentarsi dei contratti da 450 euro al mese sgravati da tasse e contributi sociali, sono in forte aumento e si aggirano oramai su 8 milioni, circa un quinto delle forze di lavoro. Tra le cause di tutto ciò va annoverata la crisi, certo. Ma la crisi è iniziata sei anni fa.
La recessione che ha provocato avrebbe dovuto essere combattuta in modo rapido e deciso con un aumento mirato della spesa pubblica, e i governi europei avevano il sacrosanto dovere di farlo dopo che avevano salvato le banche private a
colpi di trilioni di denaro pubblico.
Tuttavia sotto la sferza del governo tedesco essi adottarono la più dissennata delle politiche concepibili dinanzi a una recessione: la contrazione della spesa.
Perfino gli economisti del Fmi, per decenni fautori dei più duri aggiustamenti strutturali, sono arrivati a scrivere che l’austerità nella Ue ha prodotto risultati negativi.
È rimasta la signora Merkel a vantarne i benefici.
La stessa Cancelliera e il governo tedesco dovrebbero inoltre ricordarsi più spesso che la prosperità della Germania deve molto alla sottovalutazione del “suo” euro, senza la quale i 200 miliardi di eccedenza delle esportazioni sulle importazioni – 80 dei quali sono generati entro la Ue – si ridurrebbero a poca cosa.
A fine 2011 un team di economisti della Ubs aveva stimato che l’euro tedesco fosse sottovalutato del 40 per cento. Altre fonti recenti indicano che esso vale 2 dollari e non 1,40 come dice il cambio ufficiale – uno scarto appunto del 40 per cento. E pochi mesi fa Wofgang Münchau del “Financial Times”, senza fare cifre, parlava di “enormi squilibri” tra il valore dei diversi euro dell’eurozona.

Tali squilibri, tra cui primeggia quello tedesco, sono dovuti al fatto che essendo l’euro una moneta unica, il suo valore nominale non può variare in modo da compensare le differenti capacità di produrre ed esportare delle economie europee. Se così fosse, le esportazioni tedesche sarebbero diventate da tempo assai
più care. Ora non ci permetteremo qui di definire i tedeschi “portoghesi d’Europa”, come ha fatto
qualche commentatore, ma un miglior apprezzamento dei vantaggi differenziali che l’euro reca
alla Germania da parte del suo governo sarebbe gradito.

Ad onta dei suoi difetti di nascita, di un trattato istitutivo che assomiglia più allo statuto di una
camera di commercio che a un documento politico, dei suoi squilibri interni, l’Unione europea rimane la più grande invenzione politica, civile ed economica degli ultimi due secoli. Per continuare a rafforzare tale invenzione gli stati membri hanno bisogno della Germania, così come questa ha bisogno di loro.

Gioverebbe a tale processo poter discutere con governanti tedeschi che tengano più presente la storia economica e sociale del loro Paese, siano meno altezzosi nei confronti dei Paesi che giudicano colpevoli per il solo fatto di essere indebitati (non a caso Schuld in tedesco significa sia colpa che debito), e studino magari un po’ di economia per capire che l’austerità in tempi di recessione è una ricetta suicida.

 Per chi è costretto ad applicarla, ma, alla lunga, anche per chi la predica. Inutile aggiungere che allo stesso sviluppo gioverebbe avere negli altri Paesi, compresa l’Italia, dei governanti che a Berlino o a Bruxelles
non vadano soltanto per dire che il loro Parlamento approverà senza condizioni qualsiasi
trattato o dettato che le due capitali (una, in realtà) si sognino di confezionare.

