La strada da seguire per creare più lavoro di Luciano Gallino


LA STRADA DA SEGUIRE PER CREARE PIÙ LAVORO (Luciano Gallino).

MENTRE le cifre della disoccupazione sono sempre più drammatiche, il governo non pare avere alcuna idea per creare d’urgenza un congruo numero di posti di lavoro. I rimedi proposti alla spicciolata, dalla riduzione del cuneo fiscale alle facilitazioni per creare nuove imprese, dagli sgravi di imposta per chi assume giovani alla semplificazione delle procedure per l’avvio di cantieri e grandi opere, non sfiorano nemmeno il problema. Per di più il governo sembra sottovalutare la gravità della situazione.
 La disoccupazione di massa rappresenta tutt’insieme un’enorme perdita economica, uno scandalo intollerabile dal punto di vista umano, e un minaccioso rischio politico. 
Sotto il profilo economico, quasi tre milioni di disoccupati comportano una riduzione del Pil potenziale dell’ordine di 70-80 miliardi l’anno.
 Anche se ricevono un modesto reddito dal sussidio di disoccupazione o dai piani di mobilità, i disoccupati sono lavoratori costretti loro malgrado alla passività. Non producono ricchezza sia perché non lavorano, sia perché i mezzi di produzione, cioè gli impianti e le macchine che potrebbero usare, giacciono inutilizzati. 
Un’altra perdita economica deriva dal fatto che lunghi periodi di disoccupazione comportano che le capacità professionali si logorano e sono difficili da recuperare.
 Dal punto di vista umano la disoccupazione di massa, insieme con la povertà che diffonde, è uno scandalo perché i loro effetti, come ha scritto Amartya Sen, scardinano e sovvertono la vita personale e sociale.
 Elementi fondamentali di questa, dall’indipendenza personale alla possibilità di accedere per sé e i figli a una vita migliore, dalla realizzazione di sé alla sicurezza socio-economica della famiglia, sono strettamente legati alla disponibilità di un lavoro stabile, dignitosamente retribuito. 
Quando esso viene a mancare, anche tali elementi crollano, e la persona, la famiglia, la comunità sono ferite nel profondo delle loro strutture portanti. 
Quanto al rischio politico, qualcuno dovrebbe ricordarsi che uno dei fattori alla base dell’ascesa del fascismo e ancor più del nazismo è stata la disoccupazione di massa. 
E la capacità di ridurla mostrata da tali regimi dopo la crisi del ’29 è una delle ragioni del sostegno popolare di cui hanno goduto fino alla guerra che li ha abbattuti.
 Di certo oggi né l’uno né l’altro dei due regimi avrebbero la stessa faccia. Ma i sintomi di autoritarismo che affiorano in Europa, e i movimenti di estrema destra dagli alti tassi elettorali in almeno dieci Paesi, non sono da sottovalutare. 
Sperando che qualche movimento non cominci a promettere “ridurrò la disoccupazione a zero”. La promessa che fece e poi mantenne Hitler, fra il 1933 e il ’38.
 Poiché le austere ricette dei tecnici finora hanno aggravato il tasso di disoccupazione anziché ridurlo, sarebbe ora di pensare a qualcosa di più efficace, e magari sperimentarlo
Ho fatto riferimento altre volte all’idea che sia lo Stato a creare direttamente occupazione, in merito alla quale esistono solidi studi. Tempo fa si chiamavano schemi per un “datore di lavoro di ultima istanza”, ma oggi si preferisce chiamarli schemi di “garanzia di un posto di lavoro” (job guarantee, JG); il che non significa affatto una garanzia per quel posto di lavoro, ma per un posto di lavoro dignitoso e ragionevolmente retribuito. Coloro che elaborano simili schemi sono economisti e giuristi americani, australiani, canadesi, argentini, indiani; i quali, diversamente dai nostri governanti di oggi e di ieri, sembrano tutti aver meditato sull’articolo 4 della nostra Costituzione, quello per cui “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”: non del lavoro, si noti, di cui tratta invece l’articolo 35. Il primo mai attuato, il secondo in via di estinzione nella legislazione e nelle relazioni industriali. Uno schema di JG prevede che in via di principio esso sia accessibile a chiunque, essendo disoccupato, vuole lavorare ed è in grado di farlo. 
Di fatto sarebbe inevitabile, visti i numeri in gioco, dare la preferenza a qualche strato di persone in peggiori condizioni di altre, quali, per dire, i disoccupati di lunga durata. 
L’attuazione di uno schema di JG richiede un’agenzia centrale che stabilisce le regole di assunzione e i livelli di retribuzione, e gran numero di imprese (o centri di servizio o cooperative) a livello locale che assumono, al caso addestrano e impiegano direttamente i lavoratori, oppure li assegnano a imprese locali in progetti di immediata e rilevante utilità collettiva. 
Dando la preferenza a settori ad alta intensità di lavoro e bassa intensità di capitale, dai beni culturali ai servizi alla persona, dal recupero di edifici e centri storici alla ristrutturazione di scuole e ospedali.
 I centri locali trattano con le imprese le condizioni a cui esse possono impiegare i lavoratori del programma, dalla partecipazione ai costi del lavoro fino all’eventuale passaggio del dipendente dal pubblico al privato. 
Trovare le risorse per finanziare simili schemi è una questione complicata, nondimeno vari studi attestano che non è impossibile risolverla. Prima però di trattare tale tema c’è una premessa inderogabile: deve manifestarsi la volontà politica di affrontare con nuovi mezzi la catastrofe disoccupazione. Chiedere a un governo neoliberale di esprimere una simile volontà è forse troppo, ma le crisi sono sia uno stimolo, sia una buona giustificazione per cambiare idee e politiche. 
C’è una novità a livello europeo che dovrebbe indurre a discutere di simili schemi, e magari a sperimentarne qualcuno in singole regioni. Ai primi di settembre 2012 si è svolta a Bruxelles una conferenza internazionale sulle politiche del lavoro, organizzata dalla Commissione europea. Una sessione era dedicata a “La garanzia di un posto di lavoro – Concetto e realizzazione”. Hanno perfino invitato a parlare uno degli studiosi più noti e polemici in tema di JG, l’australiano Bill Mitchell. Posto che nei programmi di JG rivivono le teorie di Keynes in tema di politiche dell’occupazione, nonché la memoria del successo che gli interventi statali ebbero durante il New Deal rooseveltiano, aprire alla discussione di tali programmi uno dei templi della teologia neo-liberale, qual è la Commissione europea, è un segno che qualcosa sta cominciando a cambia-re sul fronte ideologico delle politiche del lavoro. 
Il documento base della sessione in parola formula varie domande: “Quali sono i maggiori ostacoli in Europa alla realizzazione di schemi di garanzia d’un posto di lavoro… volti ad affrontare la crisi della disoccupazione? Possono tali ostacoli venire superati? In quali aree potrebbero o dovrebbero essere sviluppati degli impieghi pubblici per disoccupati? Quanto tempo ci vorrebbe prima che a un disoccupato sia dato un lavoro nel settore pubblico?”. Sono domande a cui anche il nostro governo dovrebbe cercare di dare risposta, meglio se non soltanto in forma cartacea. Dopotutto, ce lo chiede l’Europa.
Da La Repubblica del 03/11/2012.
E Stilinga chiede a Mario Monti e al suo Governo:" Che c***o state facendo? e che c***o aspettate a rilanciare l'occupazione italiana?"

