Crisi: comunità cinese Prato, chiuse 30% delle attività

da: http://it.fashionmag.com/news-305440-Crisi-comunita-cinese-Prato-chiuse-30-delle-attivita



Se a Roma circa il 10% delle attività gestite da cinesi ha chiuso a causa della crisi, "a Prato la situazione è ben peggiore, qui siamo intorno al 30%, a Roma sono 'fortunati"'. A dirlo è Matteo Ye, portavoce della comunità cinese di Prato, la seconda più numerosa d'Italia dopo Milano, e seguita da quella della Capitale.


Foto Wonderful

Qui la stragrande maggioranza degli orientali sono occupati nel tessile, che dal Medioevo costituisce l'ossatura dell'economia pratese. "Il comparto più colpito è quello del pronto moda, e anche i ristoranti vengono colpiti, la gente ha meno soldi e rinuncia ad andare a mangiare fuori casa", spiega Ye.

Chi è costretto a chiudere la sua attività o resta senza lavoro "se ne torna in Cina, oppure emigra in Sudamerica, in Africa o in altri Paesi extraeuropei - illustra il portavoce della comunità cinese di Prato - Chi non sa come fare, resta qui in attesa di tempi migliori, come mio cognato che è senza lavoro da sei mesi. Anche la mia attività di traduzione e assistenza pratiche sta conoscendo la crisi".

Addio all'austerity di Federico Rampini


ADDIO ALL'AUSTERITY

http://ricerca.gelocal.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/01/11/addio-allausterity.html

IL DOPO austerity sta cominciando. Dai vertici dell'Unione europea arrivano segnali, ancora discreti ma inequivocabili, di un cambiamento di rotta.

Nessuno vuole prendere atto in modo brutale che le terapie fin qui applicate nell'eurozona erano proprio sbagliate.

UNA tesi che invece ha autorevoli sostenitori su questa sponda dell'Atlantico: da Barack Obama al Nobel Paul Krugman. 
Senza ripudiarla troppo esplicitamente, l'austerity viene liquidata con uno stillicidio di dichiarazioni. 

Messe insieme, anticipano la fine di un'èra. 

Il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, ora finge che i feroci salassi al Welfare non abbiano mai avuto un imprimatur da Bruxelles: «E' un mito che l'Unione europea imponga politiche dure, non è vero»

Più drastico e anche autocritico, il presidente uscente dell'Eurogruppo, il lussemburghese Claude Juncker: «L'Europa sta sottovalutando la tragedia della disoccupazione, supera l'11% e non ce lo possiamo permettere. Dobbiamo realizzare politiche più attive per il mercato del lavoro»

Alla Bce Mario Draghi ammette che ancora «non si vedono segnali di miglioramento dell'economia reale» (l'unica che conta per i cittadini: investimenti, lavoro, reddito).

 Draghi rifiuta di pronunciarsi sulla sconcertante previsione di Angela Merkel, che in un'intervista del 2012 parlò di altri cinque anni di crisi. Rischia di essere la classica profezia che si autoavvera: sia per l'influenza che ha la cancelliera tedesca sul clima di fiducia generale, sia perché da Berlino viene la ricetta che ha prolungato finora l'austerity.

«Gli Stati Uniti ci interpellano - aggiunge ancora Juncker che in passato era spesso allineato con la Germania-e noi abbiamo risposte di cortissimo respiro».

Gli Stati Uniti non solo l'Amministrazione Obama. C'è anche un'istituzione multinazionale con sede a Washington, il Fondo monetario, che ha fatto una clamorosa autocritica

In un importante studio che porta la firma del suo direttore generale, Olivier Blanchard, il Fmi ammette di avere sbagliato sistematicamente le sue previsioni durante questa crisi. 

E sempre in una direzione sola: ha sottovalutato la pesantezza della recessione

Come si spiega questo perseverare nell'errore, a senso unico?

 Secondo l'autodiagnosi del Fmi, sono stati «sotto-stimati gli effetti moltiplicatori dell'austerity come freno alla crescita». 

Questi effetti sono tanto più pesanti se «l'austerity non è uno shock una tantum», bensì una terapia protratta su più anni. 

E' esattamente la tesi keynesiana di Obama, Krugman, Joseph Stiglitz e tanti altri qui in America: «Non si esce dalla crisi a colpi di tagli». 