L'allarme ecologico di Goletta Verde: "Scarichi inquinanti ogni 57 km di costa"

 da: http://www.repubblica.it/ambiente/2013/08/14/news/l_allarme_ecologico_di_goletta_verde_scarichi_inquinanti_ogni_57_km_di_costa-64767524/?ref=HREC2-5

ROMA - C'è ancora troppa "maladepurazione" in Italia: questa la conclusione del viaggio compiuto da Goletta Verde di Legambiente che per due mesi ha circumnavigato lo Stivale, compiendo 34 tappe. Sono 130 i campioni risultati inquinati dalla presenza di scarichi fognari non depurati - uno ogni 57 km di costa - sul totale delle 263 analisi microbiologiche effettuate. In pratica quasi il 50% dei punti monitorati lungo i 7.412,6 km di territori costieri toccati dall'imbarcazione ambientalista. E di questi campionamenti risultati oltre i limiti di legge ben 104 (l'80%) hanno avuto un giudizio di fortemente inquinato, cioè con concentrazione di batteri di origine fecale pari ad almeno il doppio di quanto consentito. Seguendo questo link si può accedere ai dati della ricerca di Legambiente.

Il 90% dei punti inquinati sono stati prelevati alle foci di fiumi, torrenti, canali, fiumare, fossi o nei pressi di scarichi di depuratori malfunzionanti, che si confermano i nemici numero uno del nostro mare. Nessuna regione - fa notare il rapporto, presentato alla stampa da Legambiente e dal partner Coou (Consorzio obbligatorio degli oli usati) - è risultata indenne dall'attacco della mala depurazione. Dei 130 risultati oltre i limiti, 19 sono in Campania, 17 in Puglia, Calabria, Lazio, 12 in Sicilia, 11 in Liguria. Ma nelle regioni del Mezzogiorno al danno ambientale si somma quello economico: "Si rischia di perdere ben 1,7 miliardi di euro dei fondi Cipe destinati alla costruzione e all'adeguamento degli impianti che sono in scadenza a dicembre - ha fatto notare Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente - come se non bastasse, inoltre, ci prepariamo anche a far pagare ai cittadini italiani multe milionarie da parte dell'Unione europea per l'incapacità di gestire il ciclo delle acque reflue. Soldi che invece potrebbero essere investiti per aprire nuovi cantieri per la depurazione. Realizzare sistemi efficienti e moderni - aggiunge Zampetti - deve trasformarsi in una priorità nell'agenda politica italiana. E' l'ennesima vergogna che questo Paese non merita. Non si tratta più soltanto di difendere fiumi e mari, vera grande risorsa di questa nazione, ma ne va dell'intera economia nazionale, buona parte della quale è basata sul turismo".

Il mancato o inadeguato trattamento dei reflui fognari - spiega lo studio - riguarda ancora 24 milioni di abitanti, che scaricano direttamente in mare o indirettamente attraverso fiumi e canali utilizzati come vere e proprie fognature. La criticità non riguarda soltanto i comuni costieri, ma anche quelli dell'entroterra, per la cronica carenza di impianti e l'apporto del carico inquinante dei reflui che non sono adeguatamente trattati dagli impianti in attività, perchè obsoleti o malfunzionanti. 

Il monitoraggio di Goletta Verde ha rilevato inoltre che "molto spesso foci di torrenti e fiumi vengono fruiti da bagnanti ai quali ancora non viene garantita una corretta informazione. Sul totale delle foci e dei canali risultati inquinati e fortemente inquinati il 40% viene dichiarato balneabile dal Portale della Acque del Ministero della Salute. Il 35% dei punti presi in analisi, inoltre, risultano del tutto non campionati dalle autorità preposte anche se spesso questi tratti, pur trovandosi in corrispondenza di foci e canali, sono comunque frequentati da bagnanti". Motivo per cui - sostiene Legambiente - è imperativo che le autorità introducano o intensifichino i controlli anche in prossimità di queste possibili fonti di inquinamento. Invece, dei tratti di mare definiti dal Portale come non balneabili per motivi di inquinamento, mancano nel 18% dei casi i cartelli di divieto di balneazione.