Se Monti dicesse: “Trovate quei soldi, cazzo” - Antonio Padellaro - Il Fatto Quotidiano

Se Monti dicesse: “Trovate quei soldi, cazzo” - Antonio Padellaro - Il Fatto Quotidiano




Gentile professor Monti, penso che a questa lettera non risponderà mai o forse neppure la leggerà. Non certo per mancanza di garbo. Lei è persona assai cortese e da quando gli italiani la frequentano non le hanno mai sentito pronunciare una parola men che levigata, anzi vien da pensare che la sera, prima del sonno del giusto, lei rifaccia la piega a sostantivi e avverbi con il ferro da stiro e una spruzzatina di amido. Siete tutti forbiti e irreprensibili, voi tecnici di governo.
Sere fa la tv mostrava una giornalista di “Servizio Pubblico” nel vano inseguimento di un ministro, credo fosse Profumo, per chiedergli qualcosa a proposito dei sacrifici richiesti sempre agli stessi mentre in troppi se la spassano. Domande che forse Sua Eccellenza neppure poteva percepire, immerso come sembrava in una felice condizione spirituale, del resto consona al suo cognome. E quel sorriso stampato che portava in processione, con al seguito trafelate salmerie di segretari e addetti, era già una risposta: io sono io e voi non siete niente.
Ho preferito, presidente Monti, evitare la celebre espressione del marchese Onofrio del Grillo a lei certamente nota, per uniformarmi allo stile della casa, anche se, le confesso, mi sento ribollire il sangue come, credo, tanti miei concittadini. Infatti, se sopravvive, come dicono, una certa fiduciaverso la sua persona (e a ciò concorre il ricordo ancora vivido del suo predecessore), la crescente iniquità delle misure adottate dal suo governo è ogni giorno di più intollerabile.
 C’è un limite tuttavia che non dovrebbe mai essere superato ed è il rispetto per la sofferenza degli altri, quando questa sofferenza è oltre ogni limite. Negare trecento milioni ai malati di Sla e alle loro infelici famiglie è un atto scellerato. 
Trecento milioni sono una goccia nel mare della finanza pubblica, un piccolo osso da sottrarre alle fauci della casta, la metà del tesoretto che a Montecitorio non sanno come sperperare.
E non veniteci a parlare di risorse da reperire a saldi invariati o di compatibilità di bilancio, perché di fronte alla tragedia di quelle persone è più onesto mostrare la faccia di un governo “maledetto” (lo ha detto lei) piuttosto che rifugiarsi in vomitevoli scuse. 
Se mi leggesse, gentile professore, le chiederei: è troppo sperare di vivere in un paese civile dove un premier possa sobriamente chiedere al signor ministro dell’Economia: “Trovate subito quei soldi, cazzo!”?
Il Fatto Quotidiano, 4 Novembre 2012
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