La politica di casta in Italia

Da Il Fatto Quotidiano

“Mediocracy”, la dura legge della Casta


Uno studio inedito sui meccanismi di selezione dei parlamentari rivela perché abbiamo la peggiore classe politica di sempre: la più ignorante, la più vecchia, la più assente e la più pagata al mondo

La più vecchia, la più assenteista, la più costosa tra i paesi sviluppati. E insieme, la meno istruita e preparata nella storia della Repubblica. In altre parole “la più mediocre classe politica che l’Italia abbia avuto dal 1948”. Niente meno. Questo giudizio, durissimo, non arriva da una poltrona rossa di Ballarò o da uno SpiderTruman della rete ma è la convinzione di un economista italiano di fama mondiale che si è posto un problema: capire perché l’insieme dei parlamentari italiani si trasformi “matematicamente” nella casta. E ce l’ha fatta. Antonio Merlo, direttore del dipartimento di Economia della University of Pennsylvania, ha scoperto la formula della “mediocrazia” (leggi l’intervista a Merlo)”, cioè della propensione tutta italiana a far sedere in Parlamento non i migliori ma gli “unfit to lead”, gli inadatti a governare, per usare una celebre frase usata dall’Economist per definire Berlusconi. Ilfattoquotidiano.it ha potuto leggere in anteprima questo workpaper inedito che farà discutere ben oltre gli ambienti accademici. Si chiama appunto “mediocracy” e termina con un modello di calcolo che potrà diventare un simbolo per chi vuole cambiare le cose:

Guardatela bene, anche senza capirla. La si potrebbe perfino appendere dietro alla scrivania o stampare su t-shirt, come la legge di gravità. Perché questa, signori e signore, è la legge della casta italiana. Dentro c’è tutto: c’è il berlusconismo, ci sono le leggi ad personam, il conflitto di interessi, i privilegi, i faccendieri, la corruzione. Risponde con i numeri alle domande che assillando gli italiani: chi abbiamo mandato in parlamento? Perché lavora per i propri privilegi e non per noi? Perché guadagna tanto e rende poco? Perché tutti votano le leggi utili a uno solo? A cosa servono gli affaristi nella politica?
Ebbene il risultato dei calcoli complessi fatti da Merlo confermano che l’Italia ha bisogno di una rivoluzione istituzionale e non di qualche taglio, di un intervento urgente sulla legge elettorale perché quella attuale (il sistema elettorale proporzionale a liste chiuse) incentiva “in modo perverso” i partiti a selezionare “non i migliori candidati possibili ma i più mediocri, i cosiddetti yesman, utili ad assecondare il partito e il capo e a votare compatti anche quello che un cittadino intellettualmente onesto mai voterebbe”. Ecco perché secondo Merlo “i provvedimenti indicati nella bozza di riforma di Calderoli vanno sicuramente nella direzione giusta ma rischiano di restare un “contentino” senza una riforma istituzionale del sistema politico”.
In ogni caso, da oggi, l’espressione “era meglio la Prima Repubblica” non è più un modo di dire. E’ una certezza matematica. Costruita mettendo nero su bianco una serie di variabili come l’età, il livello di istruzione, il tasso di crescita delle indennità parlamentari, i tassi di assenteismo dei nostri “eletti”.
In pratica un sistema di coordinate che descrive puntualmente quella fuga in avanti della casta rispetto al Paese reale e da quello che avviene in altre nazioni. In Italia c’è una sorta di regno autonomo della mediocrazia, dove in sessant’anni le retribuzioni dei governanti sono cresciute del 1.185% con una media annua del 10%, mentre quelle dei governati solo di qualche punto percentuale. Dove i governati hanno sudato per garantire ai figli un’istruzione universitaria mentre tra i governanti il numero di laureati scendeva drasticamente. Di questo passo, si arriverà presto al paradosso che il corpo degli eletti sarà meno istruito dei suoi stessi elettori, suggellando così il definitivo trionfo della mediocrazia.