I salassi al Welfare e ai servizi sociali riducono il potere d'acquisto dei consumi; la mancanza di domanda deprime gli investimenti e le assunzioni; il saldo finale è il calo del Pil che "aritmeticamente" fa salire proprio quel peso relativo del deficit e del debito che si vorrebbe ridurre.

Un altro studio che circola qui a New York, sfornato dalla Goldman Sachs, individua un solo caso nella storia in cui l'austerity sia stata accompagnata alla crescita. E' il caso del Belgio, un paese così piccolo che l'andamento della sua economia è quasi interamente legato alla domanda dei paesi vicini come Germania, Francia, Olanda. 

Esclusa questa minuscola eccezione, austerity e crescita non coincidono mai nei fatti

La controprova la fornisce proprio l'economia degli Stati Uniti. L'Amministrazione Obama ha la fortuna di non sottostare a l l ' " o r d o - l i b e r i s m o " d e l l a Merkel, né ai parametri di Maastricht o altre versioni aggiornate di "fiscal compact".

Washington ha chiuso il 2012 con un deficit federale superiore all'8% del Pil, un livello che nella Ue vecchia maniera farebbe invocare commissariamenti esterni. 
E' anche grazie al motore keynesiano della spesa pubblica che l'America ha una crescita che sfiora il 3% annuo, genera costantemente oltre 150.000 nuove assunzioni al mese da due anni a questa parte, e ha ridotto la disoccupazione dal 10% al 7,8%. 

Tutte quelle economie mondiali che hanno scongiurato la crisi o ne sono uscite in fretta - vedi le potenze emergenti dei Brics - hanno fatto ricorso a qualche variante della ricetta keynesiana.

L'Europa ci sta arrivando in ritardo, sulla scorta di un ravvedimento. 

E' ancora Juncker il più colorito, che rispolvera addirittura l'autore del Manifesto comunista: «Occorre ritrovare la dimensione sociale dell'Unione economico-monetaria, con misure come il salario minimo in tutti i paesi della zona euro, altrimenti per dirla con Marx perderemmo credibilità verso la classe operaia».

Molto dipende ancora dalla Germania, e dall'esito delle sue elezioni. Il tedesco Martin Schulz, socialdemocratico che presiede l'Europarlamento, dà un'idea dell'orientamento nel suo partito quando ricorda di aver sostenuto l'azione di Mario Monti «sul principio di ricostruzione della fiducia», ma precisa che questo sostegno non si applica «ai dettagli delle misure». 

Le grandi manovre sono in atto, per prendere le distanze da una politica che non ha dato i risultati promessi.

E Stilinga pensa: ma ci voleva così tanto tempo e così tanta sofferenza inflitta a milioni di cittadini europei per rendersi conto che la medicina era sbagliata? 

Ma in Europa gli economisti dormono? o cosa? 
riformulando la domanda: ma in Europa che tipo di economisti lavorano? nazisti? 

E questi economisti una minima infarinatura anche grezza di storia l'hanno? 

A ben vedere la crisi economica iniziata nel 2007 e che perdura fino ad oggi è stata pessimamente governata e solo la stitica visione di politici di destra e di economisti cari alla Trirateral e al Bilderberg Club posso giustificare tale nefasta permanenza.

Inoltre, Stilinga si chiede: ma possibile che tali professoroni ed espertoni europei non ragionino con la propria capoccia? possibile che si bevano il verbo inconfutabile della Trirateral e dei ricconi idioti del Bilderberg?
Ma un paio di giri nella realtà costoro se li fanno qualche volta? 

Che vergogna!gente esperta di incompetenza e completamente avulsa al reale, si mortifichino! e chiedano scusa, oltre che restituire gli stipendi che, a questo punto, rubano ai contribuenti europei. 