PENSIONI D’ORO, È L’ORA DELLA TRASPARENZA (Tito Boeri)

PENSIONI D’ORO, È L’ORA DELLA TRASPARENZA (Tito Boeri)

Non sappiamo cosa abbia spinto il sottosegretario Carlo Dell’Aringa a pubblicare l’elenco delle dieci pensioni più generose erogate dall’Inps. Non crediamo che il suo intento fosse quello di alimentare l’invidia.
 Dopo una lunga stagnazione e due pesanti recessioni intervenute a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, dopo che le disuguaglianze nei redditi, già alte in rapporto al resto d’Europa, sono aumentate di un ulteriore 10 per cento, l’invidia è un sentimento molto diffuso nel nostro Paese. Non c’è alcun bisogno di alimentarlo. 
Quei tre milioni e più di disoccupati che vivono in Italia ovviamente invidiano chi un lavoro ce l’ha. E come non capire cosa prova chi riceve una pensione sociale di 442 euro al mese apprendendo che c’è chi ottiene quella cifra dall’Inps ad ogni ora del giorno che scocca, beneficiando di una pensione più di 200 volte superiore alla propria?
Speriamo allora che il vero intento del ministero del Lavoro e delle politiche sociali sia quello di preparare il terreno all’introduzione nella Legge di Stabilità, che verrà presentata da qui a poche settimane, di un qualche taglio (o prelievo) sulle pensioni d’oro. Del resto era stato proprio il neo ministro Giovannini, a pochi giorni dal suo insediamento, a fare riferimento a interventi sulle pensioni che «non porterebbero molti soldi, ma sarebbero una misura di giustizia sociale».
Se questo è dunque l’obiettivo del governo, ci permettiamo di suggerire a Dell’Aringa di rendere pubblico al più presto quanto i beneficiari di questi mega assegni hanno versato nel corso della loro intera carriera lavorativa. In altre parole, bisogna rendere noti non solo i livelli delle pensioni d’oro, ma anche i rendimenti impliciti che sono stati concessi dal sistema previdenziale pubblico ai contributi versati dai pensionati d’oro e dai loro datori di lavoro.
Servirà questa informazione innanzitutto per evitare possibili censure della Consulta in nome della violazione di “diritti acquisiti”. 

Se non si rendono pubbliche queste informazioni sarà sempre possibile sostenere che, dopotutto, i beneficiari di queste prestazioni milionarie se le sono pagate coi loro contributi in anni di lavoro. Ad esempio Federico de Rosa sul Corriere della Sera del 9 agosto scrive che Mauro Sentinelli, colui che guida la classifica dei top ten, “oggi incassa grosso modo lo stesso che percepiva da direttore generale di Telecom Italia”. Non sappiamo nulla della carriera di Sentinelli, ma la domanda da porsi non è quanto fosse il suo stipendio sul finire della carriera. Ciò che conta è quanto l’ex manager di Telecom ha effettivamente versato all’Inps durante la sua vita per meritarsi una pensione che, a 57 anni, quando è andato in pensione, valeva complessivamente quasi 20 milioni. È come se lo Stato italiano lo avesse reso proprietario di un immobile del valore di un quinto di Villa Belvedere a Macherio. Ogni pensione calcolata in Italia con un metodo diverso da quello contributivo, quello che oggi viene praticato a tutti i contributi versati dai lavoratori italiani, attribuisce prestazioni superiori ai contributi versati in termini attuariali, attribuisce prestazioni superiori a quanto pagato o accantonato. E il sospetto è poi che non pochi dei pensionati d’oro abbiano potuto fruire di regalie molto generose fatte per ragioni di consenso elettorale soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, scaricandone i costi sui contribuenti futuri.