I PIU’ VECCHI E MENO ISTRUITI
Chi siede alla Camera e al Senato oggi è più vecchio. Prima del 92-94 si entrava in Parlamento con un’età media di 44,7 anni contro i 48,1 della Seconda. Oggi la media è 50 anni. Decisamente il Paese con la classe politica più vecchia d’Europa e che tende ancora a restare in Parlamento di più sganciandosi dalla tendenza delle altre nazioni a rinnovare la classe dirigente puntando su eletti mediamente più giovani. Il tasso di ricambio in Parlamento, calcolato come la proporzione dei nuovi entranti nel periodo 1953-2008, si è attestato intorno al 40 per cento. Nella II Legislatura (1953-58) era stata del 37,6 per cento, mentre aveva raggiunto la quota minima del 26,3% nella VIII Legislatura (1979- 1983). Nella XII Legislatura (1994-1996), che ha segnato l’inizio della Seconda Repubblica, il tasso di ricambio è balzato al 69,5 per cento e da allora si è mantenuto costante attorno al 45-50 per cento.

Il raffronto tra retribuzioni e tassi di istruzione è scioccante: le indennità parlamentari sono cresciute del 10% l’anno mentre la quota di laureati è scesa dello 0,5% annuo.


* Fonte: The Ruling Class (Edizioni Egea – Università Bocconi 2010) – A. Merlo, V. Galasso, M. Landi, A. Mattozzi


IGNORANTI IN AUTO BLU
Più vecchi e tuttavia meno preparati. La percentuale dei nuovi eletti con una laurea è significativamente diminuita nel corso del tempo con un brusco crollo nel passaggio tra la prima e la seconda Repubblica: dal 91,4% nella I Legislatura, al 64,6% all’inizio della XV Legislatura. In pratica la casta è riuscita ad andare contro la tendenza nazionale che, negli stessi anni, ha visto aumentare sensibilmente la quota di popolazione istruita. Di questo passo, si arriverà al paradosso che il corpo degli eletti sarà meno istruito dei suoi stessi elettori.

ASSENTEISTI SI’, MA STRAPAGATI
Vecchi, impreparati ma meglio pagati di tutti. A dispetto della qualità del ceto politico in picchiata, le indennità parlamentari sono schizzate alle stelle sganciandosi da quanto accadeva nel resto del Paese. In Italia l’indennità parlamentare annua, in termini reali (misurata in euro del 2005), è aumentata da 10.712 euro nel 1948 a 137.691 euro nel 2006, il che significa un aumento medio del 9,9 per cento all’anno e un incremento totale di 1.185,4 per cento (negli Stati Uniti l’incremento annuale è stato dell’1,5 per cento e l’incremento totale del 58 per cento!).

Entrare nel Parlamento Italiano conviene sempre: i redditi totali dei deputati nel primo anno di attività in Parlamento aumentano del 77% rispetto a quelli dell’anno precedente. Dal 1985 al 2004, in Italia il mestiere del Parlamentare è stato particolarmente redditizio. Infatti, il reddito reale annuale di un parlamentare è cresciuto tra 5 e 8 volte più del reddito reale annuale medio di un operaio, tra 3,8 e 6 volte quello di un impiegato, e tra 3 e 4 volte quello di un dirigente. Dalla fine degli anni 90’, il 25% dei parlamentari guadagna un reddito extraparlamentare annuale che e’ superiore al reddito della maggioranza dei dirigenti.

Interessante anche l’effetto deteriore sulla partecipazione derivante dal possibilità di cumulare reddito privato professionale e indennità di carica. Ogni singolo anno trascorso in Parlamento incrementa i redditi addizionali all’indennità parlamentare del 4,2 per cento nel primo anno in Parlamento. Questo spiega anche lo scarso impegno degli eletti in aula: i calcoli dicono che in media ogni 10mila euro di extra reddito riduce la partecipazione in Parlamento dell’1%.