Crisi, i dati dicono che dare più soldi agli ultimi conviene - Stefano Feltri - Il Fatto Quotidiano

Crisi, i dati dicono che dare più soldi agli ultimi conviene - Stefano Feltri - Il Fatto Quotidiano


 Semplice: si basa sugli studi più recenti dell’Unione europea, sui numeri. Juncker, presidente dell’Eurogruppo (il coordinamento dei ministri economici dell’Eurozona), indica due punti: l’euro avrebbe dovuto ridurre gli squilibri sociali, e non è successo; la disoccupazione in Europa è drammatica (11,7 per cento, picco del 26,2 in Spagna) e serve un salario minimo europeo.
Nella crisi la gabbia della moneta unica sta in effetti contribuendo ad aumentare la disuguaglianza. Lo ha stabilito un’analisi della Commissione europa del 18 dicembre: se si guardano i deficit e i surplus delle partite correnti – alcuni Paesi esportano più di quanto importano (Germania), altri il contrario (Grecia prima del crollo dei consumi – si scopre che gli squilibri sono dovuti soprattutto a flussi finanziari favoriti dalla convergenza dei tassi di interesse. 
Tradotto: alcuni Paesi come Grecia e Italia, grazia all’ombrello della moneta unica, hanno potuto indebitarsi pagando meno di quanto avrebbero dovuto. E da lì derivano i problemi da risolvere oggi. Quando il mercato si è svegliato dalla bolla della fiducia (che teneva bassi i tassi rendendo conveniente indebitarsi), i Paesi dell’Unione hanno invece cercato di correggere la bilancia dei pagamenti. E “la maggior parte dell’aggiustamento si è avuto dal lato dei Paesi in deficit attraverso la compressione degli investimenti e dei consumi”.
 Semplificando: gli squilibri di competitività tra Germania e Grecia (e Italia) si potevano risolvere in due modi: o alzando i salari tedeschi o riducendo quelli italiani e greci. Ha vinto la seconda ipotesi. Quindi Juncker ha ragione, la promessa di fondo dell’euro non è stata rispettata.
Come correggere il tiro? Per esempio intervenendo sul salario minimo
Secondo la teoria il salario minimo alza il prezzo del lavoro meno qualificato, facendone diminuire la domanda (quindi sale la disoccupazione) e rende relativamente più conveniente assumere lavoratori più qualificati. Inoltre sale il prezzo delle merci, si riduce la domanda e dunque la produzione, rendendo necessari meno lavoratori. E, ancora una volta, sale la disoccupazione dei lavoratori poco qualificati che si volevano tutelare. 
Questa è la teoria. Che in Europa si dimostra falsa, dice lo studio su “Sviluppo e sviluppi sociali in Europa” presentato lunedì dalla Commissione europea. 
Si scopre che in Europa, dati 2010, c’è una correlazione positiva tra salario minimo e percentuale di reddito da lavoro
Più è alto il salario, maggiore la quota di ricchezza che resta ai lavoratori. Si riduce anche la disuguaglianza nella società (misurata dall’indice di Gini). E, quel che più conta, nel 2010 sin Europa si è registrata una correlazione positiva tra salario minimo e occupazione dei lavoratori poco qualificati. La rigidità salariale ha addirittura aiutato i lavoratori più deboli a trovare un posto (o a non perderlo), al contrario di quanto previsto dalla teoria.
In Europa 20 Paesi hanno un salario minimo, ma non c’è uno standard comunitario che eviterebbe competizioni al ribasso tra i Paesi: in Francia vale il 47,4 del salario medio, in Spagna il 34,6. 
In Italia non c’è
Vigono in contratti nazionali di categoria che fissano gli standard. Ma con l’apprendistato si permette alle imprese di pagare meno di quanto fissato dal contratto per cinque anni, praticamente a parità di mansioni, visto che il lavoratore deve apprendere. E le parole di Juncker sono state accolte con una certa freddezza.
E Stilinga pensa che il reddito minimo esistente in Europa ma non Italia sia la base minima di civiltà di una istituzione come lo Stato.
Pare che dall'Europa si debbano accettare solo le botte da orbi, necessarie dicono per evitare il peggio, tipo fallimento economico, ma quando si tratta di innalzare l'asticella dei diritti anche economici minimi, visto che questo sistema italiano ed europeo si basa sul capitalismo e sul consumismo, allora le cose non valgono più: il peggio dell'Europa i governi lo fanno decreto legge, il meglio lo lasciano nel totale dimenticatoio a discapito non solo dei più bisognosi di cui questi arroganti politici se ne fregano, ma anche a discapito della stessa economia. Stilinga crede che i politici siano totalmente pazzi ed alieni.