Ricordiamoci che ai lavoratori autonomi negli anni di esplosione del debito pubblico era stato concesso di andare in pensione con le regole del metodo retributivo, quelle che consentivano allora versando i contributi negli ultimi tre anni di una carriera di ottenere poi pensioni del 70%-80% dell’ultimo reddito dichiarato.
E a molti lavoratori dipendenti prima della riforma Amato venivano aumentati i salari negli ultimi anni in modo tale da permettere loro di ricevere una pensione più alta, perché parametrata alle retribuzioni degli ultimi 5 anni. Altro che pensioni maturate coi sacrifici di una vita e su cui si era a lungo pianificato! In casi come questi si tratta di “regali acquisiti” poco prima di andare in pensione. Questi regali insostenibili hanno poi obbligato governi successivi a mutare più volte le regole previdenziali, riducendo la generosità delle prestazioni a chi aveva versato i propri contributi contando poi di ricevere pensioni più pesanti. Non sono anche questi, soprattutto questi, “diritti acquisiti”? E se questo è il fondamento di molte pensioni d’oro, perché è in linea coi principi costituzionali chiedere di più a “chi ha di più” come fa il nostro sistema tributario, ma non lo è chiedere di più a “chi ha avuto di più”, togliendo ad altri “diritti acquisiti”?
I dati sui rendimenti impliciti servirebbero anche a meglio calibrare gli interventi perequativi. Ad esempio, si dovrebbe ridurre l’ammontare delle quiescenze a chi soddisfa due criteri: il primo è quello di ricevere un ammontare totale di pensioni (ci sono molte persone che percepiscono più di una pensione) al di sopra di una certa soglia; il secondo è quello di ottenere questo reddito prevalentemente da una pensione il cui rendimento implicito è molto elevato. 
Il primo criterio (quello che guarda all’ammontare complessivo delle pensioni) serve a tutelare il principio di equità redistributiva, sostenendo nella vecchiaia chi non ha accumulato abbastanza contributi. 
Il secondo criterio (quello che guarda alle pensioni in rapporto ai contributi versati) tutela l’equità intergenerazionale, chiedendo qualche sacrificio in più a chi ha avuto troppo dalle vecchie regole del sistema pensionistico
I risparmi così ottenuti potrebbero essere utilizzati per dotare il nostro paese di quegli strumenti di contrasto alla povertà assoluta che, unici in Europa assieme alla Grecia, tuttora non abbiamo. Alcune simulazioni svolte con Tommaso Nannicini (e raccolte sul sito lavoce. info) ci portano a pensare che tagli anche esigui (attorno al 2 per cento delle quiescenze che soddisfino i due criteri di cui sopra) sarebbero sufficienti a finanziare un reddito minimo garantito se non per tutti, almeno per quelle fasce di età che sono state particolarmente colpite dalla crisi, come le generazioni coinvolte nella vicenda esodati o quelle travolte dall’esplosione della disoccupazione giovanile.

Pubblicare i rendimenti impliciti di ogni prestazione oggi erogata dal sistema pubblico rispetto ai contributi versati sarebbe una vera operazione di trasparenza sulle iniquità del nostro sistema previdenziale. Servirebbe anche a rafforzare conoscenze finanziarie di base per chi deve costruirsi il proprio futuro previdenziale.

Capire cosa ci può attendere dal sistema pubblico rispetto a quanto accaduto ai propri genitori è importante per permettere alle nuove generazioni di trovare correttivi, ad esempio spingendo chi può farlo a costruirsi forme previdenziali integrative. A proposito: è davvero fondamentale permettere a chi oggi si trova a meno di 5 anni dal raggiungimento dell’età di pensionamento obbligatoria di poter riscattare i contributi versati ai fondi pensione in caso di perdurante disoccupazione. 
Assurdo che molti esodati non possano oggi farlo nonostante il dramma che stanno vivendo. 
Mi chiedo come si possa pensare di sostenere in Italia il decollo dei fondi pensione mantenendo in piedi una restrizione di questo tipo. 
E come sia possibile impedire di tagliare le pensioni d’oro per aiutare i lavoratori esodati, in nome dei “diritti acquisiti”. 
Ma di quali diritti stiamo parlando al cospetto di persone che hanno visto allontanarsi la pensione e accorciarsi il periodo di fruizione dei trattamenti di mobilità?
Da La Repubblica del 13/08/2013