IL BERLUSCONISMO: L’INIZIO DELLA FINE
Ultima riflessione riguarda le date del declino di tutti gli indici che si possono considerare “positivi” nella definizione della classe politica e la crescita costante di quelli che si possono definire “negativi”. L’andamento delle curve relative a età, istruzione, assenteismo e indennità presenta uno snodo netto tra il 92 e il 94. Da allora ogni linea segue una tendenza diversa e contraria rispetto al passato, peggiorativa rispetto ai livelli di qualità della Prima Repubblica. “Allora – ragiona Merlo – sulle ceneri di Tangentopoli nasceva il partito di Silvio Berlusconi che ha reclutato una classe dirigente diversa dal passato proponendo al posto della rappresentanza politica del Paese il modello privatistico dello stato-azienda. Da allora le leggi ad personam si sono moltiplicate, i mali atavici dell’assenteismo e degli alti costi della politica si sono acuiti e il Paese è arretrato economicamente. L’insieme di queste spinte divergenti ha contribuito ad alimentare la mediocracy, la forma di governo che non premia i migliori e non fa cadere i peggiori”.

Voli blu è spreco record

Io volo blu ma paghi tu (l'Espresso - 7 luglio 2011)





Voli blu, è spreco record

di Gianluca Di Feo – 30 giugno 2011

A parte i nuovi giocattoli del Cavaliere, ci sono più di trenta aerei a disposizione del governo, sempre a spese nostre. Hanno fatto 8.500 ore di volo nel 2010, il massimo di sempre: per soddisfare ogni capriccio di ministri, viceministri e sottosegretari. Ecco tutti i numeri della vergogna. Il regalo potrebbe venire consegnato a fine settembre, giusto in tempo per festeggiare il suo settantacinquesimo compleanno: un dono coi fiocchi, degno dell'anniversario speciale. Anche perché a pagarlo saranno tutti gli italiani, che hanno contribuito ad acquistare il nuovo elicottero presidenziale di Silvio Berlusconi. Alla faccia dei tagli e del rigore, sulla pista di Ciampino atterrerà uno sfavillante Agusta-Westland Aw-139 con interni in pelle e optional hi-tech: la nuova ammiraglia del trasporto di Stato. Un gioiello potente, silenzioso, sicuro e lussuoso che offre a cinque passeggeri il meglio del meglio, dall'aria condizionata agli schermi al plasma. E il Papi One non resterà solo: confermando la passione del Cavaliere per le gemelle emersa dall'inchiesta sul bunga bunga, nel giro di qualche mese sarà raggiunto da una seconda fuoriserie dei cieli. Un altro Aw-139, con lo stesso sfarzo e qualche poltrona in più per addolcire le trasferte di governo con lo staff di consiglieri (e spesso segretarie molto particolari). La coppia di macchine dovrebbe costare intorno ai 50 milioni di euro, ma il contratto è stato abilmente nascosto nei bilanci, come accade per tutta la contabilità dei jet di Stato diventati il privilegio supremo della politica.
Potersi imbarcare sugli aerei blu è lo status symbol numero uno, con la corsa di ministri e sottosegretari a prenotare decolli illimitati. Nel 2010 lo stormo che si occupa delle trasferte governative ha bruciato quasi 8.500 ore di volo, segnando un nuovo record dello spreco di denaro pubblico: è come se ci fosse stato un velivolo sempre in cielo, notte e giorno, senza sosta per un intero anno. Un viaggio ininterrotto lungo 365 giorni: quanto basta per andare su Marte e tornare indietro. Un paragone ridicolo? Anche i nostri politici spesso ordinano missioni assurde: «Per due volte un membro dell'esecutivo ha preteso un jet che lo portasse da Milano Linate a Milano Malpensa. Il Falcon è partito da Roma Ciampino, è atterrato a Linate per caricare l'autorità e ha compiuto la trasferta di cinque minuti per poi rientrare nella capitale. Una spesa senza senso solo per assecondare i capricci di un ministro», racconta a "l'Espresso" un alto ufficiale dell'Aeronautica.
La manovra che riesce meglio ai ministri è proprio quella che ogni weekend li fa atterrare accanto a casa. Mentre il costo di questi sfizi d'alta quota resta un mistero, protetto dai burocrati di casta. Il valore commerciale delle ore di volo - ossia quello che si pagherebbe per noleggiare gli stessi aerei da una compagnia privata - è di oltre 100 milioni di euro l'anno. Ma sull'amministrazione pubblica pesano soltanto carburante, ricambi e manutenzione per un totale che dovrebbe comunque superare i 60 milioni.

Non solo: i politici viaggiano due volte a sbafo. Palazzo Chigi si dimentica di rimborsare le somme spese dall'Aeronautica. E non si tratta di cifre secondarie: lo studio della Fondazione Icsa, il più importante think tank italiano di questioni strategiche, mostra un debito di ben 250 milioni di euro. L'analisi presentata dal generale Leonardo Tricarico, ex comandante dell'aviazione ed ex consigliere di Berlusconi, evidenzia come in un decennio la presidenza del Consiglio si sia lasciata alle spalle una montagna di quattrini anticipati dai militari per le trasferte ufficiali e le gite dell'esecutivo. Solo lo scorso anno l'Aeronautica si è accollata 25 milioni di euro per i viaggi a scrocco; nel 2009 sono stati 23 milioni e nel 2008 altri 20, quasi tutti sborsati dopo il ritorno di Silvio al potere. Il primato risale al vecchio esecutivo del Cavaliere, con i 30 milioni regalati nel 2004 per i decolli frenetici della campagna elettorale delle Europee che videro il trionfo del centrodestra.

Ma queste somme rappresentano soltanto una parte dello sperpero alimentato dagli habitué dei voli blu: sono l'extra dell'extra. Ogni dicembre la Difesa preventiva uno stanziamento molto frugale per l'anno successivo, assecondando i buoni propositi di Giulio Tremonti: per il 2011 sono stati ipotizzati 4 milioni. Una cifra beffarda, che basta appena per qualche mese di combustibile. Così a giugno si rifanno i calcoli e si cerca di ripianare le fatture per lo sfrecciare dei politici alati. Che sono più veloci dei fondi e si lasciano una scia di euro bruciati oltre tutti i limiti. Nel 2009 ci sono state 1.963 "missioni di Stato": più di cinque al giorno, includendo sabati e domeniche. Un attivismo impressionante, proseguito nel primo trimestre 2010 con altre 486 spedizioni. Impossibile decifrare quale sia stata la spesa globale: si ritiene che nell'ultimo decennio abbia superato di gran lunga gli 800 milioni.

Oltre ai dieci jet extralusso del 31 stormo (3 Airbus e 7 Falcon), vengono destinati ai voli dei sottosegretari e dei ministri quasi venti Piaggio P180, le "Ferrari dei cieli" con motori a turboelica. Invece quello degli elicotteri invece era un tasto dolente per i baroni volanti. Il vecchio Sikorsky presidenziale, con sobrie poltrone di pelle e interni di radica, a Silvio non piaceva proprio: troppo rumoroso, senza comfort, niente tv né musica. E' in servizio da oltre 25 anni e per quanto il presidente Obama usi lo stesso modello, il nostro premier non c'è mai voluto salire: va bene per il papa, come navetta tra il Vaticano e Castel Gandolfo, non per il Papi. E forse quell'icona della Madonna nel salotto di bordo che veglia sui passeggeri - voluta da Karol Wojtyla - non si addice all'allegra comitiva femminile che spesso accompagna il Cavaliere. Così Berlusconi è ricorso al "ghe pensi mi": ha continuato a volare con il suo elicottero privato, un Agusta Aw139 della flotta Fininvest, spazioso, comodoso e con gadget hi-tech. Il mezzo è del Biscione, ma dal 2008 le spese le ha pagate la presidenza del Consiglio, ossia i cittadini: ogni spostamento è diventato volo di Stato a carico nostro.

La questione però è stata affrontata e risolta, in gran segreto. Il governo ha comprato due Aw139 ancora più moderni, più lussuosi e più ricchi di optional di quello del Biscione. Tutto in silenzio, forse per non suscitare le ire di Tremonti. Un anno fa, il ministro Elio Vito, rispondendo ad alcune interrogazioni parlamentari presentate dopo un articolo de "l'Espresso" sull'aumento del budget per i voli blu, disse sibillinamente: «Di quei fondi, 31,3 milioni sono destinati a investimenti». Che significa? Mistero. Il bilancio della Difesa 2011 ha poi magnificato il taglio alle spese per le trasvolate ministeriali: «Ben 33 milioni in meno, con una riduzione del 90 per cento». Miracolo: la casta ha deciso di rimanere con i piedi per terra? Assolutamente no. La postilla mimetizzata in un allegato spiega l'arcano: «C'è un decremento a seguito del completamento del programma di acquisizione di due elicotteri per il trasporto di Stato». Ecco la risposta: nessuna economia, ma un investimento in benessere del premier. Il prezzo finale dovrebbe essere vicino ai 50 milioni, perché gli elicotteri avranno anche dotazioni speciali di sicurezza. Il primo andrà al premier, il secondo servirà anche per Benedetto XVI: saranno il Papi One e il Papa One. Ma a guadagnarci sarà soprattutto Silvio, che potrà vendere l'elicottero Fininvest: quando nel 2008 è tornato a Palazzo Chigi ha ceduto il suo Airbus personale, visto che quello presidenziale era più bello e totalmente gratuito. Tanto a pagare ci pensano i cittadini.

IL GENERALE CAMPORINI: OBBEDIAMO, MA CHE SPRECO

«In una vecchia legislatura i presidenti delle Camere erano entrambi milanesi, ma ogni lunedì mattina l'Aeronautica doveva mandare due aerei per portarli a Roma: uno decollava da Linate alle 7, l'altro alle 7.30. I due non gradivano viaggiare insieme e noi non potevamo davvero imporgli di farlo. Certo, così di sicuro non si economizzavano le risorse». Il generale Vincenzo Camporini ormai non si scandalizza più: nella sua vita d'ufficiale - prima pilota, poi comandante dell'Aeronautica e infine di tutte le forze armate - ha visto decollare migliaia di voli di Stato. «Mai però missioni che fossero formalmente illegittime. Quando riceviamo un ordine dalla presidenza del Consiglio noi militari dobbiamo solo obbedire. E anche l'imbarco di familiari o di altre persone, nel caso di decolli autorizzati, alla fine non rappresenta un aumento di costo. Il problema è soprattutto di opportunità: in un momento di crisi e di tagli ci sono molti voli che lasciano perplessi».



Il generale adesso ha presentato il dossier della Fondazione Icsa in cui si evidenziano i 250 milioni di euro spesi per queste missioni nell'ultimo decennio e mai pagati da Palazzo Chigi. «E' una situazione molto critica. Ci sono anni in cui all'Aeronautica viene rimborsato solo un quinto dei fondi usati per le trasferte del governo, ma quando viene chiesto di far partire un jet non possiamo dire di no e bisogna trovare le risorse. Così per fare volare i Falcon dei ministri dobbiamo tenere fermi gli aerei che poi vengono chiamati a svolgere missioni operative per la difesa dei confini o in Afghanistan o come in questi mesi in Libia: siamo costretti a rinunciare all'addestramento dei piloti o alla manutenzione dei velivoli». Camporini spiega che il carburante è il costo minore: gli aerei devono rispettare le revisioni programmate e hanno sempre un costo. «Ricordo che dopo le polemiche per la trasferta al Gran Premio di Monza di Rutelli e Mastella, i politici non volevano usare più l'Airbus presidenziale: era troppo vistoso e temevano scandali. Allora tutti chiedevano il più piccolo Falcon che non dava nell'occhio. Ma anche se restavano negli hangar, quegli Airbus erano un costo». Per l'alto ufficiale però questo è solo un capitolo di una situazione della Difesa che attende una riforma, razionalizzando tutto. «E rinunciando alle spese inopportune, soprattutto quando si può usare un volo Alitalia invece che il jet di Stato».







http://espresso.repubblica.it/dettaglio/voli-blu-e-spreco-record/2154813



http://espresso.repubblica.it/dettaglio/voli-blu-e-spreco-record/2154813//1

La rivolta degli schiavi che fa tremare la Cina. Tra gli schiavi del Guangdong rivolta nella fabbrica del mondo

La rivolta degli schiavi che fa tremare la Cina. Tra gli schiavi del Guangdong rivolta nella fabbrica del mondo


24 giugno 2011


ZENGCHENG NEL centro della capitale mondiale dell' industria tessile, simbolo del «sistema Cina», c' è un cartello spaccato sull' asfalto. Dice «Servire il Popolo» ed è tra gli slogan storici del partito comunista cinese.
 
Le rivolte da settimane scuotono la seconda potenza economica del pianeta. Da qualche giorno sembrano represse, ma l' icona spezzata della propaganda post-maoista è ancora qui, non rimossa, sulla strada.
 
È sorprendente che qualcuno a Zengcheng abbia avuto il coraggio di abbattere pubblicamente il verbo sacro della propaganda. Ancora più strano è però che la polizia e l' esercito del Guangdong, schierati per far cessare con le cattive le sommosse, abbiano dimenticato in mostra cocci tanto imbarazzanti.
 
Sono la testimonianza delle due Cine che dopo trent' anni si fronteggiano al primo avviso di rallentamento della crescita. La prima è quella ufficiale, in preda all' esaltazione rossa e patriotticamente arruolata per celebrare il 90º anniversario della fondazione del partito-Stato.
La seconda è quella sociale, consumata dalla delusione delle promesse del capitalismo comunista e collettivamente mobilitata per conquistare diritti altrove riconosciuti dalle democrazie.
Il Guangdong è l' epicentro dello scontro e non è un caso se il vento delle rivolte di massa si è alzato dalla cassaforte del miracolo cinese. Il "motore del Sud" negli ultimi cinque anni è cresciuto a una media record del 12,4%. Per i prossimi cinque ha dovuto ridimensionare le stime all' 8%, proiettando l' ombra dell' incertezza su una frenata nazionale al 7%. La regione-fabbrica produce però l' 11% del Pil cinese e un terzo delle esportazioni: per questo il messaggio che il "Guangdong non è felice", bruciante smentita della campagna "Felice Guangdong" lanciata a gennaio dal governatore Wang Yang, agita il potere di Pechino.
La crisi, nell' appiglio estremo della resistenza economica globale, non è del resto scoppiata l' altra settimana, quando decine di distretti industriali sono stati messi a ferro e fuoco.
 
A Shenzhen il colosso Foxconn da un anno è minato dai suicidi in serie degli operai.I primi scioperi di successo sono scoppiati poco lontano, nelle catene di montaggio delocalizzate della Honda. A Meishan, da lunedì, 4 mila operaie di una fabbrica di borse, che produce per i marchi più esclusivi del pianeta, sono in sciopero contro turni da 12 ore al giorno per 100 euro di paga mensile.
Può dunque apparire anomalo che l' attentissimo governo centrale di Pechino, impegnato nella transizione del potere dal 2012, si sia lasciato sfuggire il controllo della spina dorsale della sua legittimazione. Una settimana di guerriglia urbana, dilagata nello Zhejiang, nell' Hubei e nel Jiangxi, in Cina non si vedeva della rivoluzione di Mao.
L' allarme è però scattato dalla constatazione che non solo il Guangdong non è più felice. Alla colonna meridionale dell' industria si è aggiunta quella delle materie prime, con la grande rivolta del Nord, nella Mongolia Interna delle miniere. E si aggiungono Shanghai ad Est, dove la Borsa non smette di scendere da mesie manca l' energia elettrica per affrontare l' estate, e infine a Ovest anche Chongqing, considerata la nuova frontiera dello sviluppo hi-tech. Qui, stando alla propaganda, le cose vanno a gonfie vele.
Nel Far West defiscalizzato dell' Impero migliaia di capannoni e di grattacieli sono invece deserti, 32 milioni di abitanti vivono intossicati e solo il pugno di ferro di Bo Xilai, principino nascente del partito, frena lo strapotere mafioso delle triadi. Al fallimento dell' "Happy Guangdong", sconvolto dalle nascoste sommosse operaie, corrisponde così il trionfo delle "Lezioni di entusiasmo rosso", esportate da Chongqing per le nuove masse di inarrestabili migranti. Tra i due poli cinesi della produzione e della propaganda non si gioca però solo la sfida tra Wang Yange Bo Xilai, tesi a contendersi l' egemonia nel prossimo Politburo.
Lungo tale rotta, tra le canzoni della bandiera rossa e le sassate delle tute blu, si decide il destino della nazione candidata a guidare il mondo nel secolo contemporaneo. I tremila dirigenti comunisti e gli ottanta milioni di iscritti al partito applaudono al kolossal sulla fondazione del Pcc e si disputano due milioni di copiee duecento titoli sul proprio successo, «regalo sontuoso per il compleanno nazionale». I 280 milioni di migranti interni e i 540 milioni di operai iniziano invece a non accettare più «lo schiavismo di Stato» e a lottare per conquistare «una vita con meno armonia e più dignità».
Solo ora si comincia così a intuire l' inquietudine di Pechino davanti alla minaccia di una Rivoluzione dei Gelsomini, messa in scena a fine gennaio. Il Guangdong, Chongqing, Shanghai e la Mongolia Interna, i quattro poli dell' ascesa cinese, sono sconvolti da crisi locali, ma compongono il quadro di una medesima emergenza nazionale: il passaggio della Cina da un sistema economico fondato sulle esportazioni ad uno basato sul consumo interno e la sua mutazione sociale da universo agricolo a galassia di megalopoli. Zengcheng è un concentrato esplosivo anche di questo azzardo. Nell' ultimo anno, dopo l' aumento degli stipendi medi a 187 euro al mese, il 34% delle aziende ha chiuso e su 818mila residenti, gli immigrati hanno sfondato la soglia di 502mila.
Se l' Occidente avesse proseguito al galoppo, il prodigio dell' Oriente avrebbe potuto riprodursi. Il meccanismo invece s' è inceppato.
A Ovest sono calati gli ordini e saliti i debiti, ad Est si sfoltiscono le fabbriche ed esplode l' inflazione. Affinché il disagio economico muti in dissenso politico e i molti tumulti in una rivoluzione, mancano le forze capaci di sintetizzare un' opposizione. In tutto il Paese appare però evidente la nascita di un blocco sociale accomunato da un' ostilità al potere sconosciuta da decenni. Operai schiavizzati, contadini espropriati, neolaureati disoccupati, colletti bianchi indebitati, migranti senza diritti, anziani senza welfare, dissidenti incarcerati, gruppi etnici colonizzati e aspiranti candidati indipendenti perseguitati, formano un' inedita massa a-ideologica decisa a non festeggiare il prossimo genetliaco della nomenclatura rossa.
 
La Cina scala posizioni all' estero, ma si scopre corrosa da sotterranee debolezze interne: salari inaccettabili, inflazione fuori controllo, prezzi alimentari alle stelle, insufficienza energetica, disoccupazione in crescita, esplosione del divario tra ricchi e poveri, funzionari corrotti, polizia incline agli abusi, costo degli immobili insostenibile, servizi sociali inesistenti.
I nipoti di Mao Zedong si svegliano così avversari dei figli di Deng Xiaoping e una classe dirigente invecchiata si rivela idonea a negare libertà, ma inadeguata a convertire la violenza in salute della crescita. Il partito prende atto che novant' anni, senza riforme strutturali, più che il traguardo di una longevità politica sono il capolinea di un autoritarismo. Giorni fa, mentrei leader di Pechino rivolgevano enigmatici appelli a «migliorare la gestione sociale», un documento della Banca centrale del Popolo ha rivelato che nell' ultimo decennio 18mila funzionari sono scappati all' estero con 90 miliardi di euro e che le proteste di massa sono passate da 9 a 180mila.
L' invincibile partito si autocelebra per succedere a se stesso, compra debiti e ideali stranieri, finge di liberare Ai Weiwei e lascia in cella centinaia di intellettuali indipendenti.
L' infinita e silenziosa Cina è al contrario scossa come mai dopo il 1949e il 1989.A Guangzhou, per individuare gli insorti, le autorità hanno dovuto offrire ai delatori 500 euro e il permesso di residenza. Non era mai successo: un piccolo tesoro in cambio di un grande colpevole. Non è solo che il Guangdongè tutt' altro che "happy": è che Pechino, risolvendo Mao in un ritratto, scopre di non essere più nel cuore dei cinesi. E che a Zengcheng il cartello "Servire il Popolo" può rimanere rotto, davanti ad auto e negozi bruciati. - GIAMPAOLO VISETTI
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/06/24/la-rivolta-degli-schiavi-che-fa-tremare